22 giugno 1994: Breve storia triste. C’è la festa delle medie, ma ho la febbre. Vado o non vado? Vado. E porto anche un’amica di un altro istituto, che ha litigato con le compagnelle sue (cit.) e si sente sola. Risultato: l’amica si mette col ragazzetto che piace a me, e la febbre mi schizza a 38.
30 gennaio 2021: Breve storia triste. Esco di casa e viene a piovere. Anzi, è proprio una tempesta. Mi riparo sotto una tettoia a Barceloneta e penso: corro verso casa o aspetto un po’? Aspetto. Finita la pioggia, anche se una masnada di gente va in direzione contraria alla mia, faccio una capatina in spiaggia.
Le foto che posto qui sotto sono un promemoria: a volte tentare nuoce, eccome, ma spesso è una buona idea. E quella storia di chi lascia la via vecchia per la nuova mi è sempre sembrata più una promessa che una minaccia. Sai quel che lasci: il divano di casa. Non sai quel che trovi: tipo, l’arcobaleno.
Adoro il chitarrista “Brit” sul Portal de l’Àngel, fuori casa mia.
Lo adoro perché di britannico ha giusto il repertorio, che a dirla tutta è la solita zuppa a beneficio dei rari turisti (rari quest’anno, almeno) che sciamano sul boulevard costeggiato da grandi magazzini, e delle autoctone che per ovvi motivi si sono saltate la collezione primavera-estate di Zara e Mango, e adesso puntano dritte ai saldi.
E allora il nostro one-man show attacca fin dal pomeriggio con David Bowie e i Coldplay, anche se lui sarà al massimo di Hospitalet de Llobregat: ma ha la voce calda, graffiante, lagnosa al punto giusto. Sono i testi a lasciarmi un po’ perplessa. Proprio mentre sto per lanciare anch’io un accorato appello a Major Tom, all’unisono con il Nostro, quello esplode in un fantastico:
This is ground control to Major Tom [e fin qui tutto bene]
You really had it grave [eh?]
And the table wants to know what film you were [ok]
Spesso me ne vado senza scoprire cosa risponda Major Tom in mondovisione a questa sconcertante domanda. Forse il Nostro, però, si supera con i Coldplay, sia in una canzone che per motivi poco piacevoli ho preso a benvolere:
Lights will guide you Rome
and ignite your scones [e d’ora in poi prenderò il tè delle 5 con un bello scone brûlé],
sia in un grande classico:
Nobody said it was easy
No one ever said it would be this fart… [forse lo scone di prima era troppo pesante?].
Sul serio, io non so se augurarmi che capiate l’inglese, o no!
In ogni caso, facevo presente tutto questo per tornare a quel discorso sulla sofferenza come modus vivendi, ma affrontandolo con un piglio più vacanziero: è che ormai, quando passo davanti al Nostro, già so che se mi lascio andare al ritmo della canzonetta di turno avrò una bella delusione, e quindi non canto più. Non so, sospetto che questa, benché in chiave molto meno seria, sia una buona trasposizione del mainagioia way of life: ci abituiamo tanto alle delusioni che quando va bene (nel nostro esempio, quella volta che il tipo azzecca il testo), non sappiamo come prenderla.
Me ne sono accorta entrando per una volta anch’io nell’odiato Zara, dopo il miracoloso avvistamento di un vestito in vetrina che mi piacesse: una volta dentro, nessuna traccia del vestito, ovviamente (vedete? la rassegnazione!), ma ho notato su un manichino un indumento in maglia, color crema, che mi sembrava una gonna. Ma no, mi sono detta, qualcosa deve sempre andare storto in questo magazzino scadente che in Italia passa pure per figo: e infatti la “gonna” in questione si è rivelata un bermuda che manco i mutandoni della mia bisnonna fanno tanto Guerra di Crimea!
Vabbè che, da donna, mi è capitato spesso di sperimentare piccole e grandi delusioni: prendete le rare volte che mi sono cimentata nei balli di coppia. Ben presto mi sono resa conto che non è che ci saremmo alternati, col “cavaliere”, ma avrei dovuto farmi l’intero brano ballando all’indietro, tipo gambero, mentre l’altro decideva se farmi fare la giravolta o no… E fortuna che, al contrario di Ginger, non avevo i tacchi! Allora mi è stato detto che il mio era un problema comune a certi donnoni emancipati (sia letto con spregio), che, sempre come me, si muovevano come tavole di legno: ma non capivamo che “era più difficile imparare a lasciarsi condurre, che a condurre”. Argomento, peraltro, già sentito almeno in un paio di religioni monoteiste e molto paracule… Ora, se proprio devo dedicare tempo e pazienza a fare qualcosa che neanche mi piace, piuttosto mi metto a fare quelle sculture con i fiammiferi che sono taaanto carucce! Visto? Il mainagioia si combatte prendendosi le gioie dove ci sono… E poi, uno dei pochi santi che si sono fatti pestare i piedi da me a ritmo di forró è diventato il mio spacciatore personale di uova di fattoria (quando ancora ne mangiavo) e mi ha fatto aggiudicare addirittura un’occhiata da Viggo Mortensen, anche se per i motivi sbagliati.
Insomma, chiuderei quest’ulteriore puntata sull’abitudine alla sofferenza, o più che altro alla sfiga, con un proverbio banale quanto sopravvalutato: si chiude una porta, si apre un portone.
Quello che avevamo iniziato in un modo, può prendere sul serio pieghe inaspettate. E non sempre sgradite, non ricominciate a gufare!
Alla fine de L’Amante di Marguerite Duras, “l’esplosione di un valzer di Chopin” fa capire alla protagonista che in fondo lei un po’ lo amava, quel signore cinese che si era appena lasciata dietro per partire.
Circa novanta anni dopo, l’esplosione di una rumba di Peret mi fa capire che ‘sta quarantena non mi ha tolto l’amore per la musica, le sorprese e le figure di…
No, scherzi a parte: tornavo a casa dopo la passeggiata serale 1×1 (un chilometro per un’ora massimo) e, all’incrocio tra via Laietana e una stradina afferente al Palau de la Música, noi passanti ci fermavamo di botto, ci facevamo due domande, non credevamo alle nostre orecchie. La qualità del suono che ci giungeva dal vicolo del teatro poteva essere quella arrangiata di un palco da festa di quartiere, oppure la registrazione era perfetta al punto di riprodurre la sensazione della folla che canta in coro El muerto vivo. Quasi quasi c’era da accontentarsi di questa eco e non andare a controllare: era inconcepibile, l’idea di uno scenario montato davanti al Palau, con il pubblico intento a cantare con la mascherina e ballare mantenendo la distanza di sicurezza!
Infatti, con la cocciutaggine che a volte farei bene a lasciare a casa, mi sono avventurata nel vicoletto con altri curiosi, e salió la verdad: il bar del Palau aveva ripreso le sue attività. Al piano terra dell’edificio c’era una sorta di fascia elastica a fare da barriera tra i clienti e il cortile in cui, fino a tre mesi prima, si affollava la gente in tenuta da sera, con un bicchiere di cava in mano. Adesso, invece, un tavolino che sembrava un banco di scuola tagliato a metà era sormontato dal sifone del vermut, e affiancato da un trespolo che reggeva il menù della serata. Sotto i due fogli zeppi di bibite, e tapas da portar via o consumare in piedi, campeggiava l’offerta mangia & bevi a quindici euro. Perfetto, ma… la musica di prima? Mi sono sporta un po’: in effetti, sul palchetto montato in un angolo di cortile alla mia sinistra, c’erano due musicisti con strumenti tipici da rumba: chitarra e cajón. Avevano però finito di suonare, e delle casse riproducevano in stereofonia un effetto simile a quello che avevo sentito poco prima: una folla intenta a godersi un’altra canzone mitica del genere rumbero. Insomma, non capivo se i due musicisti erano in pausa da tempo, e io avevo ascoltato una registrazione fin dall’inizio, oppure il casino arrivato fin sulla strada principale era stato opera della potenziale clientela che passava in mascherina, e che adesso, a ogni buon conto, chiedeva: “Ma poi tornate a suonare, sì?”. Gli interpellati sono scesi dal palco con lo sguardo rivolto a noi che eravamo dall’altra parte del trespolo col menù: sì, sì, hanno assicurato.
Allora mi sono tornate alla mente due immagini uguali e contrarie, di normalità che sfida la crisi.
Un articoletto di Zucconi, quasi vent’anni fa, descriveva un angolino centralissimo di New York, paralizzato per una mezz’ora da un allarme bomba. Credo fossimo al massimo nel 2002, e capirete, ogni zaino incustodito per strada scatenava una puntata dal vivo di Ris. Ma ormai la paura era diventata ordinaria amministrazione, e la piccola folla bloccata in attesa dei controlli sorbiva caffè lungo, chiacchierava… Certi ragazzi che tornavano dal lavoro scambiavano qualche parola con le infermiere di un vicino ospedale: qui non m’era piaciuto il “Forse si rimedia” buttato lì dall’autore dell’articolo, che s’immedesimava in quel rimorchio estemporaneo, ma ne avevo colto la connotazione di vita che prosegue al di là dell’orrore, eccetera.
Quanto alla seconda immagine che mi è balenata in mente, spero la conosciate: è quella dei ciclamini! Quasi sessant’anni fa, un certo filobus numero 75, guidato dalla penna di Gianni Rodari, aveva deciso di uscire dai binari e andarsene a zonzo nelle campagne romane, insieme al suo affollato carico di pendolari ansiosi di arrivare in tempo al lavoro. Si erano ritrovati invece ai margini di un boschetto, e avevano cominciato a litigare tra loro senza neanche scendere da quel mezzo di locomozione così indisciplinato. Era finita però che una signora, osservando bene il prato fiorito che per un giorno sostituiva cattedre, banconi e aule di tribunale, aveva adocchiato dei ciclamini, fiori che adorava e che non coglieva da tempo. Così avevano finito per scendere tutti, e allora c’era chi “adottava” una fragola, chi giocava a pallone accartocciando dei giornali, chi condivideva un panino con la frittata… finché il filobus non si era messo in testa di ripartire, e i passeggeri erano saltati su di nuovo col timore di aver fatto ormai tardissimo. E invece le lancette non s’erano spostate di un millimetro: era il 21 marzo, primo giorno di primavera, e si sa che il 21 marzo tutto è possibile.
Rodari non poteva sapere che il 21 marzo del 2020, a Barcellona, sarebbe stato impossibile godersi, mettiamo, il ramen del Grasshopper (“Il… che?”) senza dover sfruttare gli schiavi di Uber Eats, e allora noi che avevamo ancora il lusso di fare la spesa dovevamo arrangiarci con quel poco di pasta scadente che non era stato saccheggiato nei supermercati insieme alla carta igienica.
È a questo che servono la rumba e i ciclamini, e le altre esplosioni improvvise di eccezionale normalità (lo zaino di New York, va da sé, è una fortuna che non sia esploso!). Servono a ricordarci che sì, anche quando ci sembra quasi un affronto voler andare avanti, può scoppiare nell’aria un motivo che una volta ci era parso pure scontato, e che adesso, invece, salutiamo come ‘o rummore che forse (grattatevi) non avremmo più “visto”.
E allora, che volete farci? Allora tocca proprio ballare.
Da una parte avete il boschetto della vostra fantasia, o meglio delle fantasie passate. Tutto accessoriato. C’è il solito fottio di animaletti (cit.) che vi fanno ridere quando siete tristi: i ricordi. Che vi consolano o vi perseguitano. Ci sono i fallimenti in persona, tutti impettiti e un po’ arcigni. Ci sono gli alibi, ospiti d’onore. I fili di speranza, così sottili che le liane di Tarzan al confronto sono baobab.
Dall’altra parte, avete il presente. Quello che trascurate per indugiare là, nel boschetto che non vi appartiene più. E il presente finché indugiate è uno stanzone vuoto, polveroso, col pavimento ancora da sistemare e una sola piantina che a occhio e croce va pure travasata. Ovviamente, il tempo che perdete dall’altra parte può solo peggiorare le cose, invece di armarvi di spazzolone e secchio, e poi trapano e chiodi, e decorare un po’, rendere il presente abitabile.
Ma insomma, capisco la differenza, avete un mondo da costruire interamente a fronte di uno completo, fatto a vostra immagine e somiglianza, in cui tutto funziona in modo da farvi sentire a vostro agio: per le cose che non sono girate avete gli alibi, per quelle riuscite avete costruito proprio dei monumenti, e tutto ruota intorno a voi.
C’è un solo particolare. In quel bosco ormai siete morosi. Non vi appartiene più, siete stati sfrattati nel presente, la vostra casa è altrove. Infatti, a ben vedere, va svanendo un po’ tutto ogni giorno, costa fatica mettersi lì a rinverdire, rivangare tutto, innaffiare le vecchie speranze, spargere il sale sulle ferite.
Ma tant’è, meglio morosi in un posto irreale che armati di trapano e secchio in un posto nuovo, senza poesia, che ci chiede una cosa difficile.
Ci chiede fiducia. Investire in quello che è ora, per raccogliere poi, magari, e intanto godersi il lavoro.
Scomodo. Ma si tratta solo di avere la chiave. E la chiave, appunto, è la speranza. Come un genitore spera in suo figlio prima ancora che nasca, solo perché è suo figlio. Speriamo nel nostro presente, solo perché è nostro.
Allora facciamo questo balzo. Passato e presente sono a distanza di un salto. Nel primo non possiamo fare più niente, non abbiamo più niente da fare. Nell’altro abbiamo da fare tutto, senza essere sicuri che andrà bene.
Ma sbrighiamoci, che le piastrelle vanno sistemate prima che faccia notte.
Uff, non so come scrivere quello che leggerete senza essere retorica. E non posso neanche chiamare Proust per consigli.
Allora comincio con una precisazione: per disertare il corso di francese e andare in palestra, devo stare proprio male.
Ma malemalemale. Quelle cose che dici ok, ho sbagliato tutto, la mia vita è una scemenza, vado a buttarla insieme al sudore su una cyclette e poi andrò al parco ogni giorno come un pensionato 80enne finché il dolore non sia finito.
Avete presente quegli errori che sono come cambiali, che si continuano a pagare molto dopo aver ammesso che fossero errori? Ne parlavamo qua. Ci si domanda, senza voler declinare le proprie responsabilità, quo usque tandem, hasta cuando… Inso’, quando finisce l’incubo.
È lì che la speranza, sempre più stronza, mi tende un agguato. Proprio nella palestra comunale a prezzi stracciati, quella in cui respiro il sudore dei vicini di step sperando in cambio di essere al sicuro.
Macché. Taglio la strada a uno. Un tipo di quelli che mio padre, medico, saprebbe esattamente che cos’hanno, ma io al massimo so dire che ha di quegli spasmi che sembra che una parte del suo corpo voglia andare altrove, in tutt’altra direzione, e il proprietario con fatica e pazienza lo metta insieme, attimo per attimo, portandolo dove vuole.
Se non mi sputasse in faccia, gli direi che su un piano infinitamente più facile sto facendo qualcosa del genere. Ma no, mi ritrovo lì nel mezzo della sua traiettoria un po’ ellittica, e gli chiedo scusa. Lui fa una specie di sorrisetto con la parte di bocca che lo asseconda, e mi invita con un cenno nervoso a passare.
Poi, mentre cerco di non piangere e far giocare i numeri a mezza palestra, me lo ritrovo sempre vicino, tipo angelo custode, lui cyclette mentre butto il sangue sullo step, lui sul materassino degli addominali a due postazioni dal mio.
Mentre faccio gli addominali inferiori, reggendomi alla sbarra nella posizione più ridicola possibile, assisto alla scena: il tipo di cui sopra va a riporre il suo materassino. Deve infilare i due fori metallici in altrettanti pioli, impilandolo con gli altri, operazione che a me richiede un secondo e a lui almeno 30. Tra minimanovre per coordinarsi, centrare prima un piolo, senza andare troppo in fondo, e poi puntare all’altro.
In quella arriva un pezzo d’uomo che mi domando come non abbia notato prima. Sta lì a osservare l’operazione e aspettare un po’, poi, armato delle migliori intenzioni (come sempre accade in questi casi), allunga le mani verso il materassino traballante, offrendosi di completare lui l’operazione. L’altro fa un gesto più brusco degli altri: si tira l’oggetto a sé, stacca l’auricolare dall’orecchio destro e parlotta un po’ con questo, che lo ascolta con un’espressione di circostanza.
Immagino sia una di quelle cose tipo “devo farcela da solo”, e non posso fare a meno di pensare a tutta la retorica che accompagna la vita di persone come lui, dai corri, Forrest, corri, al conferenziere monco che si rialza con una bella colonna sonora in sottofondo a sottolineare l’importanza del “rialzarsi sempre nella vita”. E mi chiedo come si possa trovare un equilibrio tra smettere di trattarli come se fossero speciali e allo stesso tempo apprezzarne il coraggio, quando lo mostrano.
Intanto, sarò io a fare gli addominali in fretta o il tipo a essere davvero lento, ma arrivo a riporre il materassino quando lui ha appena finito, finalmente, di piazzare il suo.
Lo guardo con un sorriso, aspettando che si sposti per compiere la stessa operazione.
È lì, che succede.
Il tipo mi strappa il materassino di mano, con un gesto che sarebbe stato brusco in altre circostanze, e comincia a riporlo sopra il suo.
Resto costernata. Cavalleria? Si è offeso per il sorriso? Vuole dimostrare qualcosa a me? O a se stesso?
C’è poco di retorico, nel suo gesto. Non scatta nessuna colonna sonora commovente e resto col dubbio che una femminista non dovrebbe prenderla benissimo.
Ma sono ammirata, davvero. Dal fatto che la reazione più normale di quelli come me, che si credono così infelici da dover saltare il corso di francese, sarebbe stata aiutarlo. E invece no. Invece lui compie un gesto di gentilezza che fatto da chiunque sarebbe una goccia nel mare, ma da lui.
Ringrazio, chiedendomi se debba aspettare che riponga o appunto me la debba squagliare grata del secondo che mi fa risparmiare, col suo mezzo minuto. Lo saluto.
Mentre scrivo, capisco che la cosa più bella che mi ha dato non è stata il suo esempio. Il fatto di avermi ricordato che se uno sconosciuto può regalare 30 secondi di convulsioni a una sconosciuta, quest’ultima saprà ben gestire i suoi amori e le sue case in affitto.
No, mi ha ricordato che sto imparando a ricevere. Dopo tanti anni passati a dare, dare, dare, anche a chi non mi chiedesse niente, sto ricevendo volentieri complimenti, carezze, manifestazioni d’affetto.
Ma quei 30 secondi di uno sconosciuto, e ok il volemose bbene, o il siamo tutti figlidellostessoddio alla Gigi D’Alessio, quei 30 secondi sono stati finora il regalo più bello.
Su un blog molto carino ho letto quest’articolo a proposito del Grande Gatsby, il flop del mai vincitore Leonardo Di Caprio. Mi è piaciuta la citazione iniziale, dal testo di Fitzgerald, in cui perfino Daisy, l’eterno amore di Gatsby, a volte non riesce a render giustizia alle illusioni che si è fatto il protagonista su di lei.
Mi è venuto da sorridere, perché il mio… Daisy, che forse avrebbe qualcosa da ridire su questo nomignolo, mi ha scritto ieri sera, annunciandomi di aver ripreso la sua attività artistica. È un bravo artista, infatti, “costretto” (lo virgoletto perché non lo si è quasi mai) ad accantonare il suo talento per un lavoro a tempo pieno e le solite questioni che devi affrontare nell’età adulta. Infatti ci separano un mare, due ore di volo, e vari anni di vite parallele, incrociatesi di nuovo solo da poco.
Quello che ci ha fatto rimanere buoni amici, come noi, è un’operazione che Gatsby non fa, condannandosi alla tomba. Anzi, la sua morte è quasi clemente, rispetto alla vita da zombie che avrebbe dovuto affrontare, una volta sfumato il sogno a cui si era dedicato.
Perché, lo faccio diventare donna per spiegare meglio il concetto, io la mia Daisy l’ho liberata, non pretendo più che sia ciò che mi aspettavo da lei.
In questo c’è stata una parte di acc… accett…, vabbe’, completate voi. Una delle più dure della vita, se ne Il quartiere un sognatore diverso da Gatsby (Vasco Pratolini, per l’occasione Valerio), quasi ci rimetteva le penne per aver perso la sua Olga: ebbene sì,parliamo dello sfumarsi dell’amore di gioventù.
Ma il mio “amore eterno”, rispetto a quelli appassionati e reali di Vasco-Valerio, sapeva più del sogno di Gatsby, che si sbatteva tanto a ricreare il passato, a far sì che tornasse, per il semplice lusso di continuare a sognare, ad avere un’immagine perfetta della vacua, infantile, capricciosa, vigliacca signorina che l’aveva stregato poco prima che partisse per la guerra.
Allora ho liberato il mio “Daisy”, che non aveva certo bisogno del mio permesso per allontanarsi da me, ma un po’ c’era rimasto male, nel perdere un’amica e una sorella “solo” perché i fati stabiliscano che non si ama a comando.
E con Daisy, mi sono liberata della parte malata delle illusioni.
Perché, mi ripeterò, le illusioni hanno una parte malata, che si dà quando decidiamo che la realtà (come le Daisy che popolano la nostra vita) debba adeguarsi alle nostre aspettative, e se non lo fa, da illusi diventiamo delusi.
Ma vivo in un posto in cui la parola ilusión, il·lusió in catalano, ha un significato sconosciuto all’italiano. O meglio, il primo è sempre quello di “miraggio”, immagine o rappresentazione senza una realtà a sostenerla, come quella di Gatsby per Daisy, e quella del mondo, come suggerisce l’autrice dell’articoletto, che si rivela sempre più impossibile da cambiare. Ma il secondo significato è completamente diverso:
Esperanza cuyo cumplimiento parece especialmente atractivo.
Capito? Qui illusione è sinonimo di speranza, una speranza che porta in sé i semi della realtà in cui si può trasformare. Me ne sono accorta la prima volta quando un’amica spagnola ha avuto una buona notizia a proposito di suo fratello. Noi avremmo detto “Mi fa piacere”. Lei, invece: “Me hace ilusión”.
Per questo, c’è illusione e illusione. Quella che vive solo nella nostra testa, e continua cocciuta a scapito di come vadano spontaneamente le cose e di ciò che vogliano davvero le persone coinvolte (noi compresi), lascia il tempo che trova. Ed è nociva per chi la coltiva e chi la subisce.
Poi c’è la ilusión, un progetto che ci sembra quasi impossibile, che farebbe bene sia a noi che agli altri e che tuttavia, vittime della nostra grammatica pessimista, saremmo più che propensi ad accantonare. Ma che, se lo guardiamo meglio, contiene in sé i germi della sua propria riuscita. E non sapremo mai con certezza se è per volontà di una forza superiore, o per un’ateissima profezia autoavverantesi.
E allora, per favore, illudiamoci. Restiamo le più grandi illuse, i più grandi illusi, che conosciamo.
Ma facciamolo bene.
Così quando la nostra Daisy ci scrive e ci dice quanto sia contenta, e ci parla delle sue, di illusioni, saremo contenti per lei. E per noi.