Ci credereste? Leggevo la data sul calendario, sapevo benissimo che fosse lunedì, e non mi rendevo conto che avrei dovuto scrivere qualcosa sul blog. Sono anni che aggiorno il blog di lunedì e di venerdì, ma stavolta questo dettaglio non mi veniva proprio in mente.
Due riflessioni al volo:
il mondo è andato avanti lo stesso. Anzi, lunedì vi è venuto in mente di controllare il mio blog? Naaa. Ecco un buon promemoria per quando crediamo che ciò che facciamo freghi a qualcuno. (E vi assicuro che non lo scrivo con amarezza, ma con sollievo!)
Mi sono dimenticata del blog perché sono troppo assorbita da attività che mi piacciono un sacco!
Sì, perché, a parte i mille manoscritti che mando a concorsi e a case editrici (campa cavallo), mi sono iscritta a un sacco di corsi su Coursera: sto approfondendo le tematiche di psicologia che vi illustravo, ma in una prospettiva solo junghiana, quando avevo quella mia crisi globbbale totale che mi stava trasformando in una santona del self-help. Ora, se seguite il blog da quei tempi lì, conferitevi pure una medaglia al valore, e sappiate che ammiro la vostra tenacia. A un po’ di voi, tra l’altro, quegli appunti confusi sull’Ombra, e sul dolore che era una stanza, e sui cuori spezzati, hanno fatto più bene che male, almeno a giudicare da due o tre commenti che mi hanno commossa assai.
Insomma, per farla breve: ciò che crediamo di “dover” fare, spesso non frega a nessuno, e non cambia le sorti del mondo.
Quello che ci piace fare, invece, cambia la vita a noi, che è la cosa più importante. Poi ogni tanto, con santa pazienza e un po’ culo, migliora anche un pochetto la vita altrui.
Fate un po’ voi.
Su, vi lascio con Hegel, che ogni tanto ci azzeccava.
Però devo anche chiedermi: che ci azzeccavo, io, nella stessa cricca che produce esternazioni come quelle di Raffaele Morelli? Perché voi, giustamente, leggevate nelle sue dichiarazioni il maschilismo di un settantenne italiano, ma io ci vedevo anche la punta dell’iceberg: del patriarcato, ovvio, ma anche di tutti i libri che ho letto sul metodo junghiano. Certo, non erano quasi mai testi dell’originale, cioè di quella creatura di un’altra dimensione che è stata Carl Gustav Jung (un particolare che, comprensibilmente, mi ha tolto cento punti con la commissione dell’accademia junghiana). Confesso tuttavia che mi interessava di più scoprire come le peculiarissime (diciamo così) teorie del maestro fossero state riprese dai suoi allievi. Dalle allieve, soprattutto.
Perché neanche nel momento più nero della crisi nerissima che mi ha fatto approdare a Jung ho preso sul serio l’universalità degli archetipi, che sarebbero inquilini innati di un presunto inconscio collettivo. Semmai ci ho scritto sopra un saggio di master, per la gioia di un professore di mitologia molto critico con l’intera questione: a lui ho indicato gli archetipi come risposte statisticamente rilevanti a problemi comuni all’umanità. Mi spiego meglio. Secondo me non è che un paziente schizofrenico, quando afferma di vedere il pene del sole, stia richiamando in qualche modo un antico rituale persiano a lui sconosciuto: è che noi esseri umani conosciamo il sole, e nasciamo nella metà dei casi con un pene. Curiosamente, nella storia abbiamo associato spesso le due cose.
Perché, avete indovinato: il maschile sarebbe energia, e il femminile ricettività. Le donne hanno una componente maschile che si chiama Animus: nella sua forma negativa, quest’archetipo le allontanerebbe dalla gentilezza e dall’empatia, mentre in quella positiva costituirebbe, indovinate un po’, l’autorità e la ragionevolezza. In bocca al lupo con la scoperta di cosa sia l’Anima negli uomini! Jung, va da sé, la associa alla vita stessa, e per lui l’unico modo per non essere schiavi delle donne (e fa l’esempio più o meno scherzoso di un anziano che abbandona la famiglia per un’adolescente!) è sviluppare in autonomia il proprio “lato femminile”. Ma cos’è, invece, il femminile per le donne? Facciamocelo spiegare da Morelli in persona:
Tu puoi fare l’avvocato, il magistrato, avere tutti i soldi che vuoi, ma il femminile in una donna è la base su cui si siede tutto il processo. Prima di tutto sei femminile e il femminile è il luogo che suscita desiderio. Le donne lo sanno bene perché tutte le volte che escono di casa e hanno indosso un vestito con cui non si sentono a loro agio, tornano indietro a cambiarsi. Gli uomini non lo fanno, perché noi uomini non diamo così importanza alla forma. La donna è la regina della forma. La donna quando mette un vestito chiama il desiderio, guai se non fosse così.
Forse qualche altro terapeuta avrebbe specificato che il femminile è anche il luogo che suscita desiderio, ma è molte altre cose che, a quel punto, a me non interessa più scoprire. In ogni caso, lo psichiatra italiano non fa che ripetere, temo, i fondamenti della sua disciplina.
Niente paura, però! Già vedevo segni di ribellione a quest’andazzo ai tempi della mia infatuazione junghiana. Nel suo classicone che è diventato un’icona femminista (!), Clarissa Pinkola Estés scrive:
By classical Jungian definition, animus is the soul-force in women, and is considered masculine. However, many women psychoanalysts, including myself, have, through personal observation, come to refute the classical view and to assert instead that the revivifying source in women is not masculine and alien to her, but feminine and familiar.
Se proseguite con la lettura in questo link, vi accorgete che la stessa Pinkola Estés finisce per dare un valore importante alla rappresentazione dell’Animus come di una componente al maschile, ma la premessa che ho citato mi convinceva a suo tempo a dirmi: ok, si tratta solo di eliminare questo preconcetto per cui, nelle dicotomie dentro/fuori, dare/avere, la prima parte tocchi al femminile e la seconda al maschile. Anche la mia analista junghiana, che con me faceva quello che poteva, ammetteva che l’importante era distinguere questi fattori dell’animo umano: poi, che ciascuno traesse le conclusioni del caso sul “genere” dell’energia.
Se visitate le pagine junghiane su Facebook vedete però che è radicatissima l’idea della diversificazione per genere, che d’altronde era uno dei pilastri del maestro svizzero. Che rispetto a Freud, con cui com’è noto era uscito a pesci fetenti, non è stato edipicamente ammazzato a dovere dai suoi seguaci, anche perché, come padre, era per sua stessa ammissione piuttosto spurio: di solito si ammazza il patriarca, mica il figlio ribelle!
Pazienza se il ribelle aveva relazioni con le ex pazienti a transfert non proprio risoltissimo (ma lui non è che credesse tanto nel concetto…) e ha sfornato una delle scuse più belle mai lette in vita mia (purtroppo non trovo più la fonte) per avere un’amante fissa in una società monogama: Toni Wolff per lui era la donna-Anima, a non frequentarla le figlie gli sarebbero venute fuori con problemi mentali, per via del suo “maschile” represso. Viva il poliamore! Pacifico? Be’, non perdetevi le esternazioni della signora Jung (Emma) sulla figura dell’etera, peraltro teorizzata dalla stessa Toni come archetipo femminile: l’etera soffrirebbe per il fatto di non avere figli (Emma Jung, invece, ne aveva in abbondanza), ma ristora l’uomo in un modo che la madre non può uguagliare. Che paraculo ‘sto maschile, oh! Si organizza sempre tutto, “per natura”, in funzione sua.
Vabbe’, di stranezze rispetto ai miei anni junghiani ve ne posso raccontare a decine: la stessa analista junghiana di cui sopra si chiedeva cosa avessi fatto per attrarreben quattro inseguimenti (tutti “al maschile”) durante il mio soggiorno a Parigi. Morelli sarebbe stato fiero del mio femminile! D’altronde, ricordo anche un autore di self-help che interpretava gli annunci pubblicitari zeppi di seni e fianchi di donne come un omaggio all’Eterno femminino. Vabbe’, nell’ambito del self-help s’è fatta strage di teorie junghiane, mescolate a caso con le filosofie orientali.
Per tutto questo, mentre leggevo del trattamento subito da Michela Murgia, nello psichiatra italiano vedevo soprattutto una sorta di predicatore di una chiesa molto speciale, in cui avevo tentato di entrare anch’io. È un mondo a parte, che mentre prova a reinventarsi continua anche a dare per scontate e universali le norme che lo governano. Solo che, per una volta, un esponente di quel mondo si è sentito dire: “Ma de che?”.
Non vado più all’associazione che mi era sembrata una via d’uscita per il mio notorio problema di rapporti umani: ho la socialità di un orso in letargo. Non tutti se ne accorgono, ma è così. E, quel che è peggio, non credo neanche sia un problema!
Però ci ho provato, eh. Ho frequentato tutta l’estate, e quasi ogni giorno, le attività di questo covo di agenti immobiliari, counsellor di ogni tipo e creatori di startup, che cercavano soprattutto di procacciarsi clienti ecava in omaggio – disponibili entrambi al buffet di benvenuto.
“Mucho postureo”, sarebbe la definizione in spagnolo, simile allo “spararsi le pose” napoletano. È l’arte di darsi delle arie in nome del falso postulato: “Più sembro vincente, più lo sarò davvero”.
E sì, anche io ho creduto per un po’ al pensiero positivo, alla legge dell’attrazione ecc. Sono ancora convinta che, a cercare soluzioni invece di disperarci, nove su dieci le troveremo (“grazie arcazzo”, anyone?). E ci sembreranno provvidenziali, come ieri che uscivo da un noto magazzino con un mobile che pesava un quintale in più del previsto, e un “angelo” si è offerto di accompagnarmi al prezzo di un taxi normale. Miracolo! Che ci faceva un colombiano dotato di furgoncino, proprio all’uscita dell’IKEA di Barcellona?
Il bello è che nell’associazione che abbandonerò ho incrociato persone conosciute molti anni fa, quando ci consigliavamo libri di self-help. Ho dunque contravvenuto al dogma di farmi un quintale di cazzi miei, per amore del mio esperimento preferito: vedere che effetto hanno le scelte della gente nel corso del tempo! Infatti non ho potuto fare a meno di notare le posizioni dei conoscenti di cui sopra su queste parole chiave:
vittime & vittimismo: a me sembra che siamo spesso vittime di qualcosa, fosse anche di un malinteso! Riconoscere quando succede non equivale a gridare “al lupo al lupo”, ma è `piuttosto la chiave per risolvere il problema. E invece, stando a sentire questi ottimisti, le donne “fanno le vittime” quando denunciano, appunto, di essere afflitte da una differenza salariale documentabile, che non saprebbero colmare contando solo sulle loro capacità. Va da sé che le ultrà del pensiero positivo sono precarie quanto le più pessimiste, solo che non se lo dicono. I catalani, poi, “sono vittimisti a prescindere”: anche quelli che, invece dell’ormai proverbiale “Madrid ladrona”, si limitano a denunciare la scarsa separazione dei tre poteri, che confonde pure le presunte sinistre spagnole;
la paura: sentimento proibito. O diventa un’arma per “contrattaccare” (la vita, a sentire queste persone, sarebbe un’eterna guerra), o è una debolezza che non deve esistere. Non è mai una sensazione “amica” che è lì per avvertirci del pericolo, e che dovremmo ascoltare, assimilare, e magari tener presente, intanto che agiamo nonostante quella;
“Smarmella, smarmella tutto”: questa è la parte che mi dispiace di più. La rimozione dei problemi evidenti nella vita: ripeterti che sei superiore al collega promosso al posto tuo, o alla nuova fiamma dell’ex, senza chiederti perché senti tanto il bisogno di fare questo confronto. E sì, sono ruoli e problemi stereotipati perché, come intuirete, gli stereotipi sono pane quotidiano per chi deve fare l’enorme sforzo di rimuovere la tristezza dalla vita.
In effetti, nonostante la gioia rampante e l’entusiasmo d’assalto, quando si parla di politica i compagni d’associazione che mi lascio dietro sono i paladini del buonsenso, del “meno peggio, contro i barbari“: questione che non ha facili soluzioni, ma quello che mi colpisce è la rabbia. C’è una presunta ineluttabilità delle scelte, difesa con tenacia per apparire progressisti sì, ma non rivoluzionari. Il rischio è che la massima per cui il cambiamento più importante è quello interiore diventi un’ottima scusa per non cambiare nient’altro che se stessi (e a volte neanche quello).
Non fraintendetemi: i miei conoscenti ne hanno fatti, di progressi, in questi anni. La loro determinazione ha mietuto riconoscimenti e titoli di studio, e pagine in più di curriculum. Il fatto che questo non li abbia fatti uscire dalla precarietà non è colpa loro, ma è un sintomo dei tempi. Però, sospetto, è come se avessero passato il tempo a girare in circolo, senza mai allontanarsi troppo dal punto di partenza.
Che so, hanno aggiunto altri timbri sul passaporto, ma non mi parlano tanto dei bei paesi visitati, quanto della loro “intrepidità” nell’attraversarli. Ai figli che hanno o non hanno avuto accennano con convinzione arrabbiata, difendendo la loro scelta come se fosse l’unica sensata: allora, “legge della natura” e “condizionamento sociale” diventano termini assoluti e inappellabili. Ma quello che più colpisce è la totale rimozione dell’insuccesso. Magari, tra i presenti alla festa di turno, ero l’unica testimone di diplomi mai presi, o di relazioni sfumate, così sono loro i primi a mettere in mezzo l’argomento: solo per dirmi che “se lo sentivano fin dall’inizio”, che “investire” in quel progetto non li avrebbe portati da nessuna parte.
Dove li hanno portati, invece, i progetti nuovi?
Non troppo lontano, temo: però sono riusciti a convincersi che fosse la migliore delle mete possibili.
Hanno ragione! E secondo me lo resterà finché lasceranno il dolore fuori alla porta.
Quando gli permetteranno di entrare, forse sì che potranno andare dovunque.
(In realtà ce ne sono vari, ma per comodità prendiamo ‘sti due).
Uno è a partire dalla paura, e lo vediamo ogni giorno. Non mi riferisco per forza alle grandi battaglie da tastiera, ma anche a discussioni online in cui a un certo punto capisci che l’altra persona non sta più scrivendo dell’argomento in questione, ma di sé: allora, la critica al femminismo diventa uno sfogo contro l’ex moglie, la difesa del turismo di massa non è che un’interessata apologia di AirBnb, e minimizzare la questione stipendi equivale a creare alibi sulle “paghette” elargite ai propri dipendenti.
E poi c’è la scrittura a partire della condivisione (non quella dei post, proprio quella “alla vecchia”).
Io ho scoperto questo gruppo che ogni domenica mattina fa una cosa semplicissima: si riunisce due ore nello stesso bar, solo per scrivere. Alla fine delle due ore, ci sediamo in paranza intorno allo stesso tavolo e condividiamo difficoltà, piccole soddisfazioni, grandi obiettivi di grafomani.
C’è di tutto: dalla prof. di francese che formula materiale didattico e aggiorna una newsletter, alla studentessa di Pechino che viene col suo libro di testo a fare gli esercizi davanti a un caffè, passando per il britannico che svolge curiosi esercizi di scrittura, utili a sviscerare certe questioni personali.
Proprio quest’ultimo ci ha proposto, tre settimane fa, di svolgere insieme uno dei suoi esercizi, e ho pensato: ah, magnifico, un altro po’ di self-help nella mia vita!
Poi mi sono resa conto che stavolta, almeno, mi sarei scritta ‘sta roba da me, invece di accettare lezioni di ottimismo da qualche guru del marketing. Così, la domenica successiva, sono riuscita ad arrivare mezz’ora prima per provare.
Ci credereste? È arrivato in ritardo il prof.! Che una volta lì ci ha proposto un esercizio all’apparenza semplice: avevamo quattro minuti per dare un consiglio a qualcuno, ma con carta e penna (e qui le millennials hanno avuto problemi a reperire il materiale…). Doveva essere qualcosa che ci premesse di consigliare, a qualcuno che nel bene e nel male occupasse i nostri pensieri.
Pronti, via! Questa prima parte è stata un bagno nel latte per il mio ego, perché ho espresso molto bene il consiglio nel tempo prestabilito. Ma non ho fatto in tempo a darmi i baci da sola, che… STOP! Cambio sedia!
Come, cambio sedia?
Eh, ha puntualizzato il prof., viste da una prospettiva diversa, le cose sono più facili da comprendere. O-ok. Mentre mi trascinavo dietro almeno il caffelatte, ho appreso che la seconda consegna era immaginare la risposta della persona che aveva ricevuto il consiglio. E che cavolo ne so, mi sono detta con crescente insofferenza.
Quattro minuti dopo, mi ero accorta di una cosa: il consiglio non serviva. L’altra persona c’era arrivata di suo alle cose che dicevo, il problema tra noi era un altro… Sta’ a vedere che si stava creando la stessa situazione delle discussioni online, quando invece che dell’argomento parliamo di noi: la questione qui non è più il consiglio in sé, ma il tipo di rapporto che mi lega a questa pers… STOP! Cambio sedia!
Aridaje.
Il caffelatte sballottato mancava di un millimetro il manuale di francese, mentre ricevevo l’ordine più strano di tutti: scrivere in quattro minuti che ne pensava, di tutto questo, qualcuno che passava di lì per caso. Anzi no, qualcuno che occupava il tavolino di fronte, nel bar in cui dispensavo il consiglio: diciamo che, a quel punto, l’avventore davanti a me con metà capelli raccolti a cipolla si è sentito un po’ osservato…
Oh cavolo, e che poteva pensare mai ‘sto povero mago delle acconciature hipster? Beh, che a ben vedere il consiglio non contava proprio niente. Tutto quello che dovevano fare ‘sti due matti che, in teoria, litigavano a un metro dal suo caffè, era cambiare l’interazione tra loro, e soprattutto andare avanti. Soltar. Let go. Il vantaggio di uno spettatore immaginario è che può essere poliglot… STOP! Torniamo al posto di partenza, e formuliamo riflessioni su quello che abbiamo provato. Comincio a spiegare le mie a voce, finché il prof. non m’interrompe: no, devi scrivere pure quelle!
Ancora?! Vabbe’. Almeno, quattro minuti dopo… Fine esercizio.
Resta scolpita nella roccia, o almeno nella mia grafia impossibile, l’osservazione dell’ignaro avventore, che se non vi dispiace metterei proprio in virgolettato:
Eri diventata quel consiglio. Adesso sei libera di essere tutto il resto.
Grazie, spettatore ficcanaso con la cipolla! Hai proprio ragione: let go! Anche se un giorno scoprirò che sei dell’entroterra di Vic, e magari hai qualche difficoltà pure con lo spagnolo…
Non ci è rimasto che parlare, stavolta sì a voce, di come fosse andato l’esercizio, e scoprire che avevamo una gran voglia di farne uno nuovo la settimana dopo. Anche a costo di arrivare quarantacinque minuti prima, e non mezz’ora (vita spericolata).
La levataccia domenicale è stata poi premiata, perché il nuovo esercizio ha avuto lo stesso effetto, su di me, della scoperta dell’esistenza del gazpacho: mi ha cambiato la vita!
Come abbia fatto, però, ve lo racconto lunedì.
(Cercando canzoni sulla scrittura ho trovato questa. Direi che ce la teniamo!)
A un corso di narrativa, un tizio che passava per bravo scrittore espresse la seguente metafora sulla letteratura: “Una birra con due patatine è sfiziosa, ma la gastronomia è un’altra cosa”. Poi, come esempio di “gastronomia letteraria”, segnalò Baricco. Immaginai l’orrore dei colleghi saccenti italiani. Che magari, con raccapriccio del mio compagno di corso, leggono Zafón.
Ma non era di romanzi, che volevo parlare.
Una volta il tizio di cui sopra se l’è presa anche con Jorge Bucay, terapeuta e scrittore argentino che si occupa molto di spiritualità. Gli contestava il fatto di infondere falso ottimismo nei suoi lettori, per illuderli che la vita fosse tutta rose e fiori. A giudicare dall’aspetto e dalle critiche (infondate, ho letto Bucay), costui doveva pensare che la vita fosse pulp, molto pulp, pure troppo.
In ogni caso, a domanda “Hai mai letto Bucay?”, lui ovviamente rispose di no.
Una caratteristica di chi critica i libri di self-help, o autoayuda, come si dice qua in Spagna, è che non ne ha mai letto uno. La sua intelligenza si rifiuta, il titolo stesso gli fa schifo. Ricordo una videoblogger che sbraitava indignata “Leggete filosofia”. Il rischio, a mio avviso, è che lo snobismo renda meno credibili tutte le comprensibili perplessità del caso.
Io non ritengo in tutti i casi che non si debba mai criticare un film senza prima, prima vederlo, ma sospetto che la visione aiuti.
Manuali che ci insegnino a campare sono stati scritti fin dagli albori della civiltà, fin dalla Bibbia. Oddio, non tutti sono artistici come l’Ars amandi di Ovidio, ma insomma, se trovo sullo scaffale della Fnac Come si seducono le donne, non penso subito che l’autore sia Filippo Tommaso Marinetti.
D’altronde i libri di oggi sono anche una raccolta spesso esibita trionfalmente di massime ispiratrici dei vecchi filosofi. Marco Aurelio, raccomandato anche, ricorderete, dal Dr Hannibal Lecter, sembra spopolare sul fronte americano, per esempio. E gli esperti di filosofie orientali buttano da sempre acqua al proprio mulino, denunciando il saccheggio di complesse teorie filosofiche asiatiche, frullate in un Bignami occidentale di comodo.
Ma il vittimismo è la migliore delle argomentazioni degli autori di ogni genere accusati di produrre materiale scadente, compreso Gigi D’Alessio.
Quando però il materiale diventa divulgativo, secondo me, è tutt’altro che un male, a seconda di cosa si divulghi e come.
A me del self-help piacciono quei manuali che fanno da ponte tra “la torre d’avorio dell’accademia” (nella definizione di Wikipedia) e le persone che non hanno studiato molto. In questo senso, opere diversissime come Donne che amano troppo e Donne che corrono coi lupi hanno già aiutato un paio di generazioni di donne a riflettere su se stesse. Alcune, prendendo alla lettera i passi del primo libro (i famosi step cari agli autori americani) per la guarigione. Altre ricavandone riflessioni utili senza lasciarsi eccessivamente condizionare.
La diffidenza nei confronti di queste pubblicazioni mi sembra affliggere questo prodotto della letteratura pop come altri prodotti, vedi generi letterari considerati minori e le serie tv che sono le discendenti del romanzo d’appendice.
Ma so che il discorso è delicato. Le speranze della gente sono materiale pericoloso da maneggiare e il tipo di letteratura basata sulla crescita spirituale potrebbe sfruttarlo senza gli accorgimenti del caso. Si sprecano le battute tipo “le uniche persone aiutate da questi libri sono gli autori, che si fanno miliardari”.
Sarà anche per questo che alcuni autori, infatti, mi diventano i talebani dell’ottimismo. Opere come The Secret e la loro legge di attrazione (se pensi a cose positive, ti succederanno cose positive) diffondono idee che trovo corrette, come per esempio che un atteggiamento ottimista aiuti. Nei miei periodi di tranquillità e sicurezza personale sono ancora propensa a vedere una sorta di “magia” intorno a me, che in molti casi fa succedere le cose esattamente come le volevo, quando le volevo. Ma non è magia, sono io. Che in quel momento ho le energie giuste per cambiare le cose che posso (per citare la famosa preghiera della serenità), per accettare serenamente quelle che non posso cambiare, e per cogliere al volo le opportunità che mi si presentano.
Fin qui, tutto ok. Il pericolo è quando la felicità viene venduta come un atto della volontà, come se l’Universo (quest’entità benefica cui rivolgersi) ti procurasse tutto ciò che ti serve solo se lo desideri ardentemente, e se non te lo procura è perché non l’hai desiderato abbastanza.
Hai voglia di scrivere che l’ottimismo non è rimozione delle cose negative, come si affrettano a precisare vari autori. Ma in fin dei conti rischia di diventarlo. Quando ti viene consigliato di eliminare tutte le canzoni piene di “energie negative” e di non guardare troppo il telegiornale, la soluzione proposta sembra quella di alimentare l’autoinganno nella sua forma peggiore (l’ignoranza volontaria dei fatti) e vivere in una sorta di bolla di sapone, che non so se sperare o meno che scoppi.
Sospetto che qui ci sia lo zampino di quell’ottimismo a oltranza che sembra caratterizzare la società americana. Sulla quale mi professo ignorante, motivo per cui mi astengo dal linciarla come si credono in dovere di fare altri sinistrorsi più antiisraeliani e antiamericani che filopalestinesi, filodemocratici (a proposito, Madre Teresa di Calcutta che non andava alle manifestazioni “contro” e attendeva con ansia quelle a favore di qualcosa, si può considerare autrice mancata di self-help?).
Ma dal bombardamento mediatico e non di prodotti americani (se mio nonno non avesse ricordato chi la vinse, poi, quella guerra enorme che scoppiò quando era giovane, gli sarebbe bastato accendere la radio) mi sembra d’individuare quest’ottimismo a oltranza che a lungo andare, temo, può diventare davvero una piaga.
Devo dire che, proveniendo da una terra che trovo tendere a un pessimismo cosmico spacciato per realismo, a un cupio dissolvi dal quale cercano di salvarla pazientemente gli amici rimasti là, quest’ottimismo, nella sua forma non estremista, mi sembra cosa buona e giusta.
Della mia terra, però, conservo volentieri un sacro rispetto per l’amore. Sono d’accordo coi manuali che stigmatizzano il masochismo che lo accompagna, al giorno d’oggi, la profusione di messaggi terribili, specie per le giovani donne, per cui amare e soffrire sono sinonimi. Ma alcuni manuali presentano l’amore come una specie di elettrodomestico da comprare, una relazione “sana” (aridaje con la medicalizzazione del linguaggio come parvenza di scientificità) è tale se ti permette di crescere, se ti dà serenità, ecc. Tutto giusto, ma tra amore tossico e amore IKEA, da “comprare” se ti conviene e comporre a tuo piacimento, spero proprio esista una via di mezzo. Poco tempo fa confidavo dei problemi sentimentali a un amico che a un certo punto della sua vita ha compiuto un percorso spirituale importante. “Questa relazione ti permetterebbe di crescere?”, mi ha chiesto lui. Gli ho risposto che se c’è una cosa che per me manca al cosiddetto crecimiento espiritual, come si chiama qui, è la libertà di dire “No, però non me ne frega niente”. E, a prescindere da se fosse o no la risposta giusta alla sua domanda (non lo era) la libertà, almeno per me, è tutto.
Ma una parte dell’America stessa prende più o meno bonariamente in giro questa tendenza.
Nel film The Company Men Ben Affleck, licenziato da una florida impresa insieme a molti suoi colleghi, va in un centro preposto ad aiutarlo a trovare lavoro. Al momento di assistere alla prima sessione del programma di assistenza, il centralinista gli dice, scherzando: “Fammi la Tigre”.
La Tigre, si scopre poi, è un’affermazione positiva con cui i neolicenziati cominciano la loro lunga e infruttuosa ricerca di un lavoro: “Vincerò, perché ho fiducia, coraggio ed entusiasmo”.
Alla fine, Affleck e il compagno di sventura che l’aveva preso in giro trovano lavoro come muratori presso il cognato del primo, quadretto familiare al mio background nepotista ma solidale. E allora sì, scherzando ma credendoci, i pantaloni sporchi di malta e polvere, possono recitare la Tigre. Finiranno per ripartire da 0, fondando un’impresa di difficile gestione.
Insomma, rifuggendo dalle facili formule magiche per risolverci la vita, per me certi libri di self-help più connessi alla psicologia divulgativa possono essere una risorsa. Non mi sono mai laureata in psicologia, anche se mi sarebbe piaciuto, e sono contenta se qualcuno mi dà qualche trucco per combattere l’ansia, o mi ricorda che molte convinzioni sulla vita e sul mondo le ha sviluppate la me stessa di 5-6 anni con cui ora non sarei più tanto d’accordo.
Sono banalità? Vengo da un contesto in cui forse, a furia di “leggere Marco Aurelio”, o meglio di citarlo male senza averlo mai letto, le banalità si scordano. Ed è un peccato.