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Ok, succede anche a me.

La mia versione preferita del nuovo scherzo che circola è questa del Falzo Vegano:

L'immagine può contenere: cibo

Ma ne ho viste di simpaticissime, tipo il meme con un Jack Nicholson prima neoassunto come guardiano di un certo hotel (my plans), e poi letteralmente congelato (2020). Oppure quello con una Margaery Tyrrell prima radiosa e poi, mettiamola così, esplosiva… Insomma, si scherza sul fatto che quest’anno dalla numerazione curiosa (i due venti accostati) sia stato dapprima celebrato dai media e da Paolo Fox, e poi sia andato appena appena un po’ in malora: chi per fortuna sta scampando alla pandemia si ritrova già fino al collo in una crisi economica che, come da sottotitoli di Netflix, può solo intensificarsi.

E sì, a volte lo sconforto prende perfino me che ho la fortuna di non dover fare la fila fuori alla chiesa di Sant’Anna, per mettere il piatto a tavola: dunque, è con lo stomaco fin troppo pieno che in questi due mesi ho finito di leggere dodici romanzi, e ne ho iniziato a scrivere uno. Però ho anch’io la mia bella serie di progetti a cui ho dovuto dire, una volta per tutte, arrivederci a mai più. D’altronde, in tempi non sospetti (e con buona pace di Fox) avevo appurato che questo era l’anno d’ ‘a merma, come la definiva la mia versione spagnola dell’I Ching. E se non masticate lo spagnolo aulico o il mandarino antico, cambiate una sola consonante a “merma” e vi farete un’idea.

Però, sapete che c’è? L’altro ieri stavo passeggiando per strada nell’orario serale consentito, e mi sono resa conto di una cosa, che farà anche un po’ uovo di Colombo, ma appunto, a volte si fatica ad arrivarci: non ci posso fare proprio niente, tanto vale pensare ad altro. Cioè, sul serio: posso mai mendicare un volo di stato tramite il Consolato, per tornare a Napoli e presentare il nuovo romanzo a un massimo di quindici persone per volta, tutte in mascherina? E magari restare bloccata in paese per chissà quanto. Posso mai tornare indietro nel tempo e acquisire per miracolo le informazioni che ho adesso su un paio di progetti che avevo cominciato, a scatola chiusa, alla fine dell’anno scorso? In questo momento mi è perfino difficile arrivare a vedere il mare, visto che la Barceloneta è a due chilometri da casa (uno in più di quelli percorribili in fase 1). Inoltre, a giudicare dai viandanti, il quartiere marittimo sembra avere in questi giorni la stessa densità di New York, quindi finisce che arriva Sánchez e dice: “Tutti a casa!”. Ma in un senso meno speranzoso rispetto al titolo di Comencini (perché sto pure recuperando i film italiani storici che mi mancavano).

Però ci posso fare qualcosa? No. Voi ci potete fare qualcosa? No. E allora di che ci preoccupiamo? Pensiamo piuttosto a come evitare che questa impasse diventi ancora peggio.

Il primo passo è: smettere di preoccuparsi di quello che non possiamo cambiare. Tipo: il modo in cui le persone a noi vicine reagiscono alla quarantena; la “data da destinarsi” del concorso pubblico in cui speravamo; le restrizioni alla circolazione. Una volta ingoiato questo boccone amaro, arriva una specie di sollievo, ed è lì che succede un miracolo, sempre che non ci aspettiamo proprio… il miracolo! (Chi trovasse oscura la mia frase, chiedesse a Lello Arena.) Succede che mettiamo fine al logorio mentale che causano certi tarli senza rimedio, e a quel punto facciamo spazio a soluzioni inedite. Che nove su dieci non sono quelle che volevamo, ma spesso la volontà è abitudine, e quando cambiano le abitudini cambiano anche certe volontà.

Quanti di quei progetti che abbiamo perso erano davvero desiderati? Io ne conto un paio, ma devo ammettere che nella maggior parte dei casi mi ci ero trovata in mezzo per forza di cose o spirito di adattamento, più che volerli con tutte le mie forze. A voi non succede lo stesso?

Vediamo allora, in questo cambiamento sventurato di circostanze, quali nuovi progetti potremo inseguire e quali, in fin dei conti, erano il nostro modo di accontentarci delle circostanze in cui versavamo.

È difficile, lo so, parlare adesso di sogni e speranze.

Ma vi assicuro che sono lì e, se glielo permettete, venderanno cara la pelle.

(Una serie che ho finito ieri, e mi mancherà.)

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Image result for new year resolution list Buone notizie! Il guru degli esercizi psicologici ha questo sito, che, a dirvi la verità, nessuno di noi adepti/scrocconi spirituali aveva ancora visitato.

E che cavolo, già ci facciamo trovare allineati e coperti alle 10.15 di domenica mattina, al Sandwichez di Sant Antoni (ho già detto che io faccio sempre un po’ tardi?): e solo per fargli da cavie disinteressatissime per il libro che vorrebbe pubblicare! Adesso vuole che scrocchiamo pure online?

Allora lui ha avuto una bella idea: l’esercizio di fine anno l’ha postato proprio sul blog, così dovevamo proprio andare a controllare. E che esercizio!

Sì, è la solita lista di bilanci & propositi di anno nuovo, ma con in più due dettagli “a cazzimma”: la voce “bilanci” dev’essere proprio un elenco di obiettivi raggiunti, e da stilare in cinque lunghi minuti; la questione “propositi”, invece, è tassonomica al massimo, nel senso che il tedescun naturalizzato inglese ci chiede proprio stime, tempistiche, e scadenze.

Vuoi andare a fare quella visita da zia Genzianella per chiederle un prestito? Scrivimi la data esatta in cui andrai, oppure, se proprio hai strizza, specifica entro che mese.

Io, per esempio, mi sono data fino a marzo per sistemare i due-tre manoscritti con cui cazzeggio da un annetto a questa parte, e dedicarmi finalmente al best seller che rivoluzionerà la letteratura mondiale! Aspettate seduti, mi raccomando. Anche se il guru, per sicurezza, ha preteso che alla data limite delle nostre imprese aggiungessimo un messaggino per noi stessi in quel giorno: roba tipo “Ueue’, a che stiamo? Guarda che l’impegno, ormai, l’hai preso…!”.

Insomma, Nightmare Before New Year. Però questa doccia fredda di buonsenso e meri calcoli mi ha fatto bene!

Per esempio, ho scoperto che l’elenco degli obiettivi raggiunti non è mica male, e scommetto che capiterà lo stesso anche a voi! Non fate il mio errore di misurare unicamente i successi evidenti (successi, po’): nel mio caso i libri pubblicati, cioè zero, visto che il romanzo nuovo mi è slittato da novembre di quest’anno ad aprile 2020. Invece, l’anno in cui sono tornata a vivere da sola è stato pieno di sorprese e novità. Di processi avviati o continuati, di quelli che fanno poca scena, ma funzionano e, alla lunga, portano a risultati tangibili.

Il fatto è che, con la filosofia diffusa del mainagioia, quando una gioia ci capita sul serio la vediamo tardi, e la facciamo passare sotto silenzio: ok, l’associazione espatriata si è rivelata un covo di fighetti, ma andandomene ho ereditato un paio di amiche interessanti, viaggiatrici, curiose di tutto. Ho pure avuto la conferma che, più che buttarmi in marmaglioni accomunati da qualcosa di molto blando (vivere all’estero, tipo), preferisco condividere passioni e interessi, come scrivere e svolgere strani esercizi psicologici…

E ben vengano le applicazioni che propiziano questo genere di attività! Infatti ho disinstallato le app d’incontri in tempi che, almeno in un caso, arrivano al record di tre minuti d’orologio: a me non piaceva nessuno, e come over 35 con più titoli universitari non rientravo negli standard femminili dell’app, rimasti più o meno all’Inquisizione spagnola. Per fortuna, ormai, non ci serve niente: come si diceva, “A volte ritornano”, in barba ai due sfigati che hanno scritto La verità è che non gli piaci abbastanza. Con buona pace del fan club dell’uomo cacciatore (grazie, sono vegana), a volte le scuse di uno per non farsi avanti sono più complesse, e una mano tesa da parte nostra fa tutta la differenza tra il chiedersi “come sarebbe stato” e scoprirlo ogni giorno, pure in questa distanza forzata che io chiamo follia collettiva, e altri feste di Natale.

Sì, insomma, se quel mascalzone di un guru mi perseguita pure da lontano con i suoi bilanci, mi porto questo, di proposito, nell’anno che verrà: quando ci tengo, tocca farmi avanti.

Cominciare le cose.

Ce ne sono alcune che, dopo la spinta iniziale, arrivano da sé.

La mia ghigliottina per tette personale!

Avete presente la storia per cui ci accorgiamo dell’aria solo quando ci manca?

Ecco, ieri mi sono accorta di avere le tette – almeno quella sinistra – quando ci è piombata sopra una porticina di legno massello. Le stelle che ho visto sono state per me la prova più lampante di essere provvista sul serio di questa parte anatomica!

Quando già era o amato o detestato – come una certa adolescente svedese su cui ci stiamo scatenando anche in Italia – Roberto Saviano raccontò in TV la storia di un tizio in gulag, che si fece non so quanti giorni di reclusione ai limiti della sopravvivenza: non aveva acconsentito a “dare la sua anima” a un carceriere. L’aneddoto, che non riesco a ritrovare, si chiudeva col tipo che sospirava: “E io che neanche sapevo di avercela, un’anima”.

Che combinazione! Io non sapevo di avere una tetta sinistra. Finché non ci si è schiantata sopra una porticina di quelle che si schiudono tirando un piccolo manico in alto: come una cretina l’avevo aperta solo a metà.

E mentre mi massaggiavo, jastemmando in napoletano, mi sono resa conto una volta di più dell’ingratitudine che ho nutrito verso questa parte del mio corpo, che da adolescente accusavo di non rientrare negli standard del mio contesto d’origine (dove, più che la coppa di champagne, si predilige con convinzione il proverbiale secchiello), e che credevo ormai ridotta a leggenda metropolitana adesso che non sto mangiando più come un bufalo (e qual è la prima cosa a sparire, in questi casi?!).

A quanto pare, tuttavia, non è svanita abbastanza per non “stroppiarsi”, come avrebbe detto mia nonna, di fronte a questa mannaia inaspettata, che mi ha punita per l’errore in cui cado sempre: per accorgermi di quello che ho, mi serve sempre un promemoria, fosse anche doloroso.

Ditemi la verità: non starete facendo lo stesso errore?

Io sono un disastro soprattutto con le cose che riesco a ottenere, piuttosto che quelle che mi ritrovo (o meno) in dotazione per default.

Per esempio, non vi sto a dire quanto ho studiato negli ultimi anni della laurea in Lettere – anche perché ero un po’ in ritardo con gli esami; però a ventidue anni, quando i voti contavano molto per vincere la borsa Erasmus, ho guardato ipnotizzata l’impiegato di banca che mi faceva frusciare davanti tutti quei bigliettoni, e ho sussurrato all’amico che mi accompagnava:

“Questo che vedi è l’equivalente di un anno e mezzo sui libri”.

Mai convertire un pezzo dei tuoi vent’anni in carta stampata! Ma il mio amico aveva passato lo stesso periodo in modalità cicala (e se io ero la formica, stava proprio fresco!), così è rimasto impressionato dal fatto che la mia scarsa vita sociale avesse avuto quegli esiti pecuniari.

Di recente, al compleanno della libreria italiana, ho discusso con una mia coetanea di progetti accantonati, o in forse. “E hai già pubblicato qualcosa?” mi ha chiesto lei, quando le ho spiegato che scrivessi. Allora, con mia somma sorpresa, ho sbirciato sugli scaffali alla mia destra e scovato subito il libro col mio nome in copertina, che ho mostrato con la noncuranza un po’ eccessiva di chi suggerisce: “Tranquilla, adesso non devi anche comprarlo. L’importante è averlo qui”.

Sì, perché quel mucchietto di carta col mio nome sopra mi dimostrava che questi anni passati a fare scelte strane, e tanti sbagli, hanno prodotto un risultato. Di “carta stampata”, come per l’Erasmus, anche se ahimè i due tipi di stampa non sempre vanno insieme…

E voi cosa state sottovalutando, di quello che avete ottenuto? O, semplicemente, di quello che avete.

Sospetto che il motivo per cui dobbiamo sempre criticare le conquiste altrui è in realtà duplice:

  • non crediamo in quello che abbiamo fatto;
  • non crediamo in quello che possiamo fare.

Mi sa che è arrivato il momento di rimediare.

Ieri era il compleanno di mio padre, e siamo andati a farci un aperitivo insieme.

Capirai, direte voi.

Invece la frase di sopra ha almeno due particolarità, riassunte da quell’ “insieme”: la prima è che ci trovavamo nello stesso pezzo di mondo, nella fattispecie il paese che ci ha cresciuti entrambi.

La seconda è che mio padre non fa mai l’aperitivo, non fuori casa. Sono anni che cerco di convincere lui e mamma, ma l’usanza è recente – dieci anni o giù di lì sono l’altro ieri, in una cittadina con velleità di capoluogo – e loro sono pantofolai come me, con la differenza che io non lo do troppo a vedere.

Quanto alla prima particolarità, sì, avevo preso l’aereo apposta per il compleanno di papà, perché mio fratello era in viaggio di lavoro: andasse almeno la figlia senza orari fissi, che i manoscritti si possono consegnare invano un po’ dappertutto!

A differenza di quelli programmati, questi ritorni improvvisi e improvvisati sono un ricettacolo di bilanci imprevisti, e non proprio auspicabili, come una foto scattata a tradimento.

Magari vengo immortalata in un vestito carino e fresco, e sembro pronta per uscire, il tempo di ravviarsi i capelli legati all’insù. E invece quello è l’abito che uso in casa – non si vede lo strappo proprio sul… ? – e i capelli sono intrisi di olio per impacchi.

Altre volte l’obiettivo impertinente mi sorprende con i capelli bagnati e un unico asciugamani a rivestirmi, tipo toga romana: in tal caso cominciate a bussare, che scendo. D’estate non asciugo i capelli, indosso tuniche leggere e sono pronta in tre ditate di correttore e due di ombretto (il lucidalabbra lo metto in ascensore).

Insomma, spesso sono tornata in paese con tutto un elenco di “risultati” (case, relazioni, lavori dall’aria stabile) e in realtà era un’impasse che chiamavo movimento. Altre volte, come adesso, sembro in pausa ma mi muovo.

“Hai finito il libro, allora?” mi aveva chiesto con accento texano il tipo che mi aveva vista scrivere per tutto il volo. Non era il primo nonnetto che in inglese si diceva strabiliato dalla velocità con cui scrivo, e sentiva il bisogno di farmelo sapere.

“Sono al terzo quaderno, ci siamo, credo” gli avevo sorriso.

“Hai scritto più di me in tutta la mia vita, devi essere una che pensa veloce” aveva concluso, prima di recuperare il bagaglio a mano.

Sto scrivendo un saggio strano, un po’ diario e un po’ GENDER, sul fatto di voler essere madre a trentotto anni, e di essermi ritrovata single qualche tempo fa. Tra “técnicas de reproducción asistida”, e amici gay (e non) che si propongono, sto scoprendo un sacco di cose di me, e degli altri.

Ieri sera ci siamo alzati dai tavolini all’aperto, che davano sul corso senza però toccarlo, e abbiamo aggirato un coetaneo di mio padre che cullava un bimbo paffutello nel passeggino:

“Sei stanco, a nonno?”.

“Ghghgugh” rispondeva il bimbo.

Stavo per spiegare a mio padre il contenuto dei miei quaderni, poi ho pensato che non avrebbe capito: in fondo aveva respinto anche il concetto di “qualcosa da stuzzicare” a cui l’aveva iniziato la cameriera, così ci erano arrivati al tavolo due miseri sanbitter e un’acqua minerale, mentre gli altri avventori s’ingozzavano di panini e cosette salate.

Portare mio padre a fare un aperitivo è stata un’impresa, e la cosa più facile del mondo. Un’impresa perché ci provavo da anni, e la cosa più facile perché stavolta mi ero limitata a proporglielo sicura di un no, mentre già mi avviavo verso la doccia per fare un giro almeno io, col fresco della sera. E aveva accettato.

Al ritorno mia madre, la più riluttante a scendere (e grazie, gli uomini della generazione di papà sono pronti in due mosse, per le donne è diverso), ha detto che l’avevamo colta alla sprovvista, ma che la prossima volta, magari, viene anche lei.

E niente, le cose succedono solo quando devono succedere.

O quando possono.

Di New Dawn, forum.giardinaggio.it

Di New Dawn, forum.giardinaggio.it

E sì, quelle strade le avevo già viste. Quelle pietre, quei giardini. Anche se non qui e ora.

Le ho riviste a centinaia di chilometri da dove l’avessi fatto la prima volta, e a quasi trent’anni di distanza, ma erano le stesse pietre, gli stessi giardini, perché uguale era la sensazione che mi davano, rispetto alle pietre e ai giardini che li avevano preceduti.

Il quartierino che scoprivo pochi scaloni sopra casa mia a Barcellona, quella Satalia a rischio estinzione che viveva ancora di villette con giardino e vicoletti scoscesi, era la Capri che attraversavo a fine anni ’80 con mio nonno, che mi spiegava cosa fosse quella statua e che dio fosse quel tale Balilla (eh, già) che intravedevamo dalle inferriate di un portone a Tragara.

Stesse sensazioni, stesso senso di pace. Allora ricordavo la prima volta, trent’anni fa, come immaginavo il mio futuro.

E mi sono accorta che l’immaginavo così. Come il presente che vivo ora. Non proprio sputato, ma così. E ho visto la bambina vedere me. Ci siamo riconosciute, e salutate.

Certo, lei, la pargola, non avrebbe immaginato che a questo punto della mia vita non avessi ancora un lavoro di quelli “coi soldi”, che non avessi ancora figliato. Che la gente che mi circondava parlasse alla perfezione la lingua di quella poesia fatta di roccia, sulla strada del mare: Reina de roca, en tu vestido de color amaranto y azucena viví desarrollando… Anche se il tizio che l’aveva scritta, Pablo Neruda, non era né di Capri, né di Barcellona.

Ma appena interrotte dal flamenco di una passante bruna, dalla chioma raccolta, nella canzone antica che cantavamo a una voce*, abbiamo letto tutte e due, la donna e la bambina, il manifestino artigianale della festa del barri (come quella del patrono, senza patrono). Una festa piccina picciò che dura un solo giorno, e alla cena popolare bisogna portarsi da mangiare da casa, come quell’attore che piaceva tanto al nonno. Ci siamo accorte subito che non sapremmo ballare le danze popolari di qua, come non avevamo saputo ballare le tarantelle di Ferragosto, a Marina Grande. Ci saremmo limitate, oggi come allora, a saltare, e battere le mani.

Però ci siamo riconosciute, e salutate.

E siamo scese insieme verso la città, uguale a ogni nostra città, che da lassù sembrava sdraiarsi un po’ scocciata, ma in fondo benevola, ai nostri piedi.

* Questa: