C’è un modo di fare la fame che è tutto originale, tutto nostro: non dircelo. Stare sempre lì con la sensazione di essere più o meno sazi, ma nella pancia, a tutti i livelli, c’è sempre un bel po’ di spazio che non riempiamo, né ci mettiamo in condizione di riempire.
Così, sul lavoro accettiamo mille umiliazioni, ce ne lamentiamo coi colleghi ma poi continuiamo a sorridere al capo e accettare le sue angherie. Oppure ci accolliamo tutto il peso di quell’associazione di volontariato, o semplicemente dell’addio al celibato dell’amica pretenziosa che vuole dromedari spogliarellisti e concerto live dei Take That, in ricordo dei vecchi tempi. La responsabilità dell’organizzazione, ovviamente, tutta su di noi. Che non amiamo deludere la gente, e allora diciamo sì a ripetizione.
Oppure in amore ci mettiamo sempre in situazioni in cui lottiamo disperatamente per ricevere un po’ di attenzione, ci impegoliamo fin dall’inizio in una storia che si preannuncia impossibile per il solo gusto di dimostrarci che non è vero. Nella migliore delle ipotesi diventa possibile dopo mesi e mesi di tossico, e dopo l’ebbrezza iniziale scopriamo che “non ci riempie”.
Ma è questo che cercavamo: non riempirci. Non essere mai sazi. Un po’ per dimostrare a noi stessi che possiamo vivere anche così, che possiamo mettere a curriculum una resistenza sovrumana (visto che crediamo di non poterci mettere molto altro), un po’ perché temiamo che, se poi ci saziamo, “quando inevitabilmente avremo di nuovo fame ci farà molto più male”.
Be’, se questa è vita, siamo proprio a posto. A proposito, come abbiamo fatto a decidere che la vita sia questo e la condizione di sazietà, di appagamento, di soddisfazione, sia l’eccezione?
Ancora una volta, con l’abitudine. Raccontandocelo ogni giorno, ogni ora, arrivando davvero a crederci perché volevamo.
C’è gente che si è fatta eleggere, in questo modo. C’è gente che non si è presa neanche questo disturbo.
E allora, dico io, se l’abitudine ci ha messo in questo guaio, quella ci tirerà fuori: alleniamoci alla sazietà. Ogni giorno. Come ho scritto altrove, si inizia da una sciocchezza, un regalo inaspettato che facciamo a noi stessi, poi diventa quasi automatico, ci abituiamo così tanto a star bene che sviluppiamo come un radar. Quando conosciamo qualcuno o ci propongono una situazione in cui rischiamo di star male, ci viene spontaneo dire no grazie, come ci veniva spontaneo accettare col brivido di adrenalina da mission impossible che scambiavamo per entusiasmo.
Io mi sto trovando bene a fare questo piccolo esercizio: che so, per i prossimi 21 giorni faccio una piccola cosa quotidiana per risolvere un determinato problema (per esempio, le manie di controllo). Non vedo l’ora che finiscano questi 21 per imparare qualcosa di ancora più eccitante: perché, man mano che si fa il gioco, non si tratta nemmeno più di risolvere problemi, ma di imparare cose nuove, che non si è mai avuto il coraggio d’imparare e che ora si assimilano con entusiasmo, un pezzettino al giorno. Come una cheesecake (tranquilli, c’è anche l’opzione vegana) che troviamo ogni giorno sempre fresca per noi sul tavolo della cucina.
E la gioia, come la cheesecake, è la più bella delle abitudini.