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Esticazzi? 🙂

Io noto una cosa: soddisfare le aspettative sociali non basta. Dobbiamo anche volerlo fare. Amare il Grande Fratello, insomma.

È il meccanismo perverso presentato a una mia amica che nei primi anni 2000 voleva andare in vacanza col ragazzo. Secondo il responso che ricevette in famiglia, non era sufficiente che sua madre glielo proibisse, non “doveva” desiderarlo lei.

Così come i rampolli di ceto medio dovrebbero essere entusiasti fin da piccoli di andare al liceo, nel mio caso un laboratorio fantastico di quello che mi sarebbe toccato se fossi rimasta nel mio paese: raccomandazioni, competizioni per il voto più alto, frustrazioni di alcuni insegnanti scaricate sugli alunni e l’eterno refrain “Se sei martello, batti, se sei incudine, statti”.

Abbiamo visto ultimamente che, una volta venute meno le condizioni per realizzare la missione sacra assegnataci fin dall’infanzia, non tutti ci stanno a continuare.

Circola molto la lettera di un trentenne suicida che i genitori propongono come spunto di riflessione su un modello di società che non funziona.

Sarà che in questi giorni tutti i miei amici italiani su facebook parlano di Sanremo, ma a me è venuto da pensare al meno articolato biglietto di un ventottenne, Luigi Tenco, in cui leggevo una delusione e una rabbia simile, e per una questione che può sembrarci molto triviale, come le scelte della giuria sanremese.

Perché accosto lettere così diverse di due giovani uomini, vissuti in epoche differenti? Perché, avendo superato da un po’ anche la loro età, mi rendo conto che la mia generazione, tra le altre cose, soffre di ansia di riconoscimento. Ci hanno detto che avremmo avuto lavori decenti e famiglie del Mulino Bianco, come i nostri genitori, e pare proprio che non sia così, o non nelle stesse condizioni.

Un paio di passaggi della lettera del trentenne mi ricordano anche l’idea che il mondo “dovesse esserci consegnato” in un certo modo, e “avrebbe dovuto accoglierci, invece che respingerci”. Sono d’accordo sulla seconda frase, ma la prima non sarà stata un’illusione collettiva?

Diciamo che per tutta un’epoca ci hanno fatto credere che il mondo sarebbe stato uguale a quello che imparavamo a conoscere mentre bevevamo latte e Nesquik, davanti allo stupidario televisivo quotidiano. Che gli uomini avrebbero avuto a disposizione una bella compagna disposta ad allevare i loro bambini, mentre loro portavano a casa il grosso dei soldi, e le donne avrebbero coronato, conciliando brillantemente “casa e lavoro”, il sogno più bello: quello della maternità.

Non sentite anche voi il classico rumore da disco graffiato, come nei flashback dei film? Eppure vari amici miei hanno avuto difficoltà a dichiararsi gay: a sentire mia madre “non c’erano gay nella sua scuola”, e la risatina con cui noi figli accogliamo quest’affermazione la dice lunga sui mondi diversi che abitiamo. In tanti se ne sono dovuti (nel mio caso, voluti) andare via dal posto in cui sono nati e, quando pensano ai figli, possono trincerarsi dietro all’affermazione di “non potere ancora”, per le difficoltà economiche, così da non porsi nemmeno il problema se li vogliano o no.

Alcuni uomini, non solo in Italia, continuano a pretendere che, lavorando sodo, avranno automaticamente la bonazza di turno ai loro piedi, e troppo spesso, ma veramente troppo, si arrabbiano se non è così. D’altronde tante donne etero continuano ad avere un’idea della mascolinità come rifugio e protezione che personalmente trovo squalificante per loro e avvilente per gli uomini stessi, e che si estrinseca in pagine come questa, che mi provocano quella che in Spagna si chiama vergüenza ajena (quando ci vergogniamo noi per qualcun altro).

Io, come ho già scritto qua, campo felice con 1000 euro al mese: quando è stato che mi sono posta il problema che non fossero abbastanza? Quando, tornando in Italia per le vacanze, mi sono sentita dire che fossero pochi, magari da quasi-pensionati con oltre 30 anni di lavoro fisso alle spalle. Che pretendono di scalare dal calcolo delle mie entrate quello che pago di affitto (allora a Barcellona chi arriva ai 500 è un nababbo!), e che vedono la pensione come unica alternativa a una vecchiaia di fame e di freddo.

Finché il mio migliore amico, dopo l’ennesima mia sfogata, mi ha detto: “Se non sono sereni con quello che rende serena te, è un loro problema”.

Minchia, sì! E dovrebbero ricordarselo tutte le trentenni a cui chiedono “A quando un bimbo?”, tutti i diciottenni a cui i genitori impongono Ingegneria anche se loro vogliono fare Lettere, tutti quelli che non tanto ci stanno ad attaccarsi allo stesso giogo delle generazioni precedenti: l’idea che ci sia un solo modo di vivere, e se deviano da quello arrivederci.

Il “diritto” alla felicità, personalmente, non lo concepisco. Pretendo il diritto al lavoro, il diritto alle condizioni economiche giuste per avere una famiglia, se voglio. Non importa, come obietta ogni tanto qualche  bomber “che si è fatto da solo”, che possa crearmeli io. Lo faccio già. Intanto un sistema politico che si suppone mi rappresenti dovrebbe garantirmeli o non sta lavorando bene. Ma i diritti finiscono qua.

Per una volta devo dare ragione a chi credeva che quella per la felicità fosse una ricerca.

E quella, purtroppo per una società che insegue una ricchezza inesauribile da contendersi come un osso, quella possiamo cercarcela unicamente da soli, con le nostre forze, e coi mezzi che abbiamo a disposizione nell’epoca in cui siamo nati.

Sono fermamente convinta che, superato l’eterno scoglio delle aspettative, ce la possiamo fare.

 

 

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Non sapevo neanche se l’avrei pubblicato, questo post.

Diciamo che l’ho scritto per chiarire due cose a me stessa.

Quando si diffuse il video di cui tutti stanno parlando in queste ore non sapevo se, come ipotizzavano i giornali che ora piangono, fosse la trovata pubblicitaria di una escort. Col senno di poi mi faccio qualche domanda sulle loro fonti, ma allora speravo avessero ragione, perché quel filmino lo stavano guardando davvero in tanti. Come studiosa di genere ero anche combattuta su un quesito che mi pongo spesso: per meglio capire la società in cui vivo, devo guardare anche quello che non mi va, se suscita reazioni collettive così forti?

Allora come oggi, mi sono risposta “anche no”. Per me il criterio di decisione è questo: guardare aggiungerebbe qualcosa alle mie informazioni sull’accaduto? Ho bisogno di vedere un video su una fellatio per capire perché stiano sfottendo la donna che vi compare? Ho bisogno di assistere a una decapitazione pubblica dello Stato Islamico per sapere che fanno schifo? No, vero? E allora non lo faccio.

Qui sotto, invece, rifletto su alcune questioni che secondo me dovremmo affrontare più seriamente:

  • il rapporto con la morte. Secondo me togliamo al suicidio la sua enorme parte di coraggio, trasformando chi lo compie in una vittima “costretta” dai fatti. Credo che ci si possa limitare a dire che quella pressione sociale, la suicida, non doveva subirla;
  • il rapporto con le questioni di genere. Demonizzare il GENDER ha il suo prezzo. Noto un certo bipolarismo nel trattare questioni come libertà sessuale, poliamore, fedeltà e tradimento, in una società come la nostra che cambia lentamente e in modo contraddittorio. C’è chi sta trasformando una ragazza ripresa durante un rapporto sessuale in una sorta di simbolo della libertà femminile, minacciata dai maschi. Non da quello che ne ha tradito la fiducia, ma dai maschi in generale. Come se il video fosse stato guardato solo da loro. Prossimamente rifletterò un po’ sulla pia illusione che il sessismo sia appannaggio unico degli uomini etero. Credo anche che non sia del tutto vero che un uomo nella stessa situazione venga incensato e diventi un eroe. Lo diventerebbe per una buona parte del pubblico, certo, ma quante donne lo stigmatizzerebbero per aver “tradito la compagna”, rivelandosi “il solito porco”? Ecco, nonostante le tentazioni di rivalsa sul doppio standard che ancora ci affligge, mi piacerebbe che il “fatti i fatti tuoi” fosse bilaterale. Perché una non ha bisogno di diventare un’eroina da dopo morta perché si dica che, semplicemente, fosse una donna come tante, che non doveva subire questo trattamento;
  • il rapporto con la nostra cultura. Purtroppo casi del genere non avvengono solo in Italia, d’altronde l’espressione slut shaming non è stata partorita dal bizzarro inglese di Renzi. Un’icona pop (mi pare di capire che lo sia) come Selvaggia Lucarelli ha postato un caso emblematico di bullismo mediatico avvenuto ad altre latitudini, anche se in circostanze molto diverse da queste. Secondo me inscrivere l’Italia in questo fenomeno mondiale, invece di soffermarci su una possibile anomalia nostrana, ci aiuta a capire meglio il problema, piuttosto che lanciare accuse generiche alla nostra ipocrisia, o alla Chiesa cattolica che ci domina ancora: tutto vero, ma andiamo oltre questa critica, esiste un’Italia che si muove (anche fuori dai suoi confini fisici), che lotta per i diritti civili, per la libertà sessuale. Iniziamo da quella;
  • il rapporto con la coppia. Mi permetto una riflessione generale. Tempo fa, sulla pagina facebook L’ISIS minaccia c’era una frase che mi ha colpito:”Diremo alle vostre donne in quale motel giocate a calcetto ogni giovedì alle 19″. O qualcosa del genere, non trovo il post. Fiumi di like, commenti scherzosi ambosessi che implorassero pietà. Di recente è uscito Perfetti sconosciuti, un film in cui Kasia Smutniak invita tutti i partecipanti a una cena tra amici a posare il loro telefonino al centro tavola, e a leggere ad alta voce qualunque messaggio arrivi. Il fatto che un mio coetaneo rimasto in Italia possa rabbrividire a questo pensiero mi ha davvero, ingenuamente, sorpreso. Ecco, per me se dobbiamo arrivare a mentire su grande scala ai nostri partner per fare quello che vogliamo dei nostri genitali, forse dovremmo ripensare la nostra idea di relazione. Non ho una soluzione, ma all’ambiguità intuisco di preferire il famoso “nessuno è di nessuno” che ora mi ripete il mio ragazzo, e che professavo anch’io, alla sua età. Sono certa che si possa declinare nel modo che più ci sia congeniale;
  • il rapporto con la colpa. Le autodenunce degli uomini in queste circostanze (“siamo fatti così, ammettiamolo, siamo bastardi” ecc.) mi ricordano altre assunzioni di responsabilità collettive. Penso al “noi occidentali”, che crea un fantomatico Oriente omogeneo, sottomesso e totalmente dipendente dalle nostre vicende. O alle pur comprensibili accuse al genere umano come “peggior specie vivente”, da parte di benintenzionati colleghi vegetariani che però non riservano la stessa arbitrarietà agli altri animali. Nonostante le buone intenzioni, temo che queste operazioni finiscano per portarci fuori strada. Prima di tutto perché hanno un pericoloso valore catartico: chi si autoaccusa pensa spesso di essere autorizzato a proseguire nei suoi errori, come se “confessare” portasse l’assoluzione (vogliamo forse ispirarci alla Chiesa?). E poi secondo me colpevolizzarsi anche per chi fa quello che noi cerchiamo a tutti i costi di evitare (se non lo facciamo è un’altra storia) è controproducente. Prendersi delle responsabilità, sì che aiuta. Aiuta cominciare (o continuare) a non fare noi quello che ci renderebbe oppressori. E fare tutto il possibile (che è poco, purtroppo) per non diventare oppressi;
  • il rapporto tra le nostre convinzioni e la nostra storia personale. Un episodio come il suicidio di questa donna, purtroppo, rischia di diventare una sorta di specchio, in cui ciascuno vede riflesso ciò che più gli preme trovarci. Chi odia i social (però li usa) tuona contro il potenziale distruttivo della rete e rimpiange il “riserbo di una volta”. Chi ha avuto brutte esperienze con gli uomini approfitta di un problema culturale reale (la disuguaglianza di genere) per attaccare l’intera categoria. Chi ne ha avute con le donne, che ve lo dico a fare. Chi ha problemi col femminismo denuncia la colpevolizzazione di tutti gli uomini (e come si è visto sopra sono d’accordo, ma vedo troppa confusione su cosa sia femminismo). Quelli del “se l’è cercata“, poi, ora si attestano su un prudente “è stata ingenua”.

A proposito di andarsela a cercare, riguardo a un altro episodio terribile una ragazza su facebook commentava più o meno: “In un mondo in cui non posso essere me stessa, non voglio vivere”.

Io invece non voglio vivere in un mondo in cui, a essere se stesse, si rischi o la pubblica gogna o l’idealizzazione, solo perché nessuno sa farsi i cazzi suoi.

 

balcone La questione è che mi dovevo buttare di sotto.

Cioè, non che dovessi, ma per una lunga frazione di secondo non ho capito bene cosa ci facessi, appena piombata sul balcone, coi lucciconi agli occhi e la voglia di vivere di Leopardi con l’influenza.

Non credo fossi corsa a controllare la crescita del ficus accanto a me. Che poi l’inquilino che mi è subentrato mi ha informato che non è manco un ficus.

Più che la volontà di testare la mia abilità coi tuffi, insomma, avevo la sensazione di non essere del tutto padrona delle mie azioni.

Per fortuna queste cose durano, in genere, una frazione di secondo. Il tempo di cedere alla parte di noi che è ostinata a sopravvivere a qualsiasi circostanza. Specie a quelle che non abbiano a che vedere con disastri naturali, bombardamenti e compagnia bella.

Da allora sono passati tre anni e ho preso nuove cantonate, fatto altre figure di merda, vinto quacche cosa. Ho quasi sempre notato che le persone intorno a me reagivano con più trasporto di quanto facessi io, nel bene e nel male.

Io invece, dal giorno del balcone (il #balconyday), sono stata soprattutto curiosa. Voglio vedere come andrà a finire. Anche se la vita, come nei film porno, non riserva troppe sorprese sul finale. Ma è come i remake di film famosi, l’importante è la trama.

Allora mi scopro spesso a fare da protagonista e insieme da spettatrice, in genere divertita, in ogni esperienza. Anche a una giornata di fiera senza troppi clienti, ma con concerto di tango e claque di vecchietti annessa. O alla mia proclamazione, col voto altino che mi sarebbe andato benissimo se tutti non mi avessero detto “peccato, avresti preso il massimo se solo…”. Non significa che non mi farò i miei conti, che non deciderò se riprovarci o meno. Vuol dire che, già che sono ancora qui, voglio tutto il pacchetto, i fallimenti e le vittorie che poi, in un certo senso, si equivalgono.

Insomma, la mia vita doveva finire quel giorno sotto un balcone, magari sui calzini bianchi di un turista di passaggio.

Tutto il resto è tanto di guadagnato, che faccia schifo o meno. È un extra, come le salsine sulle patate fritte.

Se sono abbastanza croccanti, va bene pure la mostarda del discount.

romeo and juliet claire danesSto scrivendo un libro che non è sulla mia adolescenza, ma con quella ci deve fare i conti.

Un bravo scrittore di qui, Sergi Pàmies, sostiene che il romanzo sia come una moglie: te la ritrovi ogni volta che torni a casa, a romperti le scatole. Tralasciando la sfumatura un po’ sessista, è vero che sono da giorni immersa nei miei quindici anni, tanto che vi raccomando: se mi vedete con quei collarini neri simil-tatuaggio, la fila in mezzo e la pancia da fuori (soprattutto la pancia da fuori), sopprimetemi.

Il fatto è che a parte questi dettagli vorrei parlare di un’adolescenza che non fosse solo mia, in cui si possano riconoscere anche altri. Ed è stato molto triste apprendere che, intanto che io ricordavo gli infantili “Voglio morire!” scarabocchiati sul diario, qualcuno ha deciso di uscire dal libro e farlo davvero, buttandosi sotto un treno vero, nella stazione reale che infesta eterea, un po’ minaccia e un po’ promessa, i miei fogli A4.

Dove inizia il mio romanzo, è finita la vita di un ragazzo in carne e ossa.

Immagino che il dolore cieco e sublime sia stato appannaggio dei nostri nipoti e cugini più piccoli. Tra i miei coetanei, invece, serpeggiava una certa indignazione. Per le manifestazioni di lutto che dovevano pullulare in bacheche facebook che non visualizzavo, o per la morbosità che spingeva dei giovani quasi scampati all’adolescenza sui binari di chi invece aveva deciso di tagliare corto.

O forse perché noi siamo sopravvissuti.

Perdonate l’enfasi, ma dalla Polaroid sfuocata che diventa la vita in paese, quando la guardi da lontano, non posso fare a meno di pensare a quando gli adolescenti eravamo noi. E di trovare sbagliato fare ciò che rimproveravamo ai nostri genitori: razionalizzare senza mettersi nei panni altrui, ridurre a parole di biasimo ciò che è pura irrazionalità, sorpresa, tristezza, a volte delusione infinita.

La mia adolescenza è stata quella di tanti altri ragazzi in paese, che si sono ritrovati guarda caso in classe con gente i cui genitori facessero mestieri simili. Con qualche professore che credesse di fare la lotta di classe insultando figli di papà tredicenni e venerando le “sezioni peggiori”. In genere erano professori sgrammaticati, finiti in cattedra in modi strani. Non avevano guadato la fluida barriera dell’italiano, questo spartiacque che vuol dire tutto in una società che ha rinnegato se stessa per non arrivare mai a essere altro.

A parte la pressione sociale da liceo classico, coi voti finali esposti e tutti a guardare quelli dei figli altrui, a parte l’epilogo con le telefonate di condoglianze per un 100 mancato di poco, a parte gli alberi genealogici sciorinati al solo accenno di un cognome a me nuovo, la mia adolescenza è stata come tante, migliore di altre.

È stata la scoperta della vita fuori casa, coi suoi pericoli gonfiati ad arte per tenere le ragazze rinchiuse (non me, per fortuna). La scoperta della libertà, con Napoli che improvvisamente sembrava l’Eldorado anche se intravista da Piazza Garibaldi. Perfino la sorpresa della diversità, con l’orgoglio di ammettere che Axel Rose mi fa cagare e il poeta che preferisco non è Jim Morrison, anzi, se mi fate incazzare vi rivelo perfino che mi piace Leopardi.

Soprattutto, la scoperta della delusione. La delusione d’amore, ovviamente, che ti fa concludere che più uno fa il Kurt Cobain della situazione e più si sparerà a 27 anni, perlopiù metaforicamente, per mettersi una giacca e una cravatta e andare a lavorare nello studio del padre. E il disprezzo lenito dal tempo per compagni che abbracciano una volta per tutte il detto dei genitori: “Se sei martello, batti, se sei incudine, statti”. E si stanno sempre.

Spero che ora insegnino ai loro figli anche a essere martello, ogni tanto, quando serve.

Intanto, alla nostra adolescenza, in un modo o nell’altro, siamo sopravvissuti.

Con chi l’attraversa ancora potremmo essere più indulgenti.

Potremmo ricordarci di quando, senza permetterci il lusso secchione di adottare Anna Karenina, quel treno l’abbiamo guardato anche noi, pensando quasi quasi…

Io invece di buttarmici sotto ci sono salita sopra. E non è partito davvero che quando ho imparato anche a restare.

Ma questa è un’altra storia.

setaMi ci siedo per guardare meglio il tramonto alle mie spalle. Un tramonto tardivo, da dieci rintocchi di campana.

Ma è quando il vento mi scompiglia la seta rossa del vestito indiano che mi guardo indietro, oltre il parapetto del balcone su cui sono seduta, e vedo come sarebbe facile. Sei piani.

Il vestito non ci ho mai creduto, che sia di seta, penso cercando il sole tra le antenne rosa. L’ho preso a Manchester, allo Student Market, prima ancora di prenderci un fidanzato. Feel free to try it on, aveva detto il tipo, e avevo imparato l’espressione feel free.

Muovo i piedi e le lunghe onde del vestito si fanno ancora più rosse e maliziose, scoprendomi le ginocchia che in un secondo potrebbero sfracellarsi in un volo di… Quanti metri? I soffitti sono bassi.

Poi però cambia tutto. Mi rendo conto che la questione è un’altra. Non quanto sarebbe facile buttarsi. Ma il fatto che scelga di star lì seduta nonostante sia facile.

Scelgo il tramonto delle 10 di sera, e i dolori mestruali, e gli altri, da abitare come il balcone sporco di sabbia e vento, ma non di rosa, che il sole batte soprattutto nel primo pomeriggio.

Scelgo di vedere come va a finire. Se si pubblicherà quel libro che ho discusso oggi con una psicologa, seduta a un tavolino in Plaça Reial, e odio i tavolini della Plaça Reial ma la psicologa mi ha dato un sacco di consigli utili.
Magari lo si pubblica, conosco almeno una persona che vorrebbe leggerlo: io.

Scelgo di far credere alle mie vicine che vivano affianco alla Llorona, che tengo ‘a vede’. Sono pure messicane. Poi viene la gatta ad allietarle coi suoi, di lamenti, se preferiscono.

Scelgo di scegliere di sedermi ancora lì ogni volta per guardare un tramonto e dirmi quanto sia facile e se ne valga la pena, di non farlo.

E finché la risposta è anche solo non so, rimettere i piedi a terra, scansando l’orlo di finta seta del vestito, e andare a farmi da mangiare.