Archivio degli articoli con tag: sfiga
Fotos de Rayos de sol de stock, Rayos de sol imágenes libres de derechos |  Depositphotos®

Bam! Il primo gennaio mi si scassa il computer. O meglio, la batteria non si carica più.

Sarà stata l’acqua rovesciata da Archie a San Silvestro? Il bicchiere era a un chilometro e mezzo dal portatile, ma la mia ciorta non si fa spaventare da queste quisquilie, specie ora che devo consegnare cinque saggetti in inglese entro il 10 gennaio, per il master in psicologia, e il 31 mi scade un concorso letterario, in cui mi menerò a kamikaze con Angelina: sono prontissima! Ancora devo finire la prima bozza.

Capirete che l’amena scoperta del computer scarico veniva da me accolta con la consueta sobrietà e pazienza zen (i vicini possono confermare, specie per il salmodiare in sanscrito). D’altronde vi ho parlato spesso della mia difficoltà ad accettare di non avere il controllo della situazione, e l’anno è iniziato con la sensazione che non controllavo una ceppa di niente. I sostituti di Cristobal ancora non avevano trovato una casa: che facevo, li mandavo in strada? D’altronde i casi di covid aumentavano, quindi gli ospiti che sarebbero dovuti subentrare ai ragazzi erano in forse.

E poi, di primo gennaio dove lo trovavo un servizio assistenza per il PC? (No, non funzionava neanche la chat dell’applicazione). E il giorno dopo sarebbe stata domenica… Non potevo nemmeno rallegrarmi della pausa lavorativa per tante persone sottopagate, perché bastava uscire di casa per trovare un negozio di scemenze aperto in vista dei Magi.

Al che, dopo un pianterello inaugurale del 2022, ho eseguito due azioni molto strane: 1) ho “fonato” di nuovo il computer dal lato della batteria, come già avevo fatto la sera prima; 2) ho sbagliato a inserire il caricatore, attaccandolo a una porta laterale che non avevo mai usato prima.

Ci credereste? Funzionava come nuovo! Il mio master era salvo, e Angelina era sempre una ciofeca, ma in fondo avete mai letto le prime bozze di Proust? No, erano fantastiche lo stesso, lasciamo perdere.

Almeno permettetemi di correggermi sulla questione “cose che non controlliamo”, dopo anni che il mio pippone sul blog si riassumeva con: “Non puoi farci niente: accettalo e farai spazio per pensare ad altro”.

Invece, il mio pimpante inizio anno mi ha insegnato che:

  • A volte sì che possiamo farci qualcosa, tipo sbagliare porta sul pc. Ma sono rimedi così a cazzo di cane che è inutile anche provare a congegnarli. Meglio aspettare l’ispirazione, o direttamente la botta di culo.
  • In ogni caso, non è vero che non possiamo farci niente: possiamo fare, appunto, tutto il resto.

Tutto il resto delle cose, intendo. Nel mio caso, ho mandato il pc a fa’ un bagno (stavolta metaforico), e sono uscita a godermi un sole miracoloso, nell’ora d’aria concessami dalle circostanze.

Al ritorno mi ero un po’ arripigliata e, senza neanche drogarmi, mi sono cimentata nelle soluzioni improbabili di cui sopra.

Riassumendo: avete questioni che sfuggono al vostro controllo? Mandatele a quel paese e fate tutto il resto. A quel punto le stronze sono capacissime di risolversi da sole.

Buon 2022 anche a loro!

Pubblicità

Breve storia triste.

Mi arriva l’SMS con le istruzioni per fare il vaccino. Compilo i dati sulla pagina apposita di CatSalut (la sanità pubblica catalana), e scopro che ho due opzioni: vaccinarmi al Cap (cioè l’Asl) di riferimento nella mia zona, oppure andare in un centro di vaccinazione di massa.

Seleziono la prima opzione, e mi si apre il seguente ventaglio di scelte:

Cap Raval Nord

Cap Raval Nord

Cap Raval Nord

(ripetere per venti volte).

Non ci crederete, ma scelgo Cap Raval Nord. A quel punto, un pop-up mi annuncia che non ci sono appuntamenti disponibili. Va bene, reinseriamo tutti i dati e proviamo il centro di vaccinazione di massa… Eccallà: tra i papabili, il più vicino si trova comunque fuori Barcellona, anche se è a portata di metro. Ma no, protesto con la mia sfiga: conosco due autoctone che si sono vaccinate a Plaça Espanya! E che facciamo, figli e figliastri? Ritenterò nei giorni successivi!

Risultato: è scomparsa anche l’opzione a portata di metro. Ora mi toccherebbe il treno, magari uno di quelli pieni di turisti che si scocciano di tenere su la mascherina… Ma le mie amiche si sono vaccinate a Plaça Espanyaaa! È una cospirazione contro di me. È evidente.

Poi, curiosando su Facebook, finisco su un post di “Tedeschi a Barcellona“, scritto in tedesco ovviamente. Dopo tre anni di studi seri e approfonditi (Duolingo), capisco solo “vaccino”, “fuori Barcellona” e “mannaggia la…” (qui non sono sicura di aver afferrato). Allora sono un po’ Kalimeren pure loro, con CatSalut! E io non sono speciale nemmeno nella sfiga.

Finisce che ieri vado a cena con due amici, a orari quasi tedeschi, ma scopriamo che nel locale c’è il piano bar in arabo: allora, quella che doveva essere una cenetta veloce al ristorante libanese si trasforma in un concertone con annessa fumatina di shisha (vedi foto sul mio Instagram), e cliente entusiasta che improvvisa la danza del ventre in jeans.

Torno a casa distrutta dalla shisha, desiderosa di esibire presto anche io il mio penoso shimmy, e incapace di dormire. Dunque, mi metto al pc e… sorpresa! Stavolta, tra le opzioni per il vaccino c’è Plaça Espanya! E l’unico appuntamento papabile è per martedì prossimo. Dov’è il tasto “Certo!”?

E niente, non imparo mai la lezione: pure la sfiga cronica è un lusso. Per accanirsi contro la stessa persona, la vita dovrebbe almeno avere un senso.

E invece si sta come d’estate, sul sito di CatSalut, i non vaccinati.

(In anteprima, la mia prossima coreografia al libanese.)

Come non detto: il mio non è surrealismo, ormai so’ numeri.

Per prima cosa, l’altro giorno mi è volata giù una pianta. La intravedete nell’angolo in alto a sinistra di questa foto:

Nessuna descrizione disponibile.
Così vicina, così lontana…

È caduta dal davanzale giovedì scorso, per le raffiche di vento che sembravano voler buttare a terra i palazzi. È caduta in piedi, come se qualcuno l’avesse risollevata, o se una brezza gentile (invece di quell’uragano) l’avesse posata proprio lì, in uno dei due cortili interni del piano ammezzato. Ci tenevo, a quella piantina di salvia: me l’aveva regalata quasi un mese fa la mia ex suocera, quando l’ho conosciuta.

È stato proprio il figlio della mia ex suocera, e attuale coinquilino, a informarmi che su quel piano c’era un appartamento turistico, probabilmente svuotato dalla pandemia. Di fronte c’era lo studio di una coppia, lui gioielliere e lei designer. Ma tanto, di questi tempi, dovevano lavorare da casa.

Sono andata comunque in missione salvataggio col compagno di quarantena, che intanto era sopraggiunto. Lui, però, voleva fare prima una passeggiata. What else? In fondo è inglese, il vento gli fa una pippa. Io invece mi sono sono attrezzata con la mia solita moderazione, e mi sono lanciata alla ricerca dei tre cappotti vegani canadesi che, secondo la ditta che li fabbricava, assicuravano una “protezione media” dal freddo. Li avevo presi in saldi ad agosto e la consegna è stata un’avventura che vi ho già raccontato qui: ma intanto ero contenta di essermi procurata tre capi perfetti, spiritosi, pieni di glamour…

“Perché stai uscendo con la vestaglia?” mi ha chiesto il coinquilino, vedendomi col cappotto prescelto.

Ancora oggi il coinquilino giura che il tessuto a riccioletti simil-lana del cappotto è tale e quale a quello della mia maxi-vestaglia grigia (che poi era sua: gliel’avevo regalata tre anni fa, ma lui non l’ha mai voluta, e così ogni inverno ci giro per casa imbacuccata tipo Rocky pre-incontro).

“Non ti preoccupare, stai benissimo: si vede che è un cappotto speciale” mi ha confortato il compagno di quarantena in ascensore.

E allora che volete, è scattato un bacio a mascherine abbassate. Il bacio era ancora in corso quando si sono aperte le porte dell’ascensore. Abbiamo guardato avanti a noi e, con nostro sommo orrore, non abbiamo trovato il portone del palazzo, ma un tipo alto coi capelli grigi che ci osservava stranito. Chiedendo scusa ci siamo precipitati fuori, ma io continuavo a non vedere l’uscita: davanti a me c’erano solo scale, e alle mie spalle il tizio ci invitava a rientrare nell’ascensore. “Ma no” pensavo, insistendo che saremmo scesi a piedi “l’ascensore sarà stato chiamato mentre scendevamo dal terzo piano”.

Eravamo al quarto piano. L’ascensore era salito, non sceso. Quando siamo arrivati a questa conclusione, il tipo alto coi capelli grigi s’era già spalmato contro un angolo della cabina, con l’aplomb che da un po’ contraddistingue le persone quando devono condividere spazi chiusi.

“I have seen nothing” ha dichiarato sorridendo, e ha schiacciato il sospirato pulsante del piano terra.

“Quel tipo parlava bene inglese, vero?” ho cominciato a insistere con il compagno di quarantena, una volta in strada.

Lui faceva segni strani, non rispondeva.

“Secondo te di dov’è?” incalzavo. “Sembrava altino, per essere uno di qua…”

“Guarda che ci sta camminando proprio dietro!” aveva sussurrato infine il compagno di quarantena.

Ok. Credo che il tipo ci abbia sorpassati più per pietà che per la necessità di scappare via.

Ah, poi durante la passeggiata ho avuto tutto il tempo di ricordare che un soprabito che offra una “protezione media dal freddo”, in Canada, equivale a una roba che ti tiene caldo anche a – 6: infatti al ritorno camminavo con il cappotto buttato all’indietro tipo kimono da spiaggia. Comunque ci abbiamo provato, a recuperare la pianta dal cortile dell’ammezzato. Come previsto, non ci ha risposto nessuno su entrambi i lati del pianerottolo. Il giorno dopo sono andata da sola: stessa storia.

Ora sono qui a casa, che ogni tanto m’affaccio e osservo la piantina di salvia volata via da me. Mi chiedo persino se sia possibile, in qualche modo, innaffiarla da sopra.

Però la pianta sembra stare bene, laggiù. Bella dritta, sfida pioggia e sole, e forse non rimpiange nemmeno il mio davanzale: lo specifico perché una delle scuse più gettonate (e non sempre ironiche) per non diventare vegani è che “anche le piante hanno dei sentimenti”.

Forse allora la piantina è perfino risollevata a stare lì, lontana dal covo di caos e disastri assortiti che è casa mia.

Chissà come dev’essere, la mia vita, vista da laggiù.

Entra en vigor el cierre de bares y restaurantes en Catalunya
Da: https://www.elperiodico.com/es/sociedad/20201016/tsjc-medidas-covid-catalunya-8156905

No, scusate, una volta che ho una botta di culo ve la voglio raccontare.

Anche perché venerdì 16, il primo giorno della chiusura dei locali di ristorazione in Catalogna, era iniziato come di consueto: con me buttata giù dal letto da una bussata del tecnico dell’ascensore, e con la visione improvvisa del mio ragazzo steso a terra in salotto, con addosso uno stenditoio rovesciato.

Tutto normale, insomma.

Due premesse:

  1. se dobbiamo dar credito alle leggi di Murphy, l’ascensore s’era guastato per causa mia: la sera prima m’ero decisa a comprare, per la prima volta da mesi, una damigiana d’acqua da otto litri, dunque sarebbe stato un peccato per la mia sfiga universale che non me la dovessi trascinare a piedi per quattro piani;
  2. per una serie di questioni complicate da spiegare, il mio ragazzo non ama i materassi, dunque se resta da me a dormire lo fa a terra in salotto: lo stenditoio, carico di lenzuola salvate al tempo incerto della nottata, gli si sarà rovesciato addosso mentre scalciava nel sonno.

Capite? Normale amministrazione, come era normalissimo per i miei standard di vita che quel giorno avessi a pranzo la mia ex suocera. Che, va da sé, non avevo mai conosciuto prima di allora.

Il fatto è che la madre del mio ex (e attuale coinquilino) si trovava in visita a Barcellona, rea di compiere gli anni proprio adesso che scattava il decreto di chiusura dei locali. Quindi il suo ultimo giorno di permanenza rischiava di risolversi in un mesto picnic al parco insieme al figlio, con una temperatura che, almeno al mattino, era scesa pure a nove gradi.

Il mio ex (che d’ora in avanti chiameremo “il coinquilino”) s’era preparato una rigorosa tabella di marcia per le pulizie, che la visione del mio ragazzo steso a terra con uno stenditoio addosso gli aveva mandato a carte quarantotto. Devo dire che non era previsto che il mio ragazzo restasse a dormire, ma la sera prima io e lui avevamo utilizzato il fatto che fossi in finale a questo concorso come scusa per una cena cinese al Da Zhong: in fondo mezza città si stava congedando dai bar con un'”ultima cena”, e io confidavo nella mia irrimediabile divergenza di gusti gastronomici con la popolazione barcellonese per trovare un posto libero al mio cinese preferito. Tanto avevo ordinato una cena leggerissima: tofu piccante con riso in bianco, insalata di tagliolini, taccole, melanzane saltate. Risultato: un’oretta dopo, il mio ragazzo giaceva quasi esanime sul mio divano, e a quel punto aveva rinunciato a tornare a casa in bici per crearsi il solito giaciglio sul pavimento. Perché io me la faccio solo con gente normale.

“Poco male” aveva commentato a quella vista il coinquilino, con la mente già rivolta alla candeggina da spargere l’indomani in onore di sua madre in visita. “Tanto quello si sveglia presto per correre fuori a scrivere.”

Sì: a scrivere in un bar, quando i bar hanno dei tavolini a disposizione. Con i locali chiusi ai clienti il mio ragazzo ciondolava ancora rincoglionito sul divano alle dieci di quel fatidico venerdì mattina, e il coinquilino era stato sul punto di minacciare una strage a base di gavettoni alla candeggina. Per fortuna, dopo un civile scambio di battute passivo-aggressive, è finita così: mentre il coinquilino scatenava l’inferno in salotto con scopa e paletta, il mio ragazzo si impegnava a buttare al posto nostro tutto il vetro (due bustone piene), e intanto si rifugiava in cucina a fregarmi i pancake che stavo cucinando per la colazione…

Sì, lo so: finora vi sto descrivendo la mia sfiga di tutti i giorni. Abbiate pazienza perché mezz’ora dopo, finalmente, ero sola in casa! Non mi restava che fingere di pulire un po’ anch’io. Stavo addirittura per passare lo straccio quando, alle 10.56 precise, mi è giunto un WhatsApp a sorpresa: “Arrivo giusto in tempo!”.

E adesso chi minchia era? Oddio. Oddio. Oddio.

Era un amico che avevo conosciuto grazie al (defunto) gruppo di scrittura: l’avevo incontrato qualche giorno prima fuori al palazzo in cui lavora come portiere, e sì, ci eravamo ripromessi di prenderci un caffè proprio quel venerdì alle 11, nel Cappuccino di fronte alla metro Jaume I. Solo che la questione della chiusura dei bar ci aveva spiazzati, e m’era parso di capire che l’incontro era annullato… Ok, era parso solo a me. Magnifico.

È finita che il malcapitato mi ha aspettato al freddo per un quarto d’ora, il tempo che ci ho messo a infilare una tuta inguardabile e correre in strada. Andava da sé che il caffè lo offrivo io.

Ed ecco, finalmente, la botta di culo: o almeno la prima parte. Il bar non solo era aperto (purtroppo molti locali hanno deciso proprio di chiudere i battenti), ma aveva pure dei tavolini all’interno! Piazzati a distanza ragionevole, occupati solo per la metà. Evviva, non dovevamo congelarci in piedi là fuori! Com’era possibile, la storia dei tavolini? Era una deroga, una questione di licenze? Inutile farsi domande: ho ordinato i due caffè e ho ascoltato al calduccio i resoconti divertentissimi sul condominio in cui lavora il mio amico (che prima che arrivasse il covid faceva cabaret). Ero pure vicina al supermercato bio: a quel punto potevo trasformare quella pausa caffè in qualcosa di utile, e comprare due dolci per l’ex suocera in arrivo a casa…

Ma no, aspettate: all’inizio del post non mi riferivo alla botta di culo di trovare dei tavolini disponibili in un bar. La questione è che ho avuto la fortuna ancora maggiore di scoprire in tempo che non era così.

Perché, nel momento esatto in cui mi alzavo per andare a pagare alla cassa, sono entrati due agenti della Guardia Urbana. È stato chiaro fin da subito, a tutti i presenti, che non erano venuti a prendersi il caffè.

Il fatto è che, ho intuito all’improvviso, neanche noi avremmo dovuto prenderci il caffè, non all’interno del locale almeno. Non c’era nessuna deroga: il bar stava contravvenendo al nuovo decreto. Io mi ero alzata giusto in tempo, ma la gente agli altri tavoli sarebbe stata buttata fuori in 3, 2, 1…

A dirla tutta, il barista era troppo intento a balbettare scuse con gli agenti per prendere i miei soldi, quindi potevo addirittura andar via senza pagare! No, scherzo, ma m’inquietava restare lì mentre gli agenti, che non avevano occhi che per i malcapitati ancora seduti, andavano a salutare questi ultimi di persona con tutti gli ossequi, e con formalità sinistra li “invitavano” ad alzarsi…

Io invece ero libera di andare a saccheggiare il banco dei dolci del supermercato fighetto, e ormai ero pronta a tutto: alla visione improvvisa del coinquilino e di sua madre giusto sotto il mio palazzo, proprio mentre accompagnavo l’amico portiere/cabarettista almeno fino a Plaça Catalunya (tanto quest’ultimo era ormai rassegnato alle mie defezioni); alla lunga chiacchierata che avrei portato avanti con la mia ex suocera mentre il coinquilino ci metteva un’ora d’orologio a preparare il suo mitico risotto alla zucca; al messaggio di cinque minuti con cui un amico ricercatore rimasto fregato dai bar chiusi (e dal fatto di vivere in una stanza piccola e senza ricezione wifi) si accollava a merenda il giorno dopo.

Ma che me ne fregava. Avevo avuto una botta di culo nella mia vita recente, e la cosa mi stava aprendo nuovi scenari: che altro mi potrebbe succedere, in una vita in cui ho culo? Che il mio ragazzo impari a dormire su un materasso? Che il coinquilino adotti lo slogan femminista: “più polvere in casa e meno polvere nel cervello”? Che le misure anticovid adottate nella mia città non abbiano tutta l’aria di essere un tappabuchi dalle connotazioni punitive, che scarica sulla cittadinanza la responsabilità dei mancati provvedimenti istituzionali?

Chi lo sa.

Magari ci scrivo uno sketch di cabaret insieme all’amico che mi aspettava invano alle undici di un venerdì mattina, davanti a un bar che doveva essere chiuso, ma non lo era.

Video de hombre tocando la guitarra mientras conduce Adoro il chitarrista “Brit” sul Portal de l’Àngel, fuori casa mia.

Lo adoro perché di britannico ha giusto il repertorio, che a dirla tutta è la solita zuppa a beneficio dei rari turisti (rari quest’anno, almeno) che sciamano sul boulevard costeggiato da grandi magazzini, e delle autoctone che per ovvi motivi si sono saltate la collezione primavera-estate di Zara e Mango, e adesso puntano dritte ai saldi.

E allora il nostro one-man show attacca fin dal pomeriggio con David Bowie e i Coldplay, anche se lui sarà al massimo di Hospitalet de Llobregat: ma ha la voce calda, graffiante, lagnosa al punto giusto. Sono i testi a lasciarmi un po’ perplessa. Proprio mentre sto per lanciare anch’io un accorato appello a Major Tom, all’unisono con il Nostro, quello esplode in un fantastico:

This is ground control to Major Tom [e fin qui tutto bene]

You really had it grave [eh?]

And the table wants to know what film you were [ok]

Spesso me ne vado senza scoprire cosa risponda Major Tom in mondovisione a questa sconcertante domanda. Forse il Nostro, però, si supera con i Coldplay, sia in una canzone che per motivi poco piacevoli ho preso a benvolere:

Lights will guide you Rome

and ignite your scones [e d’ora in poi prenderò il tè delle 5 con un bello scone brûlé],

sia in un grande classico:

Nobody said it was easy

No one ever said it would be this fart… [forse lo scone di prima era troppo pesante?].

Sul serio, io non so se augurarmi che capiate l’inglese, o no!

In ogni caso, facevo presente tutto questo per tornare a quel discorso sulla sofferenza come modus vivendi, ma affrontandolo con un piglio più vacanziero: è che ormai, quando passo davanti al Nostro, già so che se mi lascio andare al ritmo della canzonetta di turno avrò una bella delusione, e quindi non canto più. Non so, sospetto che questa, benché in chiave molto meno seria, sia una buona trasposizione del mainagioia way of life: ci abituiamo tanto alle delusioni che quando va bene (nel nostro esempio, quella volta che il tipo azzecca il testo), non sappiamo come prenderla.

Me ne sono accorta entrando per una volta anch’io nell’odiato Zara, dopo il miracoloso avvistamento di un vestito in vetrina che mi piacesse: una volta dentro, nessuna traccia del vestito, ovviamente (vedete? la rassegnazione!), ma ho notato su un manichino un indumento in maglia, color crema, che mi sembrava una gonna. Ma no, mi sono detta, qualcosa deve sempre andare storto in questo magazzino scadente che in Italia passa pure per figo: e infatti la “gonna” in questione si è rivelata un bermuda che manco i mutandoni della mia bisnonna fanno tanto Guerra di Crimea!

Vabbè che, da donna, mi è capitato spesso di sperimentare piccole e grandi delusioni: prendete le rare volte che mi sono cimentata nei balli di coppia. Ben presto mi sono resa conto che non è che ci saremmo alternati, col “cavaliere”, ma avrei dovuto farmi l’intero brano ballando all’indietro, tipo gambero, mentre l’altro decideva se farmi fare la giravolta o no… E fortuna che, al contrario di Ginger, non avevo i tacchi! Allora mi è stato detto che il mio era un problema comune a certi donnoni emancipati (sia letto con spregio), che, sempre come me, si muovevano come tavole di legno: ma non capivamo che “era più difficile imparare a lasciarsi condurre, che a condurre”. Argomento, peraltro, già sentito almeno in un paio di religioni monoteiste e molto paracule… Ora, se proprio devo dedicare tempo e pazienza a fare qualcosa che neanche mi piace, piuttosto mi metto a fare quelle sculture con i fiammiferi che sono taaanto carucce! Visto? Il mainagioia si combatte prendendosi le gioie dove ci sono… E poi, uno dei pochi santi che si sono fatti pestare i piedi da me a ritmo di forró è diventato il mio spacciatore personale di uova di fattoria (quando ancora ne mangiavo) e mi ha fatto aggiudicare addirittura un’occhiata da Viggo Mortensen, anche se per i motivi sbagliati.

Insomma, chiuderei quest’ulteriore puntata sull’abitudine alla sofferenza, o più che altro alla sfiga, con un proverbio banale quanto sopravvalutato: si chiude una porta, si apre un portone.

Quello che avevamo iniziato in un modo, può prendere sul serio pieghe inaspettate. E non sempre sgradite, non ricominciate a gufare!

Ma ne riparleremo ancora.

 

 

 

 

Image result for la merma i chingSì, credo di avervi già parlato della mia passione per l’I Ching, o Libro dei mutamenti (oracolo cinese del IX secolo a. C.). È il mio scaricatore di ansia preferito!

Millenni di sapienza cinese al servizio delle mie (per fortuna occasionali) paturnie, e dei dubbi della situazione. Perché l’I Ching, corteggiato da Jung e pure dal fisico Pauli, amato da Confucio e pieno di fans altrettanto hipster in tutto il mondo, è un oracolo che, ai miei occhi di analfabeta in psicologia, fa un po’ Rorschach: ciascuno ci vede un po’ il cavolo che gli pare. E la reazione più frequente è quella di tirare fuori il meme di Gerry Scotti con le mani al petto, e dichiarare: “Mio Dio, ma parla di me!”.

In realtà, parla di tutti: dice cose chiariiissime tipo “È propizio attraversare le grandi acque” (come sapevi che mi perde la lavatrice?!), oppure “È opportuno incontrare il grande uomo” (non esageriamo, mo’, al massimo è un quaqquaraqquà). È come con la Pizia, ma senza pagare manco una dracma. Semmai prendi prestate tre monetine uguali, che torneranno al mittente, e decidi tu che significato vuoi dare a ‘sta zuppa cinese di parole. Quello che ne ricavi, magari, è il senso che ti aiuta di più.

Ora, tra gli esagrammi che formi lanciando le monetine di cui sopra per sei volte (non ho la testa per usare il metodo tradizionale), uno dei più belli è il numero 41, riprodotto nell’immagine sopra: in spagnolo, “la merma”. Sarebbe “la diminuzione”, ma vuoi mettere? Lo penso proprio in romanesco: ‘a merma. Che, alle mie orecchie di analfabeta in romanesco, suona tipo come “la melma”. Sarebbe a dire: auguri! Comincia per te un bel periodo demmerda. Ma se lo affronti con stoicismo e moderazione, tanto ‘a ruota gira e torni a crescere, e infatti l’accrescimento è giusto l’esagramma successivo! Pure la ruota, dev’essere quella della fortuna nei tarocchi, anche se il nostro caro Libro dei Mutamenti je fa ‘na pippa, perché ci ha quei milletrecento annetti in più. Ma intanto, come si dice in mandarino, so’ cazzi. Si sta come d’estate, dopo la pioggia sul Parc Güell, ‘a melma. Indovinate che numero mi è uscito, l’altro giorno? E secco, eh, senza le “linee mobili” che portassero a qualche altra soluzione.

Mo’ lo so, non ci voleva l’I Ching: riconoscevo i sintomi. Lo fareste anche voi, se la banca non vi dà ‘sto mutuo, e se pure il secondo test di fertilità si mette a predirvi il futuro: quello di zia gattara, a cui sbolognare i bambini d’estate per poi lamentarsi se gli insegni il GENDER!1!! (Lasciate che i/le pargol* vengano a me…) Metteteci l’editor, sparita col manoscritto – e a proposito, è irreperibile pure quello che, fino a due settimane fa, voleva presentarvi pure a sua nonna. A volte ‘sta melma diventa sabbie mobili: più entri in ansia, più non ci puoi fare una beneamata. Tanto vale seguire i saggi cinesi e starsene lì, dire terra agghiotteme (scusate sempre il mandarino) e aspettare che la tempesta di stallatico la smetta di profumarti tanto i capelli.

Io, non so se si è capito, ho un forte problema con le cose che sfuggono al mio controllo: devo agire, devo muovermi, devo… Ma ‘ndo vai, interviene allora l’I Ching, all’unisono coi miei amici rassegnati: che tu ti sbatta tanto o poco, sempre una ceppa ci puoi fare.

Allora, sapete che c’è? La soluzione è proprio rassegnarsi. Accettare, come dice il mio amico guru di Hospitalet – così scomodiamo proprio tutto l’Occidentali’s karma – che non possiamo fare niente. Per un motivo praticissimo: così ci dedichiamo prima a quello che, invece, possiamo fare.

Che spesso va a risolvere proprio le questioni che non abbiamo sotto controllo. Mandare il manoscritto ad altre case editrici, o a un concorso che non sia proprio farlocco, o tradurlo in un’altra lingua con l’aiuto di qualche fida alleata. Fare una donazione per l’ecografo dell’Ex Opg: ecco, voi che ci avete l’antimulleriano buono, prendete e guardatene tutte (le ecografie, dico). Rendere carina la parte di casa che abito (e che, quella sì, fa un po’ antro della sibilla) visto che come garanzia la banca, al contrario di quanto accade per le ecografie di cui sopra, non la vuole vedere manco in foto. Raccogliere tutta la roba che quell’altro sparito dai radar ha lasciato in giro e stiparla in tre comode buste di carta, da conservare nell’armadio in corridoio e buttare in caso di mancato reclamo.

Insomma, cin cin, e melma sia. Dice che le bollicine torneranno.

Mai per comando, caro I Ching, sottolineerei di nuovo che l’esagramma dell’accrescimento sta giusto dopo ‘a merma. Quindi, la prossima volta, già sai.

Forza, che offro una cena al cinese.

 

(Ho scoperto che hanno dedicato un album all’I Ching! I soliti europei rosiconi… :p )

 

Image result for torta all'ananas

Ecco un uso più che dignitoso dell’ananas! Da: https://www.wilton.com/brush-stroke-pineapple-cake/WLPROJ-8969.html

Oh, alla fine l’ananas dell’altra volta, sparato a caso su abiti altrimenti carini, serviva a riassumere questo: spesso m’illudo che qualcosa mi stia andando bene, e alla fine non è così.

Una sensazione familiare, vero?

Adesso in Italia lo chiamano #mainagioia!

Allora vi faccio una domanda: cosa succede quando già vi preparate a una bella delusione… e vi accorgete che stavolta non vi tocca?

Perché non tutti la prendono bene, eh.

Nel giro di due settimane sono riuscita a farmi insultare sui social sia da un papà che ha figliato per maternità surrogata, che da un giovane vegano. Perché? Beh, perché ero dalla parte di entrambi! E loro proprio non riuscivano a crederci.

Nel primo caso, argomentavo che una cosa sia battersi contro le mafie che controllano la maternità surrogata, e un’altra “insegnare a campare”, per esempio, alla moglie di un marine, che decide di dedicarsi a quello con la stessa “libertà” con cui decidiamo di lavorare in un call center per otto ore, e pagarci l’affitto vendendo cose inutili. Che aveva capito, il papà, di tutto questo? Che io volevo “insegnare a campare” alle mogli dei marines! Ammetto che il mio spagnolo non sia perfetto, ma posso ipotizzare che il babbino caro non fosse proprio un fulmine di guerra? O magari era così abituato agli slogan categorici di altre commentatrici, che ha infilato anche me nel calderone!

Nel secondo caso, provavo a smontare il cliché sui vegani salutisti con l’argomento più potente che avessi: la mia dieta! Infatti odio frutta e insalata, e mangiavo un sacco di pasta fino a cinque minuti fa (e in questi cinque minuti ho perso quasi due taglie, insieme a qualsiasi traccia di tette ancora riscontrabile sul mio corpo!). Ma niente, quello se ne esce con: “Come si permette lei di giudicarci? È vegana, per caso?”. Sì, coglione, è questo il punto! E capisco che l’Italia se ne cade di filosofi che ti muovono critiche del calibro di “Slurp, bistecca!”, ma il fuoco amico anche no, eh.

Vabbe’.

Un esempio più ameno dell’ostinazione a non accettare “una gioia ogni tanto” è quello di un’amica che, a proposito della sua nuova fiamma, mi faceva un discorso che Antonio Albanese aveva già previsto dieci anni prima:

“Ho il terrore di essermi innamorata di lui. Quindi dobbiamo chiuderla qui prima che la nostra storia si trasformi in sofferenza… Lo so, sembro egoista, vero?”.

Per la verità, in quel caso appoggiavo il commento finale di Albanese/Epifanio: “Ma che sei scema, oh?”.

Alla fine eravamo solo gggiovani, tutte e due. Perché anche io, quanto a pippe mentali, non scherzavo mica. Che ne so, ero a un passo dal realizzare il sogno d’ammmore dei vent’anni? Meglio spararmi qualcosa come undici anni a Barcellona, e mi sa che ci rimango addirittura! Oppure, nella prima casa di cui fossi “titolare” e non coinquilina semplice (il che, nel regno del subaffitto, è un passo gigante per l’umanità…), osservavo un compagno d’università crollato sul divano dopo il pranzetto d’inaugurazione, e mi dicevo: “Tutto qui? Dovrei essere più contenta, per quanto mi sono sbattuta ad arrivarci…”.

E a questo punto, miei due lettori e mezzo, avrete indovinato anche dove voglio andare a parare: niente ci andrà veramente bene, se non gli diamo il permesso! Se non ci diamo il permesso.

Con questo non voglio mettere pressione sulle vittime di sfiga cronica. Il fatto è che, dopo anni passati con la sindrome del gabbiano Jonathan Livingstone, siamo proprio fissati con l’idea che non sia possibile trovare… una gioia, appunto, o almeno una connessione estemporanea con qualcun altro.

Eppure, vivere nello stesso pianeta a rischio, e con lo stesso tipo di pollice, ogni tanto unisce più del comune odio per la pizza all’ananas, che comunque mi sembra un’ottima base da cui ripartire! Molto più della rabbia che siamo costretti a nutrire per l’aspirante genocida di turno.

Visto? Da qualunque parte la si guardi, l’ananas c’entra sempre.

(Buoni primi quarant’anni a una tizia che una gioia non ce l’aveva manco per sbaglio! Tant’è vero che è morta a trentaquattro…)

 

 

 

Related image Era chimico. Quello che ho affittato ai francesi (e alla loro cagnolina) insieme all’altra ala di casa nuova era un bagno chimico, che io non ho saputo riconoscere e che l’antico proprietario si è guardato bene dal segnalarmi.

Risultato? Dopo una notte insonne sono stata catapultata dal letto per accorrere a contemplare l’alluvione. La terza in un mese. Ma stavolta il mio appartamentino era intatto e a prova di Abdul. Nell’altro, mi si informava, tempo cinque minuti e ci avrei trovato Noè a pagaiare.

Ho dunque sfilato subito il pigiama, e infilato… il pigiama. Quello troppo stretto per dormirci, che uso come sciccosa tuta per la casa. La povera (co)inquilina deve aver pensato che passo le mie giornate a letto. Così conciata ho chiamato subito il tecnico, che però non poteva arrivare prima delle otto di sera.

Da qui è cominciata la reazione a catena della mia giornata (mo’ ci vuole) di merda.

Completa di: tanfo di urina in corridoio, gente nervosa senza motivo che mi urlava intorno (per fortuna, non urlava quasi mai a me), annullamento del progetto di ascoltare la Pancol (mai letta) all’Institut Français, un’ora prima che venisse l’idraulico.

Parlavo con l’agenzia che mi ha venduto la casa anche nell’unica ora d’aria che mi sono presa, mentre ordinavo un tè. Mi è arrivato l’infuso sbagliato intanto che appuravo che sì, i vecchi proprietari mi avevano rifilato un Sanitrit. C’era da dire addio anche allo scambio linguistico delle 21, con buona pace del tipo inglese che mi ci aveva invitato su Messenger, e che, un po’ troppo amante dei doppi sensi, aveva… “dato la stura” a ogni genere di boutades.

Lui: ” ‘Aspetto l’idraulico’ è una metafora?”.

Io: “Magari”.

Lui (divertitissimo): “Umorismo di Manchester!”.

Io: “Napoletano”.

Giuro che volevo dire: magari non lo aspettassi davvero, il povero idraulico calabrese che, in tutto questo, si era pure anticipato un po’! Mentre io tornavo a casa col fiato in gola, si era ritrovato a tu per tu con la francesina dolcissima, che però è appena arrivata e una volta, rispondendo al citofono, ha detto qualcosa come “Es mí” (C’est moi).

Per fortuna, il tempo di prendere l’ascensore e ho scoperto che il MacGyver della Locride aveva già sistemato tutto. Una stretta ai tubi e via: si è preso anche la metà della solita cifra, in cambio di una chiacchiera sull’acquisto di case a Barcellona.

Gli ho spiegato che c’è una sola regola: non acquistare mai da un ristoratore coreano che ometta informazioni preziose sui bagni di casa.

La regola che ho imparato io è: basta poco a capovolgere una reazione a catena di disastri. Un problema risolto in fretta e a buon mercato, due chiacchiere, e anche le nuvolette del mio pigiama “da mattina” sembrano meno improbabili, almeno a me.

La domanda, invece, è: era il caso di rovinarsi la giornata per tutto questo, a prescindere dall’esito?

Non chiedetelo a me, che sto mettendo in discussione tutte le buone norme che elargisco agli amici, esasperati dalla mia veste di guru dell’ovvio. “Meglio non anticiparsi agli eventi”, “preoccuparsi non risolve i problemi”…

Però, guardate un po’, alla fine questa roba funziona.

Al contrario del mio Sanitrit.

(Mi preparo psicologicamente a un pellegrinaggio)

Image result for mitochondria meme Per la prima volta dopo vent’anni, devo ammettere una cosa: il mio professore di chimica aveva ragione. Va bene che ero un’adolescente problematica, traumatizzata da un liceo classico fatto di raccomandazioni e genitori arrivisti, ma se mi faceva la domanda “Cosa sono i mitocondri?” (ovvio che insegnava anche biologia), e a me veniva un infarto piuttosto che rispondere… beh, lui era lì per insegnare, e non per fare lo psicologo, aveva un registro da riempire di voti e un numero massimo di giustificazioni da offrire. Quindi potevo serbargli tutto il rancore del mondo, ma nel nostro rapporto poco poetico, fondato su cosa fossero i mitocondri, a un certo punto dovevo pur conoscere la risposta.

Per fortuna, la vita non è né una continua interrogazione, né un mercato, che dobbiamo stare a fissare per tutti un voto, o un cartellino del prezzo. Ma è utile sapere cosa vogliamo da qualcuno e cosa offriamo, quali sono i patti del nostro interagire, che sia per prenderci una birra o per una finestra da riparare.

E se l’altra persona non fa la sua parte, arrivederci. Che non significa per forza addio, eh, ma mettere paletti, stabilire la quantità di ridicolo che il nostro fegato è in grado di metabolizzare.

Scrivo tutto questo perché riesumare una vita sociale post-trasloco mi ha esposta di nuovo a casi umani che sbaglino luogo e ora degli appuntamenti, oppure, come questi, facciano qualcosa di sgradevole che mi metta in qualche modo nei guai.

E lo so, non è colpa loro, o non sempre. Il mitico Abdul, per esempio, è caduto mentre con un giorno di ritardo mi finiva di dipingere il bagno (un lavoro che, ovviamente, non gli avevo neanche richiesto), e per aggrapparsi a qualcosa mi ha scardinato il cesso. Quello appena montato da lui, che, Alhamdulillah, è rimasto illeso. Il cesso, invece, ha perso la tavoletta, e sono o trenta euro per comprarne una nuova, o due euro per rimpiazzare l’ “introvabile” chiodo rotto (che sarebbe introvabile giusto per chi non tanto usa Internet, ma lui a stento alza il ditino sul cellulare per avvisarmi quando non viene…).

Chi invece bussa ancora a soldi a due settimane dall’addio è la mia ex padrona di casa, orfana di una griglia da forno che non ho mai trovato lì, né tantomeno buttato per capriccio un giorno che mi annoiavo. Nonostante questo, vuole sapere, mi va bene se me la sconta dall’ultima rata della caparra?

Dipende: se è il prezzo da pagare per non sentirla mai più, può anche tenersi l’ultima rata intera. Le tasse sulla casa nuova mi avranno anche spolpata viva, ma la vita è fatta di priorità, e il mio fegato è una di queste.

Infatti ho detto ad Abdul che se non trova il chiodo oggi fa niente, provvedo io. E sono pronta a vedere se l’amico che sbaglia sempre appuntamento riesce almeno ad azzeccare la strada di casa mia, un pomeriggio che non devo uscire.

Insomma, d’ora in poi bando a oracoli e segni del destino, la mia unica guida sarà il fegato, quando mi avverte che non ce la fa più.

Chissà se c’entrano qualcosa i mitocondri.

Rose e fiori (del Kashmir)

Ieri è stato il mio giorno fortunato: mi si è allagata due volte casa, ho litigato col capo e mi è venuto il raffreddore.

Per la casa è presto detto: l’ormai noto Abdul aveva giurato che potessimo finalmente usare il bagno, nonostante l’evidente mancanza del lavandino che avrebbe dovuto procurarmi due settimane fa (spoiler: “Non si erano capiti con il negoziante”, il che, 9 su 10, significa che non aveva capito un cazzo lui). Allora ho fatto la lavatrice. E niente, fa già ridere così. Per fortuna il mio coinquilino preferito, durante il trasloco, aveva trasportato per sbaglio un bustone di panni destinati alla beneficenza, se no non avremmo avuto abbastanza asciugamani per arginare il Gange prodottosi in bagno. Mi spiace solo per le turiste che non potranno acquistare i miei fantastici vestitini fucsia a fiori, comprati già di seconda mano.

Per “il capo”, come lo chiamo per comodità, meglio non entrare in dettagli: fingiamo che io sia un’imbonitrice di prodotti di bellezza (altra ipotesi esilarante!), che mi sia stato chiesto di pagare per lavorare, che abbia rifiutato perché forse lavoravo anche altrove, e che per questo mi sia sorbita una lezione di correttezza da chi, appunto, mi chiedeva di pagare per lavorare. Ci avete capito qualcosa? No? Neanche io.

Per il raffreddore, solo tre parole: grazie. al. ca’.

Il momento più esilarante è stato quando ad arrivare è stato proprio Abdul, che mi ha trovata armata di mocho e padelle da svuotare in cucina nel bel mezzo del secondo diluvio universale della giornata. Allora, dopo tempi di reazione pari a quelli della tartaruga di Achille, ha:

  1. farfugliato istruzioni che non abbiamo afferrato subito;
  2. afferrato lui, finalmente, il mio mocho, per provare a tirarci fuori da quel guaio;
  3. dato la colpa alla lavatrice, a noi, all’idraulico, “e forse un po’ anche a se stesso”;
  4. riconosciuto all’istante come made in Kashmir il lungo scialle da testa che uso come coperta davanti al pc, anche se il mio ex che è amico suo me l’aveva regalato con propositi del tutto diversi (campa cavallo). Al che è scattata la seguente conversazione:

Abdul: “Secondo me T. è in visita in Pakistan… Ma perché non hai più sue notizie?”

Io: “Va bene così, Abdul”.

Abdul: “Sì, ma perché?”.

Io (rinuncio a spiegargli il concetto di stalking).

Abdul (attende un po’, poi…): “Certe cose accadono per volontà di Allah”.

Io: “Appunto”.

Insomma, va a finire che il mio ex, come già i miei negozianti preferiti, torna dal suo paese con una sposa che sappia fare buon uso dei suoi regali ricamati (però sul serio, è una coperta formidabile!), e che Abdul oggi, dopo la preghiera del venerdì, me lo monta sul serio, questo benedetto lavandino.

La mercantessa in fiera non la faccio più, ma, a proposito di vendere qualcosa, trovate sempre qui il mio libro e qui l’ebook. La Madonna ve lo rende ancora una volta.

Anche se, a questo punto, rimpiango di non aver scritto Io speriamo che me la cavo.