Odio postare nomi reali, ma la tipa coreana che mi vendeva casa si chiamava Jin Young Moon: indovinate cos’è diventata in bocca al notaio, il giorno della firma.
Che poi era una notaia, e ha fatto pure una pausa comica quando ha letto che di mestiere facessi la scrittrice. Un omaggio scherzoso dell’amico avvocato che ha fornito i miei dati.
Uscendo da lì con le chiavi in borsa, ho scritto al mio coinquilino preferito (l’unico): “Comprato”.
Poi mi sono girata due banche, una sbagliata e una no, per estinguere un mutuo. E già che c’ero ho fatto una capatina a… casa nuova.
Si erano portati il frigorifero.
Avevamo litigato in due puntate, e si erano portati il frigorifero.
Il maltolto è poi stato riportato che ero già arrivata a casa vecchia, altra corsa per tornare indietro.
Ho finito di trottare alle cinque del pomeriggio, e sono morta sul divano di casa vecchia: certe cose ho scoperto che o si fanno in coppia, o in famiglia. Io, si diceva, mi sono ritrovata per la seconda volta a farle da sola, circondata da gente che non le capiva.
Infatti sono andata in bagno e ho scoperto che mancava il dentifricio.
“Ma non avevi fatto la spesa?” ho buttato una voce in corridoio.
“Mi hai scritto che l’avevi comprato” è stata la risposta.
“L’appartamento, non il dentifricio”.
Ieri mi sono alzata dal letto con la voglia di essere a casa nuova.
I cambiamenti radicali spaventano, specie se “scappi” da una vita accogliente, di quel tranquillo che se non stai attenta si fa stagnante. La mia bella vita stagnante mi manteneva serena tra i suoi libri di testo e i tè costosi, e le porte chiuse, che ad aprirle sapevo già, più o meno, cosa trovarci.
Ma poi è un momento. Natalie Portman, nel – pretenziosetto – Closer, dice che c’è sempre un momento in cui puoi resistere, prima di entrare nella deriva che ti porterà al tradimento. Oppure cedi.
Succede anche con la vita in generale.
E ieri mattina, alzandomi dal letto, ho sentito il momento: la nostalgia impossibile del soggiorno che non ho ancora vissuto, delle presentazioni del libro ancora da fare, delle nuove città che non ho mai visitato.
Per la serie “voliamo basso”, ho pensato a Harper Lee. All’unica cosa che abbiamo in comune: a un certo punto, ancora da esordiente, lei si è potuta dedicare unicamente alla scrittura.
Nel suo caso è stato grazie al patrocinio di amici lungimiranti, e per la fortuna del mondo.
Nel mio caso, la fortuna è unicamente… mia, appunto. Anche se prossimamente parlerò anche qui del mio libro uscito in ebook e in cartaceo. Quanto al piano per potermi dedicare solo alla scrittura, ci sto lavorando.
Ieri, per esempio, mi sono ritrovata seduta alla destra di un notaio dall’età apparente di quindici anni, in servizio da due giorni, e alle prese con la prima compravendita della sua vita: vendevo casa. Lo assisteva suo padre pensionato da poco, un tipo di “capaciello” (maschio alfa) locale che a un certo punto dubitava che risiedessi a Barcellona, “essendo italiana”. L’amico agente immobiliare, che ormai è il mio angelo custode, gli ha fatto notare che il mio Nie era verde, “dunque non c’erano dubbi”. Non è così semplice, ma la stessa argomentazione, cinque anni fa, mi stava costando il blocco del conto corrente spagnolo perché ancora mantenevo quello italiano: dunque mi sembra giusto che, in questo caso, mi abbia salvata. Il notaio jr ci chiedeva nelle pause “come stava andando”, sostenuto da sorella e zia a loro volta impiegate là, e nei momenti ufficiali traduceva tutte le cifre in inglese, a beneficio dell’affascinante compratore: un londinese di origine araba a cui alla fine ho augurato “Good luck”, senza che si facesse ‘na domanda. Ma avevo fornito almeno due verbali delle riunioni di condominio, e la mia coscienza era a posto.
È anche vero che in quei sofferti resoconti non compariva la misteriosa storia di bambole voodoo che mi aveva ricordato, nell’ultimo addio, l’amministratore. Ma non era il mio, il pianerottolo su cui i feticci erano stati depositati per fare dispetto a una vicina. Io possedevo solo il balcone su cui era precipitata una suicida – o forse l’avevano spinta. Credevo che l’amministratore ne avesse abbastanza di me quanto io di lui, e invece aveva dichiarato che, se ce ne andavamo io e “l’altro normale del palazzo”, che pure voleva vendere, si sentiva avvilito. Nella sua carriera di gestore condominiale, non aveva mai visto una cosa del genere.
Io sì, come sapete voi che assistete allo spettacolo surrealista che può diventare la mia vita. Infatti, la sera prima della visita al notaio, ero reduce da un trasloco anticipato di due settimane, ed ero andata a respirare un momento nel bar dove partecipo al pub quiz.
Anche il barista era in vena di svolte. Parlava d’investire una forte somma per offrire un menù vero e proprio, assumere personale, organizzare una seconda inaugurazione… Voleva farlo tutto in una volta, invece d’introdurre novità a poco a poco come aveva fatto finora, con risultati alterni.
Ecco cosa fa un laureato in marketing, avevo pensato. Non come me, che credevo davvero che tanti cambiamenti si potessero assimilare un po’ per volta nella mia vita.
Però gliel’avevo detto: stai tranquillo, tanto non avrai mai l’ultima parola. Io sono mesi che rischio il trapianto di fegato per tenere tutto sotto controllo, e alla fine c’è sempre una sessantenne filippina che occupa l’appartamento sopra al mio, e poi minaccia di farmi piovere in testa. Oppure un signore coreano prima accetta di vendermi casa coi mobili dentro, e poi cerca di sottrarmi una poltrona IKEA, in cambio di un pranzo nel suo ristorante.
Ed è una costante, per me, affrontare tutto ciò circondata da gente che non capisce cosa io stia facendo: almeno, a ‘sto giro, non mi disprezzano troppo, per il fatto di pensare un po’ a me. Non apertamente.
Quando in tasca ho più biglietti da visita di agenti immobiliari che biglietti della metro, lo sto rifacendo: cerco la svolta. Tipo una casa da abitare e affittare per metà, in una città che costruisce le case o per viverci o per farci i soldi. Di solito finisco per rinunciare e prendermi un gelato, in attesa di tempi migliori.
Ma intanto imparo molte cose sulla specie animale a cui appartengo.
Stavolta ho scoperto una cosa che già mi aveva segnalato Dostoevskij: anche un bigliettaio del treno si dà importanza per quel minimo di potere che ha. Se consideriamo che genere di biglietti ho in tasca in questi giorni, capirete chi altro abbia questo vizio.
E mi dispiace, perché so che tanti agenti immobiliari sono pagati uno schifo, e fomentati tipo i teleoperatori di Tutta la vita davanti. Mi fa tenerezza la bellissima tedesco-russa-rumena che mi fa le imboscate WhatsApp alle dieci di sera per vendermi un appartamento caro e impersonale, creato per farci i soldi e non per viverci. Mi verrebbe da “risolverle la vita”, come a volte mi viene in testa di fare, senza mai riuscirci ovviamente (però spesso procuro contatti e indirizzi utili).
Quello che non posso più ascrivere a coincidenza, invece, è il senso d’importanza che si danno quelli che operano in zone esclusive (Avinguda Diagonal,carrer Enric Granados…), dove, mi sono accorta ben presto, i soldi per svoltare non ce li ho. Può succedere che in un caso o due confonda la ragionevolezza con l’arroganza, se un agente respinge un’offerta con la frase “È pur sempre la Diagonal!” (purtroppo non so tradurgli il napoletano “e tiritittittì“). Ma m’incuriosisce il fatto che, per un appartamento accanto a Plaça Catalunya (cioè, caro e centralissimo), nell’arco di 24 ore abbia un architetto a illustrarmi gratis eventuali migliorie, e per un piano terra accanto alla Diagonal (con giardinetto, ma sempre un vascio) la responsabile che accompagna l’agente dichiari che chiamerebbero l’architetto “solo se fossi realmente interessata, perché è un pomeriggio di lavoro!”. Che il rispetto per il lavoro altrui sorga solo in simili situazioni? D’altronde, nel caso specifico, il… soldato semplice, al momento di salutarmi, mi ha trattenuto la mano e mi ha rivelato con curiosa confidenzialità che “i proprietari avevano rifiutato un’offerta più bassa”: insomma, mi era sembrato di tradurre, facessi pochi scherzi e pagassi subito, o lasciassi la casa a chi capisse il russo! Alcuni annunci in zona, infatti, sono unicamente in questa lingua. La domanda è: chi capisce il russo si compra forse un vascio, fosse anche sulla Diagonal?
Ovviamente non si parla di lotta tra poveri, ma ripenso a quel bigliettaio che si credeva chissà chi perché in quel momento, e solo allora, aveva qualcosa che gli altri volevano.
E di cui lui, badate bene, era solo custode e non padrone.
Avete presente tutti i film in cui qualcuno sta per compiere un passo decisivo nella sua vita e per un po’ cerca una via di fuga? In genere la più gettonata è il tentativo di “tornare al passato”, a prima di arrivare a quel bivio inquietante. Capita al quasi-trentenne de L’ultimo bacio, che sulla soglia del matrimonio finisce con una bella diciottenne a leggere Siddharta.
Quel film è esemplare di ciò che voglio dire, perché il protagonista alla fine non s’innamora della pischella, che incarna la sua fuga dall’età adulta. Ci si rifugia per paura dell’irreversibilità delle sue decisioni.
La paura, se ci pensiamo, è lo stesso motore che spinge Gwyneth Paltrow in Two lovers a fare una scelta uguale e contraria: rinunciare a una fuga “adulta” con Joaquin Phoenix, che vuole liberarsi come lei di una realtà soffocante, per tornare all’infelicità bohemienne che non la fa star bene, ma la fa sentire al sicuro. È quello che fa l’infelicità prolungata: ci fa sentire più sicuri di una felicità da costruire.
Ma per evitare dubbi su cosa io intenda per felicità, torniamo ai trentenni italiani di Muccino: mica le aspirazioni devono essere le stesse per tutti. Ci sono amici che davvero sono contenti a realizzare il loro sogno di ragazzi e partire in viaggio. Quindi “crescere” per me non vuol dire assumere modelli di comportamento tradizionali come un lavoro fisso e una famiglia stabile. Significa proprio avere il coraggio di seguire la propria aspirazione, che comporti un mutuo trentennale o l’apertura di un baretto sulla spiaggia. Seguire il corpo, sul serio, come è cambiato ora. Io ero più grossa a 25 che adesso, a 35, in più di un senso. E mi sto adeguando alle mie aspirazioni apparentemente più modeste di adesso.
Sono quelle che mi fanno star bene in questo momento. A 25 anni le avrei trovate insignificanti, ma allora ero molto insicura e dovevo dimostrare a me stessa di “saper” fare le cose. Saper vivere da sola, saper vincere una borsa di studio, saper… Adesso non ho bisogno di dimostrarmi niente. So che potrei farlo di nuovo, soprattutto so che, ci riesca o meno, sarò sempre io.
Credo che questo sia l’atteggiamento che mi faccia meglio, penso di essere in buona compagnia. Fare le cose non per sfidarmi continuamente, per colmare da fuori un’insicurezza che mi porto dentro, ma farle perché in questo momento, per gli studi che sto portando avanti (ancora!), per i lavori che comincio a fare, mi sembra la strada “naturale”, se qualcosa del genere esiste, il cammino che si disegna da solo quando in realtà ci stai lavorando su e bene.
Quindi, se finalmente riuscirò ad aprire quest’associazione che faccia da ponte tra culture diverse, non sarà per dimostrare a me stessa di esserne capace, ma perché in questo momento è la cosa più spontanea che mi venga da intraprendere, la conclusione più logica dei miei studi comparatistici e dell’impegno sociale degli ultimi anni. Finché non mi servirà da tappabuchi per l’ego, potrebbe addirittura funzionare.
E se dovesse fallire… Ragazzi, non sapete quanta roba stia cannibalizzando da imprese fallite. Non sono neanche sicura di poterle chiamare fallimenti, in realtà, ma da eventi riusciti così così ho ricavato conoscenze fantastiche, contatti di persone che un giorno potranno aiutarmi in qualcosa che possa riuscire bene. Soprattutto, quello che è stato un mezzo fallimento per me è stato un grande successo per altri. C’è l’associazione che partecipando a quel cineforum sotto la pioggia ha imparato a mettersi in gioco, oppure la mamma a tempo pieno che per offrire un premio a una riffa si è inventata un’attività artigianale da svolgere in casa.
Ecco, questo sì, ho imparato un criterio fondamentale quanto semplice per andare avanti: se le cose fluiscono, bene, se no, come si dice in spagnolo, otra cosa mariposa.
Una volta che si sta bene e si sa bene cosa si vuole, ci è anche più facile portare a termine i progetti.
Insomma, non si tratta di mollare tutto e tornare a un’adolescenza che non potremmo mai più avere (se il trentenne Accorsi fosse rimasto con MartinaStella, fantastico, ma sarebbe stato da trentenne con una diciottenne, non sarebbe venuta la fata di Cenerentola a togliergli gli anni). Si tratta di guardare avanti, partire da nuove esigenze e non da vecchi bisogni, andare perché aspiriamo a realizzare qualcosa che vogliamo sul serio, canalizzare un’energia che al momento ci mulina nello stomaco in attesa di essere (ben) impiegata.
Ecco, secondo me bisognerebbe partire sempre dall’energia e mai dalla fame. Stay hungry stay foolish lo raccomandi a qualcun altro, almeno nel mio caso.
Io mi sazio prima di tutto ciò che sono diventata, mi sorrido come una scema e allora, solo allora, attraverso la strada.
È da un po’ che sento amici che vogliono andarsene da Barcellona, o cambiare casa e lavoro, o lasciare l’Italia. Ma non ci provano sul serio.
Non ci riuscirebbero sicuro neanche se ci provassero, figurarsi a starsene lì, titubanti, sulla soglia di una vita che immaginano solo, senza avere il coraggio di inseguirla.
Anche io ho deciso di dedicare il mio tempo a scrivere, ma c’è sempre qualche altra cosa a distrarmi: un esame per ottenere qualche diploma, un’emergenza sedie alla sagra della Caciotta Fetecchia, un amico in difficoltà che deve proprio sfogarsi con me…
L’importante, sembra, è restare sempre sulla soglia di quello che si vuole fare, sospesi tra due mondi. Tra questo che non abbiamo ancora lasciato, e di questo passo non abbandoneremo mai, e un altro che però non rincorriamo sul serio. Ci limitiamo a renderci impossibile la vita di tutti i giorni, a rifiutare qualsiasi lavoro serio perché “tanto tra poco parto”. E non partire mai perché “non lavoro e non ho abbastanza soldi”.
Il peggio forse è quando dal nostro conflitto interno dipendono in qualche modo le scelte di altri, della fidanzata che vorrebbe sapere se partiamo o restiamo, dell’amico che ci propone di aprire il famoso bar sulla spiaggia, e intanto che ci decidiamo perde soci realmente interessati. E l’elenco proseguirebbe all’infinito.
Cosa otteniamo, restandocene sulla soglia? La certezza di non fallire. Affidando i nostri desideri alla botta di culo: il posto che si libera a Dresda o il Grande Amore della Nostra Vita che ci costringe a restare in loco per tutti i cinque minuti che durerà.
E se aspettiamo la botta di culo, siamo certi di non sbagliare mai: potrebbe venire come no, e intanto si vivacchia con questa mezza speranza, come i vecchietti al banco lotto catalano, che aspettano di vincere da quando erano giovani e capaci di cambiarsi la vita da soli.
E se invece di giocare con la sorte ci rispettassimo? Facciamoci la fatidica domanda: “Se fallissi, sarebbe questo grande problema?“.
No. Se falliamo facciamo un’altra cosa. O torniamo indietro e ricominciamo. Perfino quello sarebbe meglio di quest’inattività travestita da movimento.
Muoviamoci davvero. In una direzione o nell’altra.
Quando sentiamo di doverci muovere, non importa neanche quale strada prendiamo. Se siamo così indecisi, o le strade si equivalgono, o ce n’è una che abbiamo paura a prendere.
Ma anche prendendo quella sbagliata, prima o poi ci arriveremo.