Quella di Sam è una storia che si consuma durante il lockdown. E il confinamiento di Barcellona è stato diverso da quello di Napoli. Meno sceriffi ai balconi, forse, e una sola canzone, sparata a palla da un vicino assatanato. Ho visto che a Napoli (perfino a Napoli!) una hit ai balconi era l’inno italiano e, soprattutto, la canzone che aggiungo a fine post. Io l’ho trovata dolce, l’ho anche mandata a mia madre quando non ci vedevamo da un anno, e un po’ si è commossa anche lei.
Più di ogni altra cosa, il “mio” Sam parla d’amore e di salute mentale. Ma il libro non è mai di chi lo scrive, il vostro Sam potrebbe parlare di qualcos’altro: il precariato giovanile, per esempio. Questa prospettiva mi è piaciuta tantissimo alla presentazione di Magione, perché temevo si notasse meno, cancellata dalle manie di protagonismo del solito Sam.
Ecco, vorrei capire come abbiate affrontato voi gli ultimi due anni, e quanto sia stato facile, o difficile, prendervi cura di chi vi circondava. La nostra sarà sempre una presentazione, eh, non voglio che si trasformi in una seduta di gruppo! Infatti spero che riusciremo addirittura a sorridere di ciò che è stato, con la capacità locale di riuscire a sorridere di tutto, che non voglio sia un cliché, anche perché forse mi ha salvato la vita. Di sicuro l’ha salvata a Serena, l’altra protagonista del romanzo, che continua a starsene in paziente attesa che qualcuno la caghi.
Perché, anche se lei è una privilegiata, siamo stati noi (dovrei dire “siamo state”) a mandare avanti la baracca: chi ha provato a confortare il resto della truppa, chi si è inventato una tombola condominiale per far ridere i bambini, chi ha lasciato la spesa a qualcuno che non poteva permettersela.
Per fortuna Sam, all’inizio del lockdown, non aveva più bisogno di elemosina (e mentre lo scrivo mi viene ‘o friddo ‘n cuollo, come si dice in francese): lui usciva di casa con le buste già piene, poi scoprirete il perché. Però cavoli, se ho imparato qualcosa da tutto ciò che è successo è quanto sia precaria e preziosa la salute mentale, e quanto lo diventi se la casa, il rifugio per eccellenza, per qualcuno si trasforma in una prigione.
Voi cosa avete imparato?
Dai, venitemelo a raccontare! Anzi, “venitecelo”: nessuno mette Sam in un angolo. Io ci ho provato, ma quello sguscia via.
Nel senso: di base lo è, ma non volevo che fosse la storia mia, o di colui che chiamo “il muso ispiratore” del romanzo.
È vero che la prima bozza mi ha fatto da salvagente quando “Sam” non sapevo neanche dove fosse, altro che boschi! Sapevo solo che lui sarebbe stato via per mesi interi, e che trovava normale non riuscire a prevedere quando sarebbe tornato: nel suo mondo fatto di assenze, era strano anche solo che ci fosse qualcuno ad aspettarlo.
Però ho questa teoria: quando si tratta di raccontare una storia nostra, il punto non siamo noi. Lo siamo quando si tratta di noi, della nostra felicità, delle priorità che dobbiamo tenere in mente.
Quando invece si tratta di condividere una storia con qualcun altro, a me piace parlare non solo di me, ma di tutto.
Sapete che i militari afflitti da stress post-traumatico rischiano di strangolare la moglie nel sonno, se quella li sfiora per sbaglio? Io l’ho scoperto con Homeland, insieme alle difficoltà sessuali che possono perdurare molto dopo il ritorno dalla guerra.
Sapete che la maggior parte delle allucinazioni è uditiva? Questo mica ce l’avevo chiaro: quando è capitato a me, di accudire qualcuno che “sentisse una voce”, ho dato subito per scontato che l’allucinato potesse anche… vedere la persona che gli stava urlando in testa.
Infine, come dicevo altrove, c’è una parola per designare i senzatetto, ma non esiste il contrario: come si definisce chi un tetto ce l’ha? Forse ho cercato male io, ma il dizionario dei sinonimi e contrari non mi aiuta.
La storia vera che ha ispirato Sam è tornato nei boschi mi ha insegnato quante cose, dopo anni di lavoro su di me e sul mondo, davo ancora per scontate.
Spero che vogliate scoprirle anche voi.
(La colonna sonora della prima bozza di Sam, imposta dal cantante di strada fuori al portone!)
Mi fa paura scriverlo, ma in questi momenti critici ho il lusso di stare bene, perché ho anche l’altro lusso, che è la chiave, di fare ciò che più voglio al mondo.
Nel mio caso è scrivere, ed è un privilegio incredibile, il fatto che possa dedicarmi solo a questo. Un tipo che mi ha ispirato un certo libro sta cercando di conciliare la stesura della sua autobiografia con la necessità di mangiare: adesso proverà la strada del lavoro part-time, che gli consenta di affittare almeno una stanzetta. È una precarietà difficile da accettare, per lui che viene da un paese in cui a trent’anni hai un lavoro fisso e due figli. Ma lui ritiene ancora più difficile passare una vita ad avere qualcosa che non vuole (tipo un lavoro fisso e due figli), mentre ciò che cerca davvero è una stabilità emotiva. Decliniamoci ciò che desideriamo in termini che abbiano un senso per noi.
Fare ciò che vogliamo non dovrebbe essere un privilegio, ma ho notato che ci sono molte esperienze che, con qualche accorgimento, possiamo viverci anche senza rimandarle a quando avremo più tempo o soldi. Uno dei ragazzi senzatetto che ospitavo nei mesi scorsi è tornato in strada, nonostante le opzioni di alloggio e lavoro che gli sono state presentate (soffre di ansia, e la salute mentale non è ancora gratuita). Mi sa che non ha neanche il coraggio di chiedere l’elemosina. Però ama leggere e non ha mai smesso, nonostante tutto: lo ammiro, perché io al suo posto starei già bestemmiando in trecento lingue diverse, altro che centellinarmi Proust!
Nei limiti del possibile, dunque, dedicatevi a ciò che vi fa stare meglio, fossero anche cinque minuti di danza del ventre! (Sul serio, mi sono iscritta a una scuola online di fusion: ogni volta che alzo un piede da terra viene Archie ad azzannarmelo…). Diceva Watzlawick che il più piccolo dei cambiamenti influisce su un intero sistema.
E fare ogni giorno, almeno un po’, la più accessibile delle cose che amiamo, cambia davvero il quadro.
Visto che sta per uscire Sam, vi comincio a fare uno spoiler: c’è gente che sceglie di vivere in strada.
Una certa persona, nelle circostanze in cui si trova e con la quantità di informazioni che possiede, può decidere per vari motivi che un marciapiede è più allettante del letto sbagliato.
È successo a I., uno dei due ospiti che avevo accolto in collaborazione coi servizi sociali. Avevo prolungato l’ospitalità fino all’ultimo giorno utile, avevo chiesto in giro per trovargli un’altra sistemazione, ma il problema di I., colto e gentile, era l’ansia: quella vera. Per lui era deleterio dormire in un rifugio per senzatetto, e devo anche dire che non era il solo: più di qualcuno, per strada, mi ha spiegato che, piuttosto che andare in questi posti, preferisce pagare otto euro per un ostello (che poi, ‘sti ostelli a otto euro dove sono?). Solo che I. evitava l’unico letto disponibile per un reale problema di salute mentale.
Tra i tanti contatti coinvolti sono riuscita solo a dargli il numero di un signore (della comunità marocchina, la più generosa che abbia incontrato in queste faccende) che metteva a disposizione un garage con bagno annesso: già vi alloggiava provvisoriamente una diciottenne di seconda generazione, rimasta senza lavoro per la pandemia. Purtroppo, quando il compagno di quarantena lo ha contattato, I. ha spiegato che finalmente aveva trovato un lavoro, ma viveva in strada: “Sembrava che gli andasse bene così”, ha spiegato il compagno di quarantena, che ha opinioni tutte sue su questioni del genere.
Ma io ricordo il sollievo mostrato da I. quando gli ho esteso la permanenza fino all’ultimo giorno utile, e mi lascio tormentare dai miei “se”: se gli avessero diagnosticato l’ansia, se quel certificato gli avesse spuntato anche solo un ripostiglio, se solo potesse avere accesso a una terapia gratuita che non fosse il coaching (che è l’unica risorsa dell’associazione a cui si rivolge, e per definizione non si addentra in questioni psicologiche)…
Non vi voglio ingannare: perfino Paul Bloom ammette che non sappiamo perché la terapia funzioni. Forse perché quando vi ricorriamo siamo già alla frutta, e da lì risaliremmo con o senza sostegno. Forse c’è un effetto placebo. Intanto, però, funziona: l’unica cosa che sappiamo per certo, secondo Bloom, è che andare in terapia è meglio che non andarci. Se facessimo prevenzione, poi.
A questo punto non ci resta che capire che la salute mentale è… salute, appunto. Qualcosa di fondamentale per una vita che non sia mera sopravvivenza. Qualcosa di fondamentale, a volte, per la stessa sopravvivenza.
Ripetiamo insieme: la salute mentale è salute. Come tale, deve essere patrimonio comune.
Il mio piano diabolico era quello di approfittare del primo microfono che mi passasse davanti: ma che fosse un passaggio spontaneo, eh. Data la mia modesta altezza, per sottrarre il microfono alla brava presentatrice mi ci sarebbe voluta una scala!
Per fortuna, un microfono mi è stato offerto senza capitolazioni: allora, com’è ovvio, mi sono incartata. Ci ho messo un po’ a tornare in carreggiata. Se non avete capito bene le mie parole confuse, ribadisco qui ciò che volevo dire:
Ho avuto il privilegio di essere una donna bianca, di classe media, con una famiglia comprensiva alle spalle. Così ho potuto dedicarmi alla scrittura. Ci sono scrittrici migliori di me che non possono fare altrettanto, perché troppo impegnate a farsi sfruttare per due soldi, o intente in un lavoro fondamentale e disprezzato, come quello di cura.
La persona che mi ha ispirato il protagonista del romanzo si sta curando grazie alla generosità di chi gli offre una psicoterapia gratuita (ben due persone). Dunque, il mio Sam ha avuto fortuna. La salute mentale non dev’essere questione di fortuna. Dev’essere accessibile a prescindere dal reddito, dal passaporto, dalla lingua parlata. Per chi non può permettersi il (legittimo) onorario del/la terapeuta, un “pigliate ‘sta pastiglia” non può essere l’unica soluzione.
Tutto qua. Se volete sentirmelo dire a voce, cliccate qui sotto, a vostro rischio e pericolo. Io sembro la rana dalla bocca larga, con una scopa di saggina in testa. Ma la cerimonia merita tutta.
Un concorso in cui la gente si commuove dopo averti consegnato un premio, in cui una perfetta sconosciuta viene messa davanti a un microfono, è qualcosa di prezioso, da coltivare sempre.