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Dal Facebook dello Spice Cafè: era questa, ma 100% vegetale

Io non so niente, io portavo la torta.

Sabato, mentre plaça Universitat si riempiva di indepe, e i Comitati di Difesa della Repubblica (CDR) progettavano di “spostarsi altrove”, io andavo a ritirare un dolce che avrei portato a un compleanno, e per strada incontravo un amico italiano, che mi diceva a bassa voce:

“Sta’ a vedere che domani vincono le destre, per colpa di ‘sti stronzi”.

E i suoi occhi nocciola puntavano in direzione della strada che avevo percorso fino a quel momento.

Di solito, all’accusa di consegnare il paese in mano alla destra, “‘sti stronzi” rispondono: “Vero, ce la siamo cercata… Come ci permettiamo di volere una repubblica antifascista, in uno stato in cui appena la metti in mezzo votano fascio?”.

O almeno lo dicono quelli che poi, mentre tornavo indietro sollevando la torta, cominciavano a marciare… sì, avete indovinato: verso casa mia! O meglio, verso la piazza a due passi, con l’intenzione di scendere “un po’ più in giù”, verso la caserma della Policía Nacional – che, per l’appunto, è dietro casa mia.

La torta pesava. La pasticceria me l’aveva proposta di 25 centimetri di diametro, quindi me l’ero immaginata relativamente piccola, rispetto ai catafalchi che si offrono da me. Dimenticavo che fosse un negozio a vocazione ‘mericana, quindi me l’avevano fatta letteralmente di tre piani, calcolando anche l’abbondante farcitura.

“Dove ci vediamo?” chiedevo una volta a casa agli altri convenuti, via WhatsApp. La domanda, in realtà, era: “Posso uscire?”.

Perché, intanto che rientravo in attesa dell’appuntamento fuori da me – saremmo andati tutti insieme al locale – sentivo il rombo del solito elicottero, e avevo visto diverse camionette disposte sotto casa… Insomma, l’unica buona notizia era che, se rimanevo assediata lì, stavolta avevo di che mangiare.

In realtà, tempo venti minuti e l’ok per scendere arrivava, la serata andava bene e il dolce veniva apprezzato un po’ da tutti.

Certo, leggerissimo non era: lo stavo digerendo ancora il giorno dopo, quando, davanti a me, si apriva un video col leader di Vox, che fa un po’ Mastrolindo coi capelli, e che per festeggiare i 52 seggi (più del doppio di prima), esordiva con “¡Viva España!”.

“¡Viva!” approvava una folla piena di bandiere spagnole, a quanto pare entusiasta all’idea di:

  • difendere la patria dai “golpisti catalani che sequestrano i cittadini” (parafraso);
  •  proclamare l'”uguaglianza di tutti gli spagnoli” (leggi “il femminicidio non esiste”);
  • proteggere “le nostre frontiere” (…).

Mentre Salvini mi diventava al confronto una suffragetta (“in realtà lui è un cuñao“, avevo spiegato quella mattina a un astensionista basco), la folla prima restava in silenzio – per forza di cose – davanti all’inno spagnolo, e poi cantava entusiasta El novio de la muerte: io, più franchiste di quella, posso immaginare pochissime canzoni (qui l’intera questione dell’inno de la Legión, featuring Unamuno).

E in Catalogna? La destra è scesa un minimo, invece di salire alle stelle come altrove. E con buona pace di chi pensa che “sono come la Lega“, vince ERC, l’indipendentismo di centro-sinistra.

Intanto, Anonymous Catalonia mi dava la buonanotte con la promessa che si sarebbero messi dalle sette del mattino di oggi a seguire la giornata di proteste, che prevede, tra le strade tagliate, l’occupazione dell’AP-7 alla frontiera con la Francia.

Vi lascio con la traduzione dell’ultimo messaggio della piattaforma, rivolto a chi bloccava la strada con il proprio veicolo:

“Arrivano altre gru. Le ultime auto dovrebbero tenere i conducenti all’interno, perché così non se le possono portare. Quando saranno arrivate altre auto, quelli che restavano dentro potranno lasciare il veicolo, e quelli appena arrivati aspetteranno che ne vengano altri per poter andare a loro volta al presidio”.

Io dico che sono organizzati.

 

 

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Viva i pompieri: fidatevi anche se non capite lo spagnolo!

 

Cantamañanas: è l’insulto più bello che abbia visto rivolgere a Pedro Sánchez. Persona irresponsabile, indegna di fiducia.

Ho scoperto il termine in un commento nella pagina barcellonese di Mediterranea, sotto a quest’articolo da cui, a beneficio di chi ha ancora bisogno di eroi in salsa brava, mi permetto di citare uno stralcio:

In altre parole, secondo [la vicepresidente spagnola] Calvo, Open Arms sta infrangendo la legge «a cui siamo tutti sottoposti» giacché la Spagna «è uno stato di diritto». Dimenticando che il codice della navigazione prevede espressamente l’obbligo di salvataggio dei naufraghi. La vicepresidente ha quindi confermato che all’arrivo in Spagna il governo, attraverso la Direzione generale della marina mercantile (che dipende dal ministero spagnolo dei trasporti), potrebbe multare la ong catalana per ben 900mila euro. Il che equivale a distruggere l’associazione, che vive di donazioni e aiuti. E di fatto, allineando completamente il governo spagnolo alla posizione di Toninelli e Salvini.

Il commento migliore a dichiarazioni del genere è stato quello di Oscar Camps di Open Arms: “Non so se parla lei, o Salvini è ventriloquo”. Che mi sembra una provocazione sublime, anche, e lo dico per chi ha dubbi sul mansplaining, se a dirla è un uomo a una donna.

Quello che non può dire un uomo a una donna è quanto questa debba far dimenticare all’elettorato di avere un bel corpo, anzi, di avercelo proprio, se vuole “giocare ad armi pari” (che poi, “donna” e “armi pari” nella stessa frase mi suscitano un sorriso che diventerebbe sghignazzo se fossi nera).

Ma, intanto che si risolveva tutto il casino dell’Open Arms e continuava l’odissea dell’Ocean Viking, l’Italia se ne stava un po’ a misurare i centimetri del bikini di un’ex ministra e un po’ a fare meme divertenti sulla crisi di governo, mentre l’Open Arms, finalmente lontano dai riflettori, entrava indisturbata nel porto di Lampedusa.

Stamattina mi sono alzata con un’idea balzana, stropicciata dal sonno: e se non li cacassimo proprio più, i migranti? Se i giornali si dimenticassero di loro, se invece di pensarci andassimo da questi a dire: “Ciccio, e i bilanci da approvare? I 49 milioni?”, oppure “Guapo, e il ‘commissariamento‘ della Catalogna? E i tagli?”. All’improvviso salvare vite non diventerebbe uno strumento indegno di lotta politica per afferrarsi alle poltrone, e cominceremmo a capire che, stato di diritto o no, se fossimo noi in mezzo al mare vorremmo essere salvati, e, pensate un po’, avremmo pure la legge dalla nostra parte.

Un momento! Era una provogazzione, ok? Più che altro un brutto risveglio.

Sì che dobbiamo parlarne, del razzismo mosso dalla paura mossa dalla crisi (come se il razzismo avesse bisogno di moventi). Però se dicessimo, tipo, non è questo il punto?

Che cazzo, ci sono migliaia di leoni da tastiera che ogni giorno mettono bene in chiaro che quello dei migranti non è un problema nostro, di noi che ce ne stiamo a discutere all’asciutto, ma non abbiamo un lavoro fisso o dei figli che ce l’abbiano. E allora ascoltiamoli: perché non guardiamo ai problemi che ci riguardano davvero?

La domanda sia piuttosto: questi qui del Governo, in un anno, che diavolo hanno fatto? E non è una domanda retorica. Di tutto quello che hanno fatto, cosa ce ne viene in tasca a noi?

Brucio dalla curiosità di scoprirlo. E in questo momento, mi sa, non sono l’unica a bruciare.

(Ho sentito questa versione di Aquarela do Brasil, cioè “Brasil nanananananana”, dopo aver letto il capitolo sul Brasile di Inhuman Bondage, libro sulla storia della schiavitù. Da allora mi commuovo ogni volta che l’ascolto.)

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Foto di Francesco Gentico dalla pagina Facebook di Open Arms Italia

Ricordo quando ho rigirato a un amico sardo l’invito a una conferenza storica su Alghero (un pallino di certi indipendentisti di qua), ma ero anche la presidentessa di AltraItalia. Mezz’ora dopo ero taggata in un post su Facebook con la domanda: perché a parlare di Alghero invitano “gli altritaliani”, e non le associazioni sarde? In realtà l’invito mi era stato trasmesso dal mio gruppo di ricerca, l’associazione non c’entrava niente.

Ricordo anche quando, stavolta con AI, abbiamo organizzato una serata per il terremoto del centro-Italia (“e allora i terremotati???!1!!!”): un amministratore di una pagina molto seguita ha portato una bottiglia di liquore per contribuire al servizio bar. Commenti a manetta: possibile che una roba con migliaia di utenti se la sia cavata con una bottiglina? In realtà vari membri erano arrivati alla spicciolata con offerte diverse, anche pecuniarie, e il liquore era stato regalato a titolo personale.

Ma è più facile saltare a conclusioni. Lo so, lo faccio.

E lo vedo: è più gratificante, di fronte alla mancanza cronica d’informazioni che possiamo avere nella vita, vedere nessi che non ci sono, girarci in testa un film di cui siamo registi, comparse e spettatori, di solito passivi.

Sta capitando, a fronte della drammatica emergenza di queste ore, sulla pagina di Open Arms: gente che strilla da una tastiera. “Perché non li avete portati in Spagna?!”. “Perché il vostro medico diceva che stavano inguaiati e per l’equipe di Lampedusa hanno al massimo un’otite?”. Là non ci vuole niente a scavare un po’ e ricostruire: non si trattava del “loro medico”, cioè il primo referto non era di Open Arms, ma dei medici dell’Ordine di Malta; il medico responsabile del Poliambulatorio non era sull’isola e la polizia lo vuole sentire quando torna. Quanto alla Spagna: Sánchez non li vuole. Prima dell’articolo apologetico di oggi su Repubblica, quest’informazione su San Sánchez non tanto è passata nel nostro povero paese che ha bisogno di eroi, ma il compañero non è più quello che… “L’Aquarius ce lo teniamo noi“. Adesso ci sono il PP e i fasci di Vox, e la paura di perdere voti: per tre volte dal suo entourage è stato negato un abboccamento con Oscar Camps di Open Arms. Prima della svolta a Minorca, l’offerta di prendere “solo parte delle persone a bordo” era arrivata tipo quattro giorni fa, senza risolvere, come intuirete, la situazione.

Qualcuno mi dirà: ma che gliene frega a quelli che vomitano odio su Facebook. Sono rimasti fregati dalla crisi, dalla vita, condannati al precariato eterno per loro e/o i loro figli. Le promesse fatte loro dall’infanzia, che l’abbiano trascorsa ai tempi del boom o a quelli del pane e Nutella, sono state spazzate via da un sistema economico di merda. Allora è venuto uno, ha detto che la soluzione in tutto questo erano i migranti, e…

E, come si diceva, è facile saltare a conclusioni.

Continuo a pensare che dare un messaggio positivo sia la chiave per sperare di vincere qualcosa, invece di fare leva su paure che, poi, cambiano spesso.

Intanto mi hanno consigliato questo gruppo: l’idea è sgamare bufale e confutarle. Da quel che leggo mi pare interessante, ed è un’operazione che si può fare anche senza hashtag.

Vi lascio con questo articolo di Miquel Molina su La Vanguardia, che vi traduco perché ha una proposta interessante sul concetto di buonismo:

Non fu prima del 2017 che la Real Academia Española accettò il termine buonismo, definito come “atteggiamento di chi davanti ai conflitti sminuisce la loro gravità, cede con benevolenza o agisce con eccessiva tolleranza”. Si certificava così l’uso dispregiativo di una parola coniata da colonnisti conservatori e destinata a riprendere la sinistra e le ONG.

Ha fatto allusione a quella il politico di destra Matteo Salvini, ministro italiano degli Interni, nel suo tweet di risposta alla “sindaca buonista di Barcellona”. La sindaca, Ada Colau, aveva tuittato poco prima su “la crudeltà” che comportava mantenere alla deriva per due settimane 134 migranti a bordo dell’Open Arms (ieri si è dato il permesso di sbarcare a 27 minori). Salvini si è affrettato a polemizzare con la sindaca barcellonese perché ha visto l’opportunità di accentuare il suo profilo autoritario. È lo stesso profilo che lo ha portato a vietare lo sbarco senza dare ascolto ai giudici né alla UE, e malgrado la situazione a bordo sia diventata insostenibile. Al di là di quello che pensi ciascuno sulla politica pro-immigrazione dei comuni di sinistra – accusati di creare aspettative infondate – persone di tutte le posizioni politiche esigono che si metta fine al tormento vissuto sulla nave. Il clamore non proviene solo dalla sinistra. Però Salvini cerca di fidelizzare soprattutto i suoi elettori più estremisti. 

Quelli che usano il termine buonista come arma brandiscono come antonimi le parole rigore, disciplina o fermezza. Ne hanno il diritto. Ma bisognerebbe pensare a un altro modo di dire il contrario di buonista: magari bisognerebbe iniziare a parlare del buonismo di Trump con i suprematisti bianchi, del buonismo dei mandanti dell’Est con gli omofobi, o del buonismo di Salvini con quelli che credono che chiudere gli occhi davanti al dramma dell’Open Arms aiuti a vivere in un paese migliore. 

 

 

Nel dormiveglia ho avuto la visione orripilante di Salvini con la fascia per capelli di Mariarca – personaggio dell’indimenticabile Loredana Simioli – mentre nel suo napoletano (quello di Salvini, dico…) affermava che ” ‘A voggarità ‘o saje addo’ sta? Dint’ ‘a gggente che nun sape ama’”.

Anche se io la sapevo un po’ diversa, o mi ricordo meglio lo sketch in cui la personificazione della “vrenzola” napoletana afferma che la volgarità sta “dint’ ‘a gente che nun sape canta’”.

E ieri, nel mio pomeriggio costellato di esperienze indimenticabili, sapevano cantare tutti.

Cantava l’Etiopia raccontata dall’attivista Beza Oliver: i suoi rapper prendevano una base internazionale e ci mettevano su una musica loro, come accade in un paese descritto ieri come “non globalizzato“. Io avevo capito “non colonizzato“, e stavo per protestare: ma come? Eccomi lì nell’ultima fila, quella che si copriva la faccia quando si parlava di certe tradizioni locali sull’età delle spose, che noialtri, una volta lì, siamo stati velocissimi a sfruttare.

Infatti cantavano per motivi diversi le donne immerse in acqua di questo corto proiettato ieri all’Ateneu del Raval: erano intente a piangere i loro morti mai sepolti, quelli che, al contrario di loro, non hanno mai raggiunto l’altra sponda del Mediterraneo.

Per il dibattito si dava priorità alle persone nere nelle prime file, e si offriva così al resto del pubblico l’opportunità di ascoltare voci con poca risonanza mediatica. Era finita che non aveva parlato quasi nessuno, perché le prime file erano troppo impegnate a piangere, e chi poteva permettersi di non farlo doveva, giustamente, aspettare. Per la cronaca piangevo pure io, anche perché l’unica persona che è riuscita a intervenire dalle prime file ha ringraziato la regista e ha detto:

“Non capiscono che siamo persone, che se facciamo questo [rischiare la vita sul mare] è per tutto quello che ci hanno rubato”.

Che come spiegazione è poco esauriente: una femminista algerina un po’ complottista accusa l’Europa di vedere tutto quello che accade in Africa come “colpa sua”, non rinunciando all’eurocentrismo neanche in questo. Ma c’è una verità di fondo che non riusciremo a negare con nessun riferimento a “le strade e gli ospedali”, e cosa hanno fatto i romani per noi? Gli acquedotti, le scuole…

E il deserto: quello vero, che non rifiorisce alla prima pioggia.

E l’hanno chiamato pace.

 

 

Dal Twitter di Lola con la venia @DolorsBoatella

Visto che va tanto di moda, adesso faccio un po’ di benaltrismo anch’io.

La cosa più negativa che mi è successa in questi giorni (che tutto sommato sono scivolati via niente male) è stata la sensazione d’impotenza simile a quella che mi comunicava, sulla pagina di Gad Lerner, una signora spagnola che vive da trent’anni in Italia, e non ha potuto fare il suo contro l’avanzata di Salvini: pure io, con Vox, ho avuto un bel gridare “no pasarán“, ma chi votava erano gli altri, che gridavano con accento migliore del mio.

È una questione europea, non dico di no: chi è residente e paga le tasse ecc., al massimo vota alle amministrative. Ma perché dover richiedere la cittadinanza – il che in qualche caso, non quello italiano, significa anche dover scegliere – se in un posto abbiamo passato un terzo o la metà della nostra vita, e a volte ci è capitato perfino di mettere al mondo cittadini di quel paese? Già, in effetti a volte dobbiamo pure giustificarci con quelli del paese d’origine (di solito i fasci) perché lì votiamo ancora alle politiche (e quasi mai votiamo come vorrebbero i fasci).

Qua si consolano perché non è andata così male, e vabbuo’, io di certo non rimpiangerò quelli che… il buonsenso, nuova grande foglia di fico del razzismo e di tutti gli “ismi” che non mi piacciono (perché no, gli ismi non sono tutti uguali, come sostengono i malati di qualunquismo).

A questo punto, peggio di tutto il bordello che è successo prima non può andare.

Visto? Mi sono scocciata di mangiare pane e veleno e, col tempo, sto imparando anche a “scegliermi le battaglie”. A volte mi contattano, che so, da un gruppo WhatsApp per chiedermi chi sia quel membro che vomita rabbia a ogni intervento, e mi rendo conto di capire subito di chi si tratta, ma di non sapere nient’altro: quando lo leggo disattivo le notifiche.

Oppure ho perso amicizie problematiche per incidenti stupidi, e mi piacerebbe reagire come le nuove conoscenze che mi dicono: “Ua’, hai capito che affare? Te ne sei liberata gratis!”. Ma mi accontento di seguire il mio protocollo sugli “sregolati col tempo degli altri“, e di godermi nuovi rapporti orizzontali, in cui tutti sono in grado di dare e ricevere (o non fingono altrimenti).

Il brutto dei momenti di serenità è che non tanto ce ne accorgiamo, i problemi si notano sempre un po’ di più. Prima o poi, però, dovremmo fermarci un momento e accorgerci che, per una volta, stiamo respirando aria pura: quella che circola quando ci ingegniamo a fare, circostanze permettendo, quello che sentiamo davvero nostro.

Aria così circola perfino se vivete a un passo dal traffico di Via Laietana!

Stavolta ci ho le prove.

 

 

 

 

 

L'immagine può contenere: fiore, pianta, natura e spazio all'aperto Per tanti di noi all’estero, il 25 aprile non c’è niente come raccogliersi intorno al fiore del partigiano, anche quando diventa la “cipolla” di capelli attorcigliati (detta anche “man bun”) di un cantautore italiano, in un bar che scoppia di gente.

Ma ci andiamo lo stesso per dirci che ci siamo ancora, che ci crediamo, che qualcosa di buono nella nostra storia c’è stato anche dopo Michael Angelo, come lo chiamano certi alunni miei d’italiano, al che un conterrOneo può insorgere e argomentare che Giambattista Vico è venuto un bel po’ dopo, e avrebbe ragione da vendere.

Perché minchia, rappresentare tutte le parti in causa è un casino, e il cantautore del nord magari sa tutte le canzoni partigiane di default o se le è preparate senza troppa difficoltà, mentre qualcuno sui social protesta per la scarsa visibilità di quanto s’è fatto molto prima e altrove, a latitudini più basse e più ignorate di quelle interessate dal 25 aprile. Tutto vero, ma entrambi i momenti sono parte della mia storia, e va bene così anche se si soffoca di caldo e il cantante finge di scordarsi di Bella ciao, come se un organista a un matrimonio omettesse apposta la marcia nuziale.

… morto per la libertà!

Poi esco. Ovvio che a un certo punto, al posto del duce, è stato nominato Salvini, che – lo confesso – io non volevo alle celebrazioni della ricorrenza. Sì, la carica istituzionale e tutto quanto, ma mi sarebbe parso un modo d’insozzare la memoria di chi appunto era morto perché lui sparasse quelle perniciose frottole da uomo senza qualità: in fondo, rispetto al milionario che per vent’anni ha titillato le fantasie di mezza Italia (quello “sceso in campo”, dico), questo bomberino de noantri non ha altra dote che quella di rappresentare l’eterna voglia di dimenticarsi dei problemi complicati da risolvere, semplificando in negativo quelli risolvibili (traducendo: vedete la bufala dell’invasione migrante, mentre le famose accise sulla benzina non si eliminano).

Ma vabbe’, almeno ieri sera bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao. E se i partigiani sono morti per la libertà, noi per la libertà viviamo. Cerchiamo altre soluzioni alla tempesta d’odio in cui ci stiamo perdendo invece di spostare l’attenzione sulle cose giuste, e farlo bene, con un messaggio positivo che rassicuri, ma spaventi anche un po’ sulle conseguenze di fare gli gnorri.

Non mi sento sempre a mio agio tra i connazionali, e mi sa che è reciproco e comunque non sono l’unica. Troppe divisioni e troppo maschilismo, troppe pretese di superiorità nonostante tutto.

Ma nonostante tutto, come dimostrava il bancariello di Mediterranea Saving Humans – che aspettava la fine del concerto per tornare a vendere cammeselle – vale ancora la pena tentare.

(Donate, fetenti! O compratevi la cammesella).

 

Una delle hit della serata…

Il baciamano

Mio nonno da bambina mi fece baciare la mano a un prete. In realtà quest’ultimo o non aveva preso ancora gli ordini o si spretò presto, non ricordo la storia, comunque lo trovammo fuori chiesa e il nonno (classe 1917) m’ingiunse: “Bacia la mano a don Vincenzo!”. Io eseguii un po’ stupita, ma convinta che, se me lo diceva il nonno, fosse cosa buona e giusta. I suoi tentativi di farmi baciare la mano di mamma durante qualche litigio erano stati scongiurati da mia madre stessa, con mio grande sollievo. Quello sì che mi sarebbe sembrato strano.

D’altronde il “libro Cuore” (che il nonno pronunciava con la “o” chiusa delle nostre parti), riportava non so che scazzo tra il protagonista Enrico e sua sorella, che poi gliene scriveva quattro sul diario. Lui rispondeva tipo: “Non sono degno di baciarti le mani”. Avrei anche provato a suscitare la stessa reazione in mio fratello, allora un vispo fanciullo in prima elementare, ma con ogni probabilità mi avrebbe sferrato un calcione e avrebbe continuato a tirarmi le pantofole da sotto al tavolo.

Insomma, il baciamano è una componente ormai folkloristica della mia cultura, che io stessa, nella prima giovinezza, ho adottato. All’inizio ne facevo una riappropriazione femminista: baciavo la mano a chi lo facesse con me nel tentativo, evidente e un po’ patetico, di arrivare a baciarmi qualcos’altro. Poi l’ho adottato apposta con chi credesse che femminismo significasse sfidarmi a una gara di rutti perché volevo “essere uomo”. Una volta, per scherzo, baciai la mano di un signore che ammiravo, e credo anche che molti baciamano si siano verificati all’inaugurazione di un’associazione, in paese, quando il vescovo in persona venne per la benedizione. Allora noi membri mangiapreti del collettivo (la maggioranza della truppa) avevamo visto spuntare un crocifisso sulla parete d’ingresso, nell’imminenza dell’arrivo del prelato. Perché sono sicura che in tanti abbiano baciato la mano al vescovo, anche se non ne ho memoria? Perché la mano si bacia ai “salvatori”, o ai loro rappresentanti in terra: insomma, a chi sembra in grado di toglierci le castagne dal fuoco, magari con la sola imposizione delle mani appena baciate.

Si è fatto tutto un parlare del tizio ad Afragola (paese vicino al mio) che ha espresso così la sua “devozione” a Salvini, nuovo salvatore di derelitti che ancora non capiscono in che guerra tra poveri si sono cacciati. Ho letto i commenti simpatici di quelli che insinuavano che il tipo (a quanto mi dicono, un morto di fame) avesse “la casa abusiva a Ischia“, o che avesse voluto fare un saluto mafioso. Immagino sostengano questo i furastieri che vengono a fare il “safari” a Napoli, per poi spiegarmi la mia città nel corso di una calçotada: gente senza speranza, senza futuro, però si mangia bene, eh, e il “fumo” costa poco. Hai ragione, approva qualche compaesana in visita che ha paura di andare a Napoli da sola, o qualcuno che, quando ci viveva, in centVo non scendeva quasi mai. Dove sei stato e per quanto tempo, chiedo allora all’illuminato furastiero. Una settimana ai Quartieri Spagnoli, è la risposta. E allora sorrido. Che altro posso fare?

Sorrido di chi si preoccupa di come si manifesti l’ammirazione per Salvini, se baciandogli la mano o leccandogli il culo, invece di chiedersi come mai, adesso, per mezza Italia è diventato un salvatore. Piuttosto, come si fa a chiarire l’equivoco e convincere tutti che non salverà… il resto di niente? Che pure è un’espressione tipica delle mie parti, e rende bene l’idea.

Ecco, forse è questo il problema del pezzo di terra in cui sono nata: rendiamo bene l’idea.

 

 

 

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Foto di Stefano Buonamici @stefanobuonamiciphotographie

Stamattina, Gad Lerner ha postato questo brano di Francesco Matteo Cataluccio. Mi ha colpito l’alzata di scudi, anzi di… offendicula, contro una famiglia di senegalesi subentrata nel condominio d’infanzia dell’autore. A Barcellona lo fanno a volte contro noi stranieri europei, mischiando un po’ le carte della filosofia locale Refugees welcome, tourist go home

Mercoledì, i miei amici a Barcellona manifestavano con la comunitat gitana in solidarietà con i rom italiani. Io, invece, ero in giro per Napoli a fare cose.

Tipo la dichiarazione dei redditi, seduta su una panchina in Via Luca Giordano.

Oppure il Lascia o raddoppia a distanza per vendere casa.

Oppure leggevo un brano del mio racconto contenuto in questa raccolta: il piglio allegro della presentazione mi aveva fatto escludere il passaggio, un po’ didascalico, che voleva provare al pubblico che noi vegani non siamo il diavolo. Ma sembra che oggi, ancor più del seitan preconfezionato a peso d’oro, vanno di moda i pregiudizi.

Soprattutto, giravo per Piazza Garibaldi, tra i baretti che una volta vendevano marenne unte, e che ora sono pizzerie fresche di restyling, in cui qualche cameriere nero “come il carbon” s’industria a parlare l’inglese che i colleghi autoctoni non tanto masticano.

In una traversina del Corso Umberto, tra icone sacre del XIX secolo, i negozianti pakistani chiudevano le saracinesche tra i pochi turisti e gli autoctoni che rincasavano: avevo trovato il posto in cui avrei potuto essere di qualsiasi posto, l’unico che ormai senta davvero mio.

Resta l’impressione che il problema non sia solo di etnia, ma di classe: in Italia non vogliono i poveri. Forse si sarebbero levati meno offendicula se l’autore del brano di cui sopra avesse dichiarato che ad abitare in quel palazzo ci sarebbe venuto “l’ambasciatore del Senegal“. Stessa cosa del mio antico proprietario, a Forcella (…), che aveva schifato un vietnamita perché “non voleva cinesi”, per poi andarci d’amore e d’accordo quando aveva visto che era uno studente fuorisede come tanti. Il pregiudizio è che tutti gli stranieri non nordici siano migranti, e che tutti i migranti siano poveri. E i poveri, si sa, sono anche brutti, sporchi e cattivi. Metti che sputano a terra e fermano le ragazze più di tanti miei compaesani. Metti che l’odore dei loro cibi invade le scale più del ragù, e, se non ti piace respirare quello un’intera domenica, si vede che era carne c’ ‘a pummarola.

W i poveri, dunque, e se stranieri meglio ancora: ci permettono di passare sottogamba le evasioni fiscali, la caccia alle raccomandazioni, e la paura che nostro figlio non trovi mai lavoro. E non perché c’è uno straniero a rubarglielo, che nostro figlio “non ha studiato per tanti anni per andare a raccogliere pomodori”; ma perché chi concentra tutta l’attenzione su quanto siano brutti, sporchi e pericolosi gli stranieri non è in grado di dargliene uno.

Alla luce di tutte queste osservazioni, è la prima volta che mi sento davvero straniera anch’io.

Risultati immagini per immigrati non lasciateci soli con gli italiani

Dalla pagina di Abbatto i muri

Come ultimo post sulla tristissima pagina di storia italiana (e umana) che è stata la vicenda Aquarius, condivido il comunicato dell’associazione che da cinque anni è parte integrante della mia vita barcellonese. Se vi va, condividete:

NON CI RAPPRESENTANO

L’Associazione Altraitalia Barcelona, costituita da italiane e italiani residenti in Catalogna, esprime la propria approvazione rispetto alle scelte del governo spagnolo e della Generalitat valenciana sulla questione Aquarius. Siamo felici di vivere in una città che non ci fa sentire “immigrati”, e che per volontà della sindaca Ada Colau ha aperto fin dall’inizio del suo mandato le porte ai rifugiati. Siamo orgogliosi di toccare con mano il fatto che tutti quei valori che, a detta della destra italiana, porterebbero alla disgregazione dell’identità, sono invece il fondamento di una città aperta e inclusiva, dove persone di ogni provenienza e credo hanno potuto trovare una nuova casa.

Non possiamo che guardare con preoccupazione agli ultimi sviluppi della politica italiana, caratterizzati dall’allarmante centralità di un discorso identitario che ha creato le premesse per le desolanti prese di posizione razziste del ministro dell’interno Salvini. Ci preoccupa che queste posizioni sembrino essere condivise da buona parte di questo governo, e da una porzione significativa della popolazione.

La Spagna e la Catalogna non sono un paradiso libertario, contrariamente a quello che vorrebbe far credere una certa lettura superficiale della realtà. Ma crediamo che Barcellona in particolare, pur con tutti i suoi problemi, rappresenta la realizzazione dei peggiori incubi di Salvini e dei suoi sodali: famiglie LGBTI numerose e attive, lotte femministe che sono diventate coscienza collettiva, il razzismo populista che, persino in un contesto identitario come quello catalano, è inesistente.

È per questo che, forti della nostra esperienza, possiamo dire, ora più che mai: restiamo umani.

Barcellona, 18 giugno 2018.

Associació AltraItalia Barcelona

info@altraitaliabcn.org

Nota
L’associazione Altraitalia Barcelona è nata nel 2009 da un gruppo di italiane e italiani residenti in Catalogna appartenenti a diverse tradizioni della sinistra nostrana. L’intenzione, da subito, fu quella di interagire con il contesto politico della nostra patria d’adozione: da qui derivano le molteplici iniziative attraverso le quali, nel corso degli anni, abbiamo cercato di lavorare alla costruzione di una memoria storica condivisa tra Italia e Catalogna.

 

Risultati immagini per cartel italia aquarius Oh, non vi facevo così patriottici. Levata di scudi nazionale contro gli “insulti” di Macron, che per quanto mi riguarda, come si dice a Napoli, a proposito dell’Aquariusci ha chiamati per nome. E se pure un negriero inamidato come Macron ha schifato l’Italia (che inspiegabilmente lo ammirava pure), io sarei indecisa se collocarci subito prima di Mordor, o dopo la Gora dell’Eterno Fetore. Bando alle ciance, comunque: senza promettervi nulla di sistematico, volevo farvi sapere cosa dicono di noi, traducendo qua e là dalle testate on-line, e dai social spagnoli e catalani.

Per prima cosa El País (altro giornalino che se ti schifa è grave assai) m’informa che

La distribuzione dei 629 [migranti a bordo] è stata fatta in tutta fretta, perché la Guardia Costiera italiana aveva concesso dieci minuti. C’è stato bisogno di decidere con molta rapidità chi restava sull’Aquarius e chi sarebbe stato trasferito [su un’altra imbarcazione].

Anche La Vanguardia, giornale catalano, sottolinea:

Il piano di spostamento già comincia male, perché obbligherà i naufraghi a restare più giorni – tre o quattro –  in alto mare, e ritirerà due navi – peraltro italiane – da questa zona del Mediterraneo in un momento in cui precisamente mancano mezzi di salvataggio.

Il no della Lega a liberare i porti viene considerato da questo articolo “la parte più grave della faccenda”, con un’allusione non troppo velata alla legalità (o legittimità) del procedimento: Salvini viene indicato come “leader della xenofoba Lega”. La parola “xenofobo” non era stata lesinata neanche dal País, che fin dalla visita a Pozzallo notava che Salvini “fosse ancora in campagna elettorale”.

Conclusione? Per una volta sentiamo El Diario

Il messaggio xenofobo e contraddittorio dell’Italia alimenta il caso della riforma migratoria in Europa.

Avete ragione: Pedro Sánchez, il nuovo idolo italiano che per me puzza ancora di articolo 155, non è proprio alla guida di un paese “samaritano”. Anche se il suo Ministro degli Interni, Fernando Grande-Marlaska, ha annunciato l’intenzione di ritirare il pericolosissimo filo spinato di Ceuta e Melilla: un omaggio, udite udite, del governo Zapatero, nel 2005, poi ritirato parzialmente e rinforzato dal PP nel 2013. Però il ministro ha anche precisato in un’intervista che i migranti a bordo dell’Aquarius verranno trattati “come tutti gli altri”: cioè, come specifica fin dal titolo questo articolo, “avranno un permesso di soggiorno di tre mesi, anche se non si esclude che alcuni finiscano nei CIE”.

Ma nella pagina Facebook di Bienvenidos Refugiados – España, un’utente invita nei commenti a “non essere negativi” (!),  perché almeno, sottolinea, “Ci siamo distinti dai fascisti italiani”.

E da quelli spagnoli: colpito e affondato, il PP non ce la fa proprio a tacere e ha già dato battaglia su questa decisione del nuovo governo, mentre i suoi seguaci hanno fatto proprio l’originale motto, in voga anche da noi, “Mételos en tu casa” (più che “Accoglili a casa tua”, quindi, proprio “Mettiteli in casa”). Il trend che si è generato su Twitter è già leggenda: un politico catalano posta una foto della “casa” di Felipe VI, invero molto capiente, e qualcuno prova a fare lo stesso discorso per la famiglia reale. Tra queste “risate a denti stretti” non poteva mancare:

Se ti piace così tanto il fascismo, mettiti il governo italiano in casa.

Res a afegir.

Nada que añadir.

Niente da aggiungere.

A parte, se permettete, un ricco “chitemmuorto”.