
By gpatgn, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47885192
Due giorni fa ho ricevuto una pre-stroncatura.
Cos’è? È quando un tipo simpatico che lavora per una grossa casa editrice ti avverte in anticipo che ti faranno male. Cioè, che la scheda del tuo romanzo, che per la seconda volta consecutiva è stato ignorato al loro megaconcorsone, non sarà proprio generosissima. Avevo conosciuto il tizio al buffet post-premiazione, a cui partecipo con religioso entusiasmo (in effetti ormai vado solo per quello): con la stessa gentilezza con cui quella sera mi passava le tartine, o mi reggeva un momento lo spumante, quello mi ha suggerito ora, via mail, che il loro concorso è per “letture da ombrellone”, non per il solito romanzo di formazione scritto l’altro ieri, con linguaggio trasandato, seguendo un soggetto scontatuccio anziché no. Colpevole, colpevole, colpevole: così mi dichiaro, signori della corte. In effetti l’ho terminato appena a febbraio, non ho lesinato sulle espressioni gergali, e in fin dei conti propongo una variazione sul sempiterno viaggio dell’eroe. Il fatto che sia un’eroina, e una che parte per non tornare, sembra cambiare poco le cose, anche se questi esemplari costituiscono solo un terzo della totalità dei “cervelli in fuga“: ma siamo “tutti uguali”, no? Insomma, sapevo a cosa andassi incontro, e sapevo anche che non si può piacere a tutti.
Questo non toglie che su quel manoscritto abbia fatto le nottate: a volte finivo all’una, da che mi ci ero messa alle otto del mattino. Poi l’ho riscritto daccapo, e ho mandato una nuova versione dopo il concorso, pregando la giuria di valutare anche quella. Insomma, ci ho lavorato su.
Il trucco, in tutte le cose, mi sembra essere: accetta che, per quanto ti ci sbatta, ti può andare comunque da schifo. Se non ti ci sbatti nemmeno, poi, che te lo dico a fare. Le botte di culo esistono, ma il punto è proprio questo: vai a prevederle!
Avevo ben presente questa lezione, quando ho accompagnato alle feste della Mercè – patrona di Barcellona – un entusiasta dei correfocs: sorta di sfilata di carri infuocati e, soprattutto, diavoli dai tridenti che sprizzano scintille. Ora, piuttosto che fingere di guardare i correfocs (se misuri meno di due metri, osservi giusto le riprese al cellulare di quelli avanti a te), per ammazzare il tempo mi sono messa ad ascoltare i commenti dei turisti delusi.
“È ‘na cafonata!” ha dichiarato uno, con accento romano.
Io ero combattuta tra spaccargli la faccia e dargli ragione, perché in generale le feste locali mi deludono sempre. Gli autoctoni che vi partecipano condividono ricordi d’infanzia e un senso d’appartenenza che eviterò di approfondire: ci ho scritto un altro romanzo, che stroncherete voi l’anno prossimo! Chi invece ci vede solo costumi a buon mercato, e versioni a tre punte delle stelle filanti, tende a pensare: “Bah”. Oppure, per rubare la definizione di un cuozzo in metro: “Pare ‘a sagra d’ ‘o casatiello a Sant’Arpino”.
Stessa cosa a fine serata, quando tornavamo da un “cinese per cinesi” nella zona di Arc de Triomf*. Lì accanto c’era un’installazione che riproduceva una sorta di giardino giapponese, con gli orari degli spettacoli scritti col gesso su una lavagnetta. Quando scoccava l’ora, quattro addetti integravano il gioco di luci che animava le piante gonfiabili, modellando “serpentoni” di stoffa con improvvisi getti di vento.
“Is that it?” ha urlato una ragazza con una birra in mano, a spettacolino finito.
Lì mi sono proprio arrabbiata, e mi sono sentita ancora più tormentata da una colpa inesistente: quella di aver pensato lo stesso! Però oh, quella gente non fa il lavoro dei professionisti dell’industria turistica, che poi si sta mangiando Barcellona.
Sono volontari che a questa roba ci lavorano anche un anno, rispettando misure di sicurezza da paura, con l’orgoglio di portare avanti una tradizione secolare, ma con mezzi moderni.
Ci ho pensato anche quando ho visto il documentario sull’ottava stagione di Trono di Spade, che per me, come forse saprete, è stata il perfetto esempio di operazione che, per accontentare tutti, finisce per fare schifo ai più. Però è lavoro: la truccatrice che vive mesi lontana dalla figlia, il disoccupato che ormai è chiamato fisso come comparsa, non hanno la colpa delle decisioni degli sceneggiatori. Hanno lavorato, e tanto, e lontano dal tappeto rosso degli Emmy.
Allora c’è questa situazione complicata, che diventa drammatica in caso di sfruttamento selvaggio: chi fruisce di un lavoro ha tutto il diritto di non apprezzarlo, ma è ingiusto sminuire chi quel lavoro l’ha portato avanti, dedicandogli tempo e devozione.
Forse, a ricordarcene, formuliamo anche giudizi meno taglienti, e ci rendiamo conto che siamo esseri umani, che provano a fare almeno una cosa buona nel tempo che hanno a disposizione.
Io le nottate continuerò a farle, sul mio manoscritto.
Magari è destinato a non piacere mai, come accade a me coi correfocs da undici anni a questa parte.
Forse il segreto è fare come quei diavoli che una volta all’anno mi cospargono di scintille: non dobbiamo scordare mai che, tra una cosa e l’altra, lo stiamo facendo per noi.
*Un altro particolare che mi sfugge come trapiantata, fin da quando mangiavo di tutto, è perché qualcuno, con un cinese autentico o un’areperia venezuelana a dieci minuti, voglia spendere il doppio per un menù fisso nella pretenziosetta Rambla de Catalunya… Ma, a parte che de gustibus, ricordo con gratitudine le feste del Raval, quando i commercianti locali prendevano d’assalto la coca, che pure adoro, e mi lasciavano biryani e gyoza: bene così!