Archivio degli articoli con tag: scelte

Sto martellando i miei perché comprino casa a Barcellona. Qualcosa di piccolo, giusto per passare la stagione estiva (tutta) in modo molto più confortevole di quanto potrebbero fare da me. Il resto dell’anno potrebbero affittarla con regolare contratto a studenti o gente di passaggio.

Ho chiamato l’amico agente immobiliare, che ci ha mostrato un paio di opzioni. Anche se i miei sono scettici (mi stanno solo assecondando, lo so) io ho imparato un po’ di cose.

Anzi, più che una lezione ho avuto una conferma: indietro si torna, eccome. Molte situazioni o scelte che crediamo irreversibili non lo sono affatto, o sono le nostre convinzioni a renderle tali. La seconda casa che ci ha mostrato l’amico agente era sfiziosa, moderna, in un palazzo all’avanguardia. Era piccola, sì, ma la proprietaria non l’aveva comprata con l’idea di restarci tutto l’anno. Voleva avere “un piede a Barcellona”, città a cui era legata per motivi vari, mentre per lavoro doveva risiedere perlopiù altrove. Adesso la situazione era cambiata, così vendeva la casa a un prezzo che era pure contenuto, per questa città di speculazioni selvagge.

Ascoltando la storia che mi snocciolava l’amico agente, non ho potuto fare a meno di pensare alla conferenzina di Internations sul mercato immobiliare (in realtà, una marchetta a un’agenzia sponsorizzata dall’associazione), in cui una cinquantenne del posto aveva dichiarato: “Questa è la mia unica occasione per comprare bene. Se la perdo, è la fine”.

La capisco: i risparmi di una vita, puntati in un unico investimento. La pressione dev’essere enorme. Il fatto, però, è che io per esempio ho sbagliato, e non è stata la fine. Ho sbagliato a comprare la prima casa, o meglio, ho sopravvalutato il tempo che avrei resistito lì dentro: se era così economica, un motivo c’era! (Leggi: vicine stronze e palazzo che cadeva a pezzi). Cosa ho fatto per risolvere il problema? Niente di eroico o trascendentale: ho chiamato l’agente immobiliare di cui sopra, che ormai era diventato mio amico, e gli ho chiesto di vendere la casa, visto che me l’aveva fatta comprare lui! Così ho avuto la possibilità di acquistare il mio attuale appartamento, in cui sto molto meglio.

Indietro si torna un po’ con tutto: con il lavoro (a volte anche dopo una certà età), con le partenze e i ritorni (leggete i post in questo gruppo), con le relazioni.

La vita è già troppo piena di cose irreversibili, come i miei antichi look anni ’90 e l’ultima stagione di Trono di Spade. Non c’è bisogno che ce ne inventiamo anche di altre.

L’importante è sapere quando è ora di tornare indietro, o di trovare un’ulteriore strada a cui non avevamo pensato prima. Ma questo si impara, ed è come andare in bicicletta, o pronunciare la parola francese “rue” (solo io non ci riuscivo?).

Quando scopriamo come si fa, indietro non si torna.

(Scusate, ma a questo punto ci stava. Anche se preferisco la versione inglese, “Vincenzo”).

Pubblicità

22 giugno 1994: Breve storia triste. C’è la festa delle medie, ma ho la febbre. Vado o non vado? Vado. E porto anche un’amica di un altro istituto, che ha litigato con le compagnelle sue (cit.) e si sente sola. Risultato: l’amica si mette col ragazzetto che piace a me, e la febbre mi schizza a 38.

30 gennaio 2021: Breve storia triste. Esco di casa e viene a piovere. Anzi, è proprio una tempesta. Mi riparo sotto una tettoia a Barceloneta e penso: corro verso casa o aspetto un po’? Aspetto. Finita la pioggia, anche se una masnada di gente va in direzione contraria alla mia, faccio una capatina in spiaggia.

Le foto che posto qui sotto sono un promemoria: a volte tentare nuoce, eccome, ma spesso è una buona idea. E quella storia di chi lascia la via vecchia per la nuova mi è sempre sembrata più una promessa che una minaccia. Sai quel che lasci: il divano di casa. Non sai quel che trovi: tipo, l’arcobaleno.

L'immagine può contenere: persone che suonano strumenti musicali, cielo, nuvola, oceano, natura, spazio all'aperto e acqua
L'immagine può contenere: nuvola, cielo, oceano, spiaggia, spazio all'aperto, natura e acqua
L'immagine può contenere: nuvola, cielo, oceano, spazio all'aperto, natura e acqua
L'immagine può contenere: oceano, nuvola, cielo, spazio all'aperto, acqua e natura
L'immagine può contenere: nuvola, cielo, oceano, spiaggia, spazio all'aperto, acqua e natura

L'immagine può contenere: 6 persone, testo Buon 1820! Siccome i diritti del lavoro e le sobrie reazioni all’uguaglianza vanno in quella direzione, direi di cominciare con… Jane Austen! Vediamo cosa dice – almeno sullo schermo – il suo Edmund, ennesimo bonazzo che sta per sposarsi con una pereta, invece di filarsi la brillante protagonista. Per fortuna l’amata gli mostra un lato superficiale che lui non aveva notato prima, e allora le dice papale papale:

“Siete un’estranea per me. Non vi conosco e, mi spiace dirlo, non ho nessun desiderio di conoscervi”.

Sì, l’avete individuato, l’attore era Sick Boy di Trainspotting, ma il punto non è questo: come nel meme di Gerry Scotti, quell’uomo parla di me! Tra tutti i bilanci di fine anno che mi sono piombati addosso, mi sono resa conto che una grande cosa che ho imparato l’anno scorso è: essere selettiva col mio tempo e le mie energie. Ma esserlo sul serio.

Le volte che ho fatto qualcosa che in realtà non desideravo, le conseguenze sono state inutilmente spiacevoli: vedi la lezioncina di buone maniere che mi forniva questo individuo. Dalla scarsa solidarietà che ne è seguita in circoli a me più vicini, mi sono resa conto che un collettivo a cui debba spiegare cosa ci sia di sbagliato, in tutto ciò, non m’interessa né m’incuriosisce: ce ne sono altri che sul GENDER!1!! sono già ferrati. Dunque, per fortuna, ho di meglio da fare.

E gli esempi sono tanti.

Poche ore dopo il brindisi di Capodanno, una pagina Facebook piuttosto divertente cancellava anche il mio secondo post: era uno spazio di riassunti “pecorecci” di figure di merda. Mi ero sforzata di mantenere un linguaggio semplice, anche se purtroppo, quanto a sonorità e durata, non sono brava a esprimermi a rutti, e non mi sembrava fosse richiesto dalla netiquette. Così questa è stata la prima cosa di cui mi sono sbarazzata nel 2020. Avrei potuto indagare, o ascoltare il paraculissimo invito dei moderatori a “scrivere meglio” (o peggio?) se i post venivano cancellati. Ma, per fortuna, ho di meglio da fare.

Dopo la visione del simpaticissimo trailer di Zalone, mi sto rendendo conto che la gente che vede il film segue due correnti opposte: o si crede furbissima a trovarci della satira politica, o si scopre indignata, specie a destra, per questo “ritratto della società italiana” (azz!). A me tutto ciò fa sospettare la paraculata che strizza l’occhio a tutti i tipi di pubblico, ma il problema non è quello. È che non ho nessuna curiosità di scoprire se ho ragione. Mi chiedo se chi si sbatte su ‘sta roba non sappia ancora lavorare d’immaginazione, per scoprire che c’è quasi sempre un’alternativa positiva a un argomento di discussione così modesto. Se no, per fortuna, avrebbero di meglio da fare.

Mentre scrivo questo post, ho ricevuto un messaggio di un tipo del Bangladesh, che con curioso tempismo mi scrive dopo il mio intervento sotto questa denuncia delle condizioni di alcune lavoratrici: se leggete nei commenti, un gruppo di uomini s’era messo a insinuare che un motivo per il licenziamento ci fosse (qualcuno ha detto victim blaming?). Ora, un hashtag comune ai vari commentatori (a cui ho chiesto “KITTIPAKA?11!”) riconduceva a un’associazione che Google mi dà per chiusa in via definitiva (boh), e che voleva che l’imprenditoria del paese “filasse nel più liscio dei modi”. Già. Da queste personcine non m’interessa ascoltare lezioni, quindi ho eliminato il messaggio: per fortuna, come ormai intuirete, ho di meglio da fare.

Con questa risoluzione, a volte, posso perdermi delle cose belle: è un rischio da considerare. Il ritardo di una potenziale collega, in un pomeriggio davvero complicato, mi stava persuadendo a mandare a monte tutto il progetto di cui avevamo discusso sui social. Accettare comunque la collaborazione ha portato a risultati ambivalenti: il mio “istinto” non si sbagliava sui problemi che avrei affrontato con una persona poco organizzata, ma devo dire che i vantaggi sono di fatto superiori ai grattacapi.

Così come sono stata fiera di me quando ho individuato subito il momento difficile vissuto da qualcuno che avrei voluto conoscere meglio, ma che ero pronta a mettere da parte per la mia consolidata avversione alla sindrome di Wendy: come nel caso della collega, però, altre cose che ho visto – tipo la dignità con cui venivano affrontati i problemi immaginati – mi hanno spinto ad andare avanti, con senno e prudenza, e non sono rimasta delusa dalla decisione.

Il fatto è che “Ho di meglio da fare” non deve diventare una canzoncina da opporre a qualsiasi circostanza che si presenti problematica. Io la porrei sempre come domanda: quest’attività, questo film, questa persona, mi può interessare nonostante le premesse poco incoraggianti?

Se la risposta è sì, avanti tutta. Se no, lavoriamo d’immaginazione e pensiamo a tutte le cose migliori da fare che abbiamo. E allora, per chiudere con un’altra immagine iconica, si fa come il buon Jep Gambardella: si arriva in paranza alla conclusione che “non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”.

 

 

 

Nessuna descrizione della foto disponibile.

Foto di Antimo Puca

Sì, avete indovinato: anch’io sono molto più bona adesso che dieci anni fa! (“Non ci voleva molto”, commenterà la vocetta isolata di qualcuno che vuole morire presto.)

E comunque il 10-Year Challenge lo sto facendo da qualche settimana, perché, seguendo il consiglio scherzoso di un signore che adesso ha pubblicato un libro, sto scrivendo un romanzo ispirato ai miei primi tempi a Barcellona: dieci anni fa, appunto. Ma il consiglio era di dieci anni fa, quindi sono piuttosto in ritardo.

Embe’, a voi non capita mai di dover rimuginare un po’ sulle cose, prima di trarre conclusioni? Diciamo che me la sono presa comoda.

Mi ci è voluto letteralmente un decennio per capire, grazie anche a una signora che di libri ne ha scritti tanti, una cosa importantissima: non siamo noi il punto. È vero, non dobbiamo mai sparire dal quadro e inserire il pilota automatico, o vivere per interposta persona.

Ma, se ci concentriamo su noi stessi, ci perdiamo la vita. Se scriviamo solo di noi, ci perdiamo il romanzo.

Finiamo per scrivere qualcosa di diverso, in cui i personaggi sono incatenati ai “fatti”, dimentichi che oltre alla strada che abbiamo imboccato noi ce n’erano mille altre che abbiamo scartato, e che sarebbe divertente esplorare con loro.

Dieci anni fa avevo imboccato diversi vicoli ciechi, ma ho imparato un sacco di cose, nel modo meno pratico possibile. A un’olandese appena arrivata a Barcellona finii per raccomandare: “Fai tutti gli errori che puoi il primo mese”. Mi ha pure citata nel libro che ha scritto anche lei! (Ma l’ha pubblicato nella sua lingua, quindi non lo trovo…)

E io, di errori, quanti ne ho fatti: ho sbagliato casa, coinquilini, metodo di studio, e mi sono giocata ogni possibilità, ammesso che ce ne fossero, di coronare il sogno d’ammmore romantico dei vent’anni, da realizzare a patto di tornare “a casa” a un certo punto. Sono tornata? No. Anche questo è stato un errore? Boh.

Ma, se sto qua da dieci anni, qualcosa ci avrò pur trovato.

È vero, molti di noi fanno la vita che fanno anche per paura, per inerzia, o per una serie di decisioni prese in un momento diverso da quello che vivono ora, le cui conseguenze, però, stanno ancora scontando.

Non ho ricette, solo la consapevolezza che c’è quasi sempre qualcosa che possiamo cambiare, e un tentativo va fatto, se no è uno spreco.

Forse è questa la vera sfida dei dieci anni: non sprecarci.

 

 

 

Quali Nuvole sono Pericolose per gli Aerei?

Da: https://www.aviationcoaching.com/it/quali-nuvole-pericolose-gli-aerei/

Immaginate di essere in aereo, posto finestrino. Il pilota ha appena annunciato che comincia la discesa verso l’aeroporto di destinazione, proprio adesso che siete incappati in una nuvolaglia nera che non promette niente di buono. Infatti il velivolo si trasforma subito in tagadà, e pure il signore al vostro fianco comincia a urlare, in coro con tutti gli altri. Tratto da una storia così vera che quella notte non tanto mi veniva il sonno.

In questi casi, comunque, il ventaglio di scelte è commovente: pregare (o imprecare), fidarsi del pilota e del velivolo, fare entrambe le cose.

Negli altri casi della vita, una scelta c’è quasi sempre. Ok, magari le opzioni fanno cag… ehm, non erano quelle che auspicavamo. Diciamo anche che a tanti di noi non piace scegliere, vedi il mio primo ragazzo, che ammetteva: “Voglio essere organizzato”. Nel senso della forma passiva del verbo organizzare.

A me, invece, scegliere piace assai, e nei momenti difficili mi aiuta molto pensare che un minimo di scelta resti sempre, fosse anche tra merda secca e merda umida.

Per esempio, penso con affetto a quando mi ponevo il problema “part-time o tempo pieno all’università?”, mentre la vera scelta era “scrivere o meno mentre faccio il part-time forzato come prof. d’italiano?”. Anche se la crisi ha scelto per me, è anche vero che ho scartato lavori d’ufficio e improbabili concorsi pubblici, quindi alla fine qualcosa ho scelto. Non tra le opzioni che avrei voluto, ma ho scelto.

Sui figli, si diceva, purtroppo non conosco nessun uomo, a prescindere da età e condizione sociale, che ne voglia sul serio senza averceli già. Anche qui, non ho scelto io questa situazione, ma ho una serie di opzioni, certo un po’ complicate, che vanno fino al bell’amico gay che sono dieci anni, che si offre, nonostante la mia antica gaffe: “Pensa se viene fuori con il mio fisico e la tua intelligenza!” (mi rispose: “Sarebbe comunque una creatura splendida, tesoro”, ma solo perché è un signore).

Quello che ho notato è che, quando comincio a scendere nella nuvolaglia nera, bestemmio il pilota, i passeggeri che gridano e il fermacapelli che mi cade. Poi considero la situazione: cielo grigio su, tremarella giù. Posso fare qualcosa? Una: aspettare. Che è la scelta più difficile, visto che non lo è affatto: con le attese, la vera scelta è consentirci di vedere quando non possiamo fare altro.

Una volta accettata la situazione, e superato il fatto che no, le cose non andranno come avevamo previsto, possiamo giocarci le carte che ci rimangono. Poche o molte che siano.

Se ce lo permettiamo, ovvio. Se no il problema rimarrà e ne verremo semplicemente travolti.

Quindi, scegliamo di permettercelo.

Risultati immagini per topolino storie a bivi Non avevo dubbi che nel piccolo gruppo maceratese che frequento a Barcellona ci fosse qualche conoscente dell’attentatore: finora era stata una gara al compagno di scuola più disagiato, con picchi che anche prima raggiungevano la tragedia. Da napoletana ipotizzo che non sia questione di un posto concreto, di una fabbrica di mostri sbattuta ogni tanto in prima pagina.

Fatto sta che a domanda “Che tipo era, a scuola?” mi è giunta la laconica risposta:

“Era l’ultimo in tutto“.

Allora la mia mente, che lavora molto per associazioni istantanee e veri e propri flash d’immagini, mi ha riproposto davanti agli occhi un altro che poi è diventato fascio. Ma non me l’ha ricordato com’è adesso, da adulto che nega l’Olocausto oppure parla di sostituzione etnica. Me l’ha fatto rivedere bambino, a scuola, con la testa sempre abbassata e l’incapacità cronica di spiccicare due parole in croce, tanto che si era parlato davanti agli altri alunni di “mandarlo da uno specialista”, con l’erronea noncuranza di chi crede che i bambini non capiscano niente.

Non tutti i bambini così finiscono a sparare alla gente per strada, ed è importante ricordarlo prima di usare nevrosi e disagi come “tana libera tutti”, se le vittime sono straniere e in tanti pensano che il carnefice abbia fatto bene, “magari avessero tutti lo stesso coraggio!”.

Io infatti vivo a contatto costante con persone che da quel disagio hanno creato nuove realtà, un po’ per culo e un po’ per tigna, e sempre da napoletana credo sia importante anche questo: ricordare che sia possibile, non sei spacciato solo perché vieni da quell’ambiente là, per quanto lo possa credere chi ha più soldi o meno accento di te.

Temo che certe realtà non ci lascino mai del tutto, così come io non sarò mai libera, né intendo esserlo, dalla “provincia denuclearizzata” in cui i figli dei professionisti finiscono nelle migliori sezioni e si ritrovano trent’anni dopo in consiglio comunale, o nelle stesse posizioni di comando occupate dai genitori.

Però riuscire a farne qualcos’altro, decidere che “noi non finiamo lì“, credo sia l’unica parte importante che possiamo giocare nella nostra esistenza.

E se c’è bisogno di chiamare più spesso “uno specialista”, per aiutarci nel processo, ben venga. Se qualcuno o qualcosa può fare la differenza tra un giovane emarginato e uno in pace, mai come oggi sappiamo che ignorare ci costa più che agire. Come abbiamo scoperto anche a Barcellona un 17 agosto, non sempre ci vuole la sfera di cristallo per capire che certi disagi non porteranno a nulla di buono.

Topolino ci ha ingannati, con le sue storie a bivi: non sempre si può scegliere quale strada prendere.

Ma quella volta che si può, facciamolo.

Risultati immagini per when life gives you lemon squeeze Un mio amico è finito come tanti a lavare piatti a Londra, intanto che cerca di conquistarsi una faticosa carriera accademica. Con la sua dolce metà, italiana pure lei, il progetto era appunto restare lì a costo di darci di Svelto per tutta la vita.

Finché a lei, d’improvviso, non si presenta la Possibilità. Lavorare proprio nel suo settore, ma oltreoceano. E allora lascia alle commedie di Hugh Grant la romanticheria di rinunciare, sapendo che sacrificare la sua carriera le farà perdere anche l’amore, in un oceano di rancore e rimpianti.

D’altronde, salutare l’amore per una carriera comunque incerta nemmeno le piace. Però vivono insieme da tre anni, capite? Non c’è più lo slancio da tossicomani del “Ti seguirò in capo al mondo” (per poi pentirsene), e ormai sanno a memoria in che stato l’altro lasci il tubetto del dentifricio, al mattino. Ma proprio per questo, perché hanno un legame solido e sereno invece degli entusiasmi effimeri da inizio storia, non vorrebbero perderlo.

Adesso capite, di cosa parlo? Altro che win-win. Io ci vedo un lose-lose grande quanto Buckingham Palace.

Non ne ho fatto mistero parlandone col mio amico in chat, e chiedendogli come si sentisse.

Mi ha dato due risposte piuttosto strane, che volevo condividere con voi.

  1. Per certi versi, mai stato meglio. Lui si era assuefatto a questa vita stressante nella City, con questa storia rafforzata e insieme fiaccata dal tempo. Niente di meglio per rimettersi in gioco che perdere gli obiettivi prefissati, le definizioni che ci siamo autoimposti. Adesso deve per forza chiedersi: perché? Perché mi andava bene, la vita in fondo noiosa che facevo nella speranza di un domani non meglio definito? E adesso che la sua compagna minaccia di partirsene da un momento all’altro, ha dovuto rivalutare tutte quelle cose nel loro rapporto che ormai dava per scontate. Sicuro di essere disposto ad alzarsi senza che lei gli dia un bacio assonnato per augurargli il buongiorno? E se ne è sicuro, perché è rimasto tre anni a riceverlo? Insomma, la crisi destabilizza, ma ci rende anche totipotenti, come cellule non differenziate, spalancando baratri che possono inghiottirci per un po’ e poi portarci in altri mondi.
  2. Con buoni ingredienti, risultato mai pessimo. L’amico mi ha raccontato che alle elementari, per il suo compleanno, aveva insistito per prepararsi lui la torta da portare a scuola. Per orgoglio non ammetteva che il risultato non fosse eccelso, ma una volta in classe non si decideva a fare le porzioni. La maestra allora aveva reclamato per sé la prima fetta, commentando: “Se è fatta con ingredienti buoni, non può mai essere davvero cattiva”. Tanti anni dopo, adesso che la sua vita se ne va a carte quarantotto, il baldo giovine si accorge di quanto siano solide le fondamenta su cui l’ha costruita, riempiendola di aspirazioni ragionevoli e persone di cui fidarsi. Una vita così difficilmente verrà sconvolta del tutto da circostanze esterne non proprio tragiche. Se anche dovesse lasciarsi con la compagna, non sarà lanciandosi piatti e rimanendo con ferite insanabili.

Il mio amico non mi frega: “guardare il lato positivo” è spesso un contentino di fronte all’impotenza cronica rispetto al 70% di cose che ci succedono.

Però ha ragione lui:  è anche la scelta più conveniente da fare. Nella peggiore delle ipotesi ci si ritrova comunque infelici, ma con gli strumenti per venirne fuori, ridefinirsi, tornare a vivere bene.

In questo momento, quella torta di compleanno bruciacchiata, mai assaggiata, me la immagino più buona della pastiera di Scaturchio.

E mi manca più di qualsiasi cosa abbia gustato, credendo che me la sarei goduta per sempre.

  Sì, la tentazione ce l’abbiamo tutti. O in tanti, almeno.

Guardiamo la casa dove passavamo le vacanze da bambini, e vorremmo tornare indietro nel tempo.

Osserviamo chi ha preso il nostro posto quando ci hanno licenziati in tronco, e vorremmo tornare lì anche se il capo è uno stronzo.

Scopriamo che il nostro ex è diventato un incrocio tra Mister Universo e il Galateo, e dimentichi di quello che ci ha fatto passare ci chiediamo all’improvviso perché sia finita.

Ecco, io, ripensando a tutte queste cose, mi sono accorta di un piccolo particolare. Tornare indietro non sempre è impossibile. La vera domanda è: ci conviene?

Ok, la storia di tornare all’infanzia è dura. Ma già il lavoro, a riconciliarci con il capo, non sempre è un’utopia: in quanti accetterebbero di fare quella schifezza ogni giorno, per così pochi soldi? E pure gli ex: perfino con quello che non s’innamorava di noi manco a farlo ipnotizzare da Maga Magò, non sappiamo cosa accadrà tra 10 anni, quando l’avranno buttato via tutte le ragazzette tormentate che preferisce a noi. Oh, ho detto “non sempre è impossibile”, mica ho specificato in quanto tempo!

Il punto è un altro: quello che è possibile, è anche auspicabile? No, perché a volte ci nascondiamo dietro sta storia dell’impossibilità.

La usiamo per vivere nel rimpianto di qualcosa, senza fare alcuno sforzo per riprendercelo. Ne facciamo una scusa per lamentarci di quello che abbiamo ora. È un metro di paragone ingiusto, passato idealizzato vs presente vivo e vegeto, con tutti i suoi problemi.

Così quello che non poteva tornare più ci prende alla sprovvista. La casa che volevamo affittare, ma ci hanno preceduti, torna libera proprio mentre ne avevamo trovato un’altra. E adesso scopriamo che scegliere non è facile come credevamo.

Oppure, mentre idealizzavamo quel pazzo dell’ex, che tanto è impegnato, scopriamo che è tornato libero ed è più che disposto a offrirci un caffè. E allora dobbiamo improvvisamente essere oneste con noi stesse: lo rimpiangevamo sul serio, o era tanto per disprezzare chi ci sopporta ora?

Eccoci di fronte a ciò che temiamo di più. Scegliere. Ciò che l’impossibilità esorcizzava. Scegliere.

E allora, a mali estremi estremi rimedi: scegliamo.

E parliamoci chiaro. Se la casa che volevamo affittare è davvero più conveniente del rimpiazzo, meno male che si è liberata! E a certe condizioni un ritorno di fiamma, come lo chiamano le riviste rosa, potrebbe anche farci bene.

Ma se pretendiamo di tornare al passato tale e quale a come l’abbiamo lasciato, abbiamo la memoria corta. O la vista, corta. Pensavamo che non avremmo trovato di meglio di quel lavoro, di quella casa, finché non l’abbiamo fatto. Del nostro ex ora vediamo solo il sorriso nuovo di zecca, ce lo scordiamo arrabbiato con noi, imbronciato, indolente.

Allora no, non abbiamo più alibi. Impossible is nothing, dice una pubblicità paracula. Ammettiamo che per una volta abbia ragione, e rispondiamo onestamente: se è possibile, lo vorremmo? E non è una domanda generica. Rispondere sì significa prendersi le responsabilità di tornare sui nostri passi, affrontare consapevoli le lune storte dell’ex, le sfuriate del capo, rivivere i motivi per cui quell’esperienza si è conclusa la prima volta.

E spesso lo faremo in nome non di un presente nuovo, che ci includa come siamo ora nel mondo che viviamo ora, ma di un passato che non può più tornare, perché non possiamo cancellare tutte le esperienze, positive e negative, tra come siamo diventati e come eravamo.

Vedete com’è facile dire “è impossibile”?

Allora, quando è possibile, non tiriamoci indietro. Scegliere, per quanto scocciante, è un privilegio.

Scegliamo bene.

Fox and GrapesManco ‘e cane: espressione napoletana che designa qualcosa di estremamente sgradevole, tanto da non augurarlo neanche ai loppidi (le perdoniamo lo specismo per questioni di anzianità).

Il problema dei manco ‘e cane postumi, riferiti a situazioni che un tempo ci allettavano eccome, è di chiamare in causa un altro animale: la famosa volpe della favola di Esopo, quella troppo poco agile o semplicemente troppo scema per rendersi conto che l’uva tanto ambita si trovasse eccessivamente in alto per raggiungerla.

Come finisce la storia, già lo sappiamo: disprezzo per l’oggetto del desiderio e rapido dietro-front, verso frutti più accessibili. Che peraltro non si capisce perché debbano essere meno appetitosi di quelli così in alto. Non è che l’irraggiungibilità sia sempre sinonimo di buona qualità, eh.

Infatti stamane, mentre voi arrancavate con le ciabatte verso la macchinetta del caffè, io mi stavo ponendo il seguente quesito amletico: e se la volpe avesse ragione? Se l’uva fosse stata davvero acerba, ma da giù non si vedesse tanto?

Non conta, mi risponderete: la volpe critica ciò che non può ottenere, a prescindere dal suo stato di maturità. Se è per questo, lo desidera anche a prescindere da quello, perché francamente non ci credo, signor Esopo, che sto grappoletto situato più o meno sull’Everest fosse così visibile, da sotto.

Comunque, vi sottopongo tutto questo perché mi trovo nell’imbarazzante posizione di dire “Tanto è acerba” di un’uva postuma, in un postumo momento di lucidità.

La situazione l’ho già descritta qui, più o meno. Una visita alla mia antica università, e a un suo occupante a cui un tempo avevo tenuto molto, mi ha aperto gli occhi sulle mie aspirazioni di qualche anno fa. Allora puntavo a un magro assegno di ricerca per un argomento che manco m’interessasse molto, mi ci ero imbattuta per caso (e, come insegna Bourdieu, se ti devi puzzare di fame che sia almeno per qualcosa a cui tieni assai). E con eccessivo sforzo aspiravo all’attenzione distratta di un eterno indeciso, di quelli fin troppo propensi a regalare tutto il loro tempo a chi venga dopo di te.

Insomma, rivedo la mia vecchia facoltà, rivedo il mio non-ex e mi dico: “Ma che minchia facevo della mia vita, ai tempi?”. Il fatto che sia una dichiarazione col senno di poi la rende così sospetta? Cioè, dico ancora che l’uva è acerba perché non sono riuscita a papparmela?

Non posso essermi proprio accorta, per la gioia di chi “me l’aveva detto”, che fosse indigesta? È che dopo lo sfumare di entrambe le aspirazioni (borsa e uaglione), intanto che mi leccavo le ferite e saziavo la fame mi abituavo a qualcosa di nuovo, qualcosa da cui non si torna peggio che dal tunnel della droga: a fare ciò che volessi. O meglio, giacché non sempre vogliamo la felicità, ad aspirare esattamente a ciò che mi facesse sentir bene. Senza pretendere di ottenerlo, ma almeno provandoci.

Niente borsa da due soldi per un argomento che non m’interessa, a questo punto meglio vendere percoche (per dire) e tornare a ciò che mi piaccia davvero, sperando che prima o poi non sia gratis.

Niente amanti distratti da cercare finché abbia fame: questo tipo di amore ricorda un po’ questo, una fame eterna, come quella degli expat che si comprano al Lidl i prodotti finto-italiani. Ma una volta abituatami a cercare solo l’attenzione che voglio, e quindi a ottenerla, difficile tornare a dialogare con uno che si faccia pregare solo per prenderci un caffè. A questo punto, il “Ma come facevo, a sopportarlo?” non sembra una domanda peregrina.

La risposta è semplice: non conoscevo nient’altro. Credevo che tutto andasse conquistato a balzi e sbuffate e ignoravo che le cose indispensabili stanno alla nostra altezza.

Quindi, senno di poi o meno, rivendico il diritto della volpe a essere presa in considerazione, nella sua conclusione finale. Magari era solo una gran paracula, magari ha capito tutto senza saperlo.

Era proprio acerba. Meno male che i filari d’uva non sempre sono così bastardi.

E non tutte le volpi sono masochiste.

viavecchiaPer me quello che ha inventato il detto chi lascia la via vecchia per la nuova ecc. ci ha presi per il culo tutti.

Pensavamo fosse un monito e invece era una constatazione.

Di quelle così banali che poi ci scordiamo quanto siano vere: occhio che a cambiare strada non sappiamo che troviamo, ma siamo così occupati a immaginarcelo che poi ci delude.

Forse è per questo che tante religioni e filosofie si sono premurate di non farci affezionare troppo a ciò che siamo, ciò che crediamo ci definisca in un preciso istante: la cosa più sicura è che dovremo abbandonarlo per diventare altro.

Anche io attraverso l’ennesima fase di cambiamento, e meno male, una nuova “tappa” fatta di partenze, ritorni, progetti nuovi da abbozzare, vecchi da concludere. È qualche giorno che sono nervosa e non mi dico perché. Mi limito a esserlo e, cosa che avevo imparato a non fare da un po’, “evado” da me stessa, dedicando tutto il tempo al lavoro e cimentandomi in diversioni varie quando ho finito.

Quando mi muovo tanto, gatta ci cova, c’è qualcosa che non voglio ammettere, allora se permettete (intanto prendetevi un caffè, è una questione tra me e me) lo faccio adesso: sono nervosa.

Perché, appunto, so quel che lascio ma non so quel che trovo.

So quel che voglio in questo ottobre un po’ limbo, mezzo estate mezzo nubifragio, pieno di scartoffie vecchie e nuove e di voli da tenere d’occhio. Non so cosa avrò ottenuto entro dicembre, quando farò il solito bilancio di fine anno, se sarò delusa o contenta. Per me che ho le manie di controllo, non saperlo è un bello smacco.

Ma poi penso: ho qualche modo di appurarlo, se non vivendo giorno per giorno quello che mi preoccupa e mi fa innervosire? No.

Non lo so, che succederà, ma so una cosa: è sempre successo che cambiassi e sono sempre sopravvissuta al cambiamento. Ci sono buone probabilità che continui a essere così.

Il cambiamento è inevitabile, quello che si può evitare non è l’ansia, ma l’errore di farcene travolgere.

Quello che si può fare è accettare che da quando abbiamo messo piede in questo mondo siamo sempre diventati qualcosa di diverso da quello che avevamo creduto di essere, e che non sempre è stato un male.

Io, per esempio, se avessi assecondato me a cinque anni sarei dovuta diventare una principessa che come hobby servisse ai tavoli intanto che facesse anche la maestra.

A conti fatti sono riuscita a diventare tutte e tre.

Ovviamente gratis.