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Buon San Faustino! Scherzo, è una minchiata, come il giorno che lo precede. O meglio, tutto può essere una minchiata a seconda di come lo si vive, prendete l’8 marzo in Italia prima di Non una di meno! Anche San Violentin… ehm, San Valentino, dipende da se è questione del tubbbo di Baci Perugina o se è un giorno di più per celebrare l’amore. Ma quale amore?

A vent’anni ero un’entusiasta devota di San Faustino, al che, come spesso accade in queste circostanze, mi si diceva: “Fai così perché non sei fidanzata”. Certo! Ero uscita dal tunnel da poco per mia volontà, e mi sentivo liberata dal giogo di un fidanzamento di paese: a sedici anni ci si aspettava spesso che noi ragazze uscissimo solo con la “dolce metà”, e la mia era tra i pochi maschi a non pretendermi fissa in casa in sua assenza. Ma tanto, la volontà di starmene a volte da sola era “indice di poco amore”, e donne nate appena vent’anni prima di me mi confessavano candidamente che non mi capivano: “Io, senza quello che oggi è mio marito, non volevo uscire proprio”. Ancora fino a ieri, compaesani di ogni età trovavano stranissimo che il mio convivente e io coltivassimo spazi e attività diversi, per unirci solo quando lo desideravamo (quello che gli anglosassoni chiamano “tempo di qualità“). L’idea è: o state appiccicati con la colla, o non vi amate. E “infatti” scoppiate.

A me sembra vero l’opposto: sono buoni tutti a restare insieme quando glielo impongono le convenzioni sociali – prima ancora delle questioni economiche post-matrimoniali*. “Me so’ lassato c’ ‘a guagliona e ‘o pate mo’ me vo’ struppia’ “, recitava la sigla ironica di un programma campano: magari, dopo una rottura, padre e fratelli non arrivavano alle mani, ma le comitive si sfasciavano eccome. Anni prima delle app d’incontri, gli amici che sono stati pionieri di Badoo mi assicurano che bastava spostarsi di mezz’oretta da casa propria, e le stesse ragazze che nel loro paese “non lo facevano mai al primo appuntamento” si concedevano una serata di passione anche subito.

Anatema! Amore fast-food? Non saprei. Quando sono tornata in Italia dopo la libertà inglese (cioè, subito amanti e se va bene ufficializzate) ho capito il senso sociale, pur senza condividerlo, del “farsi desiderare”, visto che, anche in ambienti illuminati come la mia facoltà, il corteggiamento faceva da discriminante tra una “storia seria” e una relazione clandestina. D’altronde, se venivi promossa a fidanzata ufficiale – caso raro se ti eri prima “concessa”, cit. , passavi dal poter anche morire sotto un’auto al dover rendere conto dei tuoi spostamenti e, in qualche caso, perfino dell’abbigliamento (“Questa minigonna te la metti anche quando non ci sono?”). E stiamo parlando di casi non isolati, di appena dieci anni fa.

In tempi ancor più recenti, un film italiano come Perfetti sconosciuti ha ottenuto un record d’incassi e almeno tre rifacimenti (conto il greco, lo spagnolo e il francese) per un’idea semplice: in una cena tra amici, le coppie mettono il cellulare a centrotavola col proposito di leggere tutti i messaggi che arrivano. Vi giuro che il perché di tutto questo me lo son dovuto far spiegare dai miei alunni, gli stessi ragazzi che, secondo La Vanguardia, hanno uno “scopamico” (o scopamica) nel 45% dei casi.

E allora, chiedo così per sapere, vogliamo proprio giurarci amore eterno e poi metterci le corna in segreto? Magari ci raccontiamo pure che “taciamo perché confessare sarebbe liberarci la coscienza al prezzo di far soffrire l’altro”, finendo per sentirci eroici perché abbiamo rotto  un patto di “fedeltà” (?) che non eravamo tenuti a sottoscrivere. Sì, perché continuo a pensare, come a vent’anni, che nessuno è di nessuno, e che l’unico corpo che possiamo “controllare” è il nostro. Se oggi preferisco una monogamia non normativa è per quieto vivere e per questa crisi personale, da cui il mio interesse per l’amore è uscito piuttosto malconcio.

Confesso però che di Mari Luz Esteban, pioniera nella decostruzione dell’amore romantico, non mi è piaciuta una dichiarazione (che non trovo) in cui suggeriva che “chiediamo un po’ troppo all’amore”: semplificando, secondo lei possiamo innamorarci di qualcuno che però non andrebbe bene per costruirci una famiglia, o per averci chissà che momenti di passione, dunque è eccessivo pretendere di trovare tante cose insieme nella stessa persona. Il mio primo pensiero è stato: “Mai fare l’errore di credere che qualcosa non esista, solo perché noi magari non l’abbiamo vissuto”. Ok, è stato anche detto a me nella fase “single per scelta mia“, prima che tornassi a esserlo per scelta altrui!

Però la domanda resta: perché, di tutti i tipi di relazioni possibili, ci attacchiamo come cozze al più difficile da ottenere? E senza neanche che sia migliore o peggiore di altri! A ben vedere, pretendiamo:

  • un’attrazione che sfidi il tempo, quando è la cosa più volatile del mondo (ricordo un altro articolo americano che presentava una coppia di genitori nell’atto di “sforzarsi a provare ancora attrazione l’uno per l’altra”);
  • un’esclusività che si concilia sempre di meno con la speranza di vita, e il sistema economico che vede precari anche gli uomini (quindi vacilla anche l’esigenza pratica di “mantenere la famiglia”, a cui specie le donne sacrificano così tanto);
  • una gerarchizzazione dei sentimenti, per cui spesso, quando sei in coppia, sparisci per i tuoi amici, per poi riapparire se finisce tutto;
  • un opportunismo dei sentimenti, per cui riesci sempre a giustificare con un gesto altruistico qualsiasi decisione tu prenda in campo emotivo: non vuoi figli “per il loro bene” vs “chi non ha figli è egoista”; fedeltà autoimposta “per non far male all’altro” vs tradimenti nascosti “per non farlo soffrire”; mantenere una relazione infelice “perché se la lascio si ammazza” (sicu’?) vs interromperla perché “non sei tu, sono io”.

Mi sa che dopo la risposta istituzionale (“la società cambia più lentamente della sua economia”), ci tocca la spiegazione paracula: meglio continuare a sognare un amore a dir poco difficile da ottenere, e attribuire tutte le storie finite al fatto di “non averlo ancora trovato”. I sogni aiutano il quieto vivere.

Per fortuna, le stesse studiose dell’amore romantico ammettono che non c’è una formula per tutti, che una coppia monogama può diventare inutilmente tossica, come anche il poliamore può diventare un “supermercato dei sentimenti”: a me, per esempio, ha colpito questa youtuber poliamorosa che dichiara che i suoi partner si spaventano quando dice che “si sta innamorando di loro”! E allora perché c’è la parola “amore” in “poliamore”?

Qualsiasi forma di relazione abbiamo scelto o assunto come nostra, vivere qualcosa in cui ci sentiamo intrappolati va contro la lodevole tendenza umana a risparmiare tempo e fatica, e guadagnarci in salute!

Forse si tratta ancora una volta di cucinare con gli ingredienti che abbiamo, cioè fare buon uso di ciò che ci porta la sorte.

Oggi non so la sorte, ma il calendario ci porta San Faustino. E San Faustino sia!

(Un esempio di amore sanissimo…)

 

* Siamo educati fin da piccoli a sentirci “incompleti”, specie le ragazze, senza qualcuno accanto e figli in cantiere: sono “la più grande gioia che una donna possa avere”, mentre qualche mamma meno italiana mi confessa che per lei non lo è stato, è stata sì una gioia che rivivrebbe, ma non “la” gioia. Segno che sia legittimo pensare che non tutte si vivono la maternità allo stesso modo, e non mi convince del tutto la deriva essenzialista che in Spagna si sta contrapponendo alla problematica equiparazione dei congedi di paternità e maternità. Va anche detto che sono stata trattata come un’idiota da un’attivista ubriaca per il fatto di volerceli, i figli.

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scream4maskknifesetChe bella figura ci facciamo, a essere vittime del destino. Vero?

La dea bendata è cieca, la sfiga ci vede benissimo, e noi vediamo a intermittenza, guarda caso quando ci conviene.

Ok, parlo per me.

Che la posizione di vittima l’ho coltivata per anni.

Quant’è nobile la figura di chi si sbatte per tutti, con gli amici, al lavoro, in coppia.

Quante perfette padrone di casa conoscete che si lamentano della scarsa collaborazione dei loro mariti? La distribuzione dei ruoli nella società è una delle tematiche che mi stanno più care, però da femminista mi chiedo: quante osano chiedere, pretendere la collaborazione maschile? Ai pranzi di Natale, dalle mie parti, ho visto spesso tutte in cucina e tutti davanti alla tele, cacciati dalla cucina se (raramente) si arrischiano a offrire aiuto. Magari con la sola padrona di casa, a meno che le ospiti non siano figlie sue, a cucinare per 20.

Ci piace, secondo me, dimostrarci di essere le sante che sopportano per tutti. Vale anche per gli uomini. E mi chiedo, se lo facciamo soprattutto per sentirci approvati, quanto ci sia di altruismo, in questo.

Ma non è l’esempio più scontato.

Quant’è bello fare la figura di chi soffre per amore, no? Di chi ha iniziato una relazione ambigua, caotica, della serie massimo risultato con minimo sforzo, ma poi si è innamorato, guarda caso non corrisposto. Ci restituisce al più classico dei copioni romantici in quella che era iniziata come la più prosaica delle scopamicizie. Che sono belle e divertenti finché tutti e due (tutti e tre, tutti e quattro…) vogliono esattamente quello. Se no, inutile domandarsi perché a un certo punto, a equivoco chiarito e non-storia dissolta, l’amato bene abbia difficoltà a rapportarsi con noi anche se cerchiamo almeno di salvare l’amicizia, o le apparenze. E ti credo, in che posizione l’abbiamo messo? Il cinico impassibile che di fronte a tanto amore, ricevuto da una personcina così speciale, proprio non risponde ai palpiti? Come se dipendesse da lui, vedi articolo corrispondente, come se non fosse cominciata in condizioni simili, come se la “voglia di sbattersi zero” (cit.) non fosse stata, inizialmente, reciproca.

E quando noi siamo dall’altra parte? Ma no, noi non siamo mai i cinici che non corrispondono. Noi siamo chiari fin dall’inizio, la dichiarazione d’intenti stile “È un momento terribile della mia vita, non posso darti certezze” è il nostro scudo per declinare ogni responsabilità. Gliel’avevamo detto. E allora perché i “te l’avevo detto” altrui non ci vanno bene?

Perché è solo paura, mi permetto d’ipotizzare ora che vengo invitata a uscire da qualcuno e mi dico “No, devo prima superare la precedente delusione”, e comunque c’è questa o quella cosa che non mi convince, nonostante sia bello, intelligente e sensibile. E mi congratulo con me stessa per “fiutare” finalmente, dall’inizio, le cose che non mi convincono, ma mi chiedo anche perché le abbia accettate, e magari le accetterei ancora, in chi invece ne aveva a josa.

E allora formulo l’ipotesi: è solo paura. Sfuggiamo alle nostre responsabilità nelle cose, al rischio di non ottenere quello che vogliamo, e allora ci chiudiamo da soli in un angolo e decidiamo di accontentarci. È un patto col diavolo per non affrontarle, le nostre paure.

Ma avete notato, come me (e Giorgio Nardone, e un’infinità di altri autori), che a evitare di affrontare le paure finiamo per incappare proprio in quello che temiamo?

Penso a una polemica a me molto vicina, tra italiani all’estero e in patria, sulla partenza dall’Italia come fuga. “Bisogna restare per cambiare le cose”. A me sembra che ci sia gente che parta per paura e gente che per paura resti. Finendo scontenta in tutti i casi. Preferisco quelli che scelgono di partire o di restare per coraggio. Il coraggio di fare ciò che vogliono. Non sto dicendo neanche di perdere i pochi soldi che avete in astrusi investimenti, magari all’estero. Solo che lasciare la via vecchia per la nuova, spesso significa passare da un fallimento che non ci siamo scelti a uno che almeno proveremo a evitare. Ed è la peggiore delle ipotesi, eh. Figuriamoci le altre!

Ho più esperienza, come si sarà notato, per dire che a evitare le delusioni d’amore si incappa proprio in quelle. Perché ci ficcano in quelle proprio le misure che prendiamo per evitarle, come fughe strategiche da relazioni “troppo dense”, o relazioni “libere” quando vogliamo un altro tipo di storia (se no oh, ribadisco, dove c’è gusto non c’è perdenza).

Quindi, mi sento di argomentare, ammantarci di vittimismo è un alibi che per il dolore che comporta ci evita anche di vederlo come tale (le scorciatoie non erano tutte comode?). Ma è un “manto” che dopo un po’ fa sentire freddo e fa anche perdere tempo.

E per tempo perso intendo tempo non impiegato a fare cose ce ci piacciano o ci “riempiano”, come si dice in spagnolo.

Allora, man mano che smetto di far cose solo per sfuggire alle mie paure o per avere l’approvazione altrui, mi sto rendendo conto che: 1) le cose che voglio, nei limiti del possibile, le ottengo; 2) divento altruista per davvero, e mai come quando divento altruista per davvero penso al mio proprio bene.

Ma di questo, se vi va, ragioneremo (magari insieme) nel prossimo articolo.