mirrorVeramente avrei dovuto intitolarlo “Come ci vediamo”, questo pippone mentale che inizia con una domanda: cosa vediamo, davanti allo specchio, in una giornata proprio no?

A parte le considerazioni sul nuovo brufolo vicino alla bocca.

Come ci vediamo, sul serio?

Se la giornata è proprio nera, ci ricorderemo di essere “quello che non è riuscito a vincere il concorso”. Se è nerissima, ci sentiremo “quella che non riesce a farsi aumentare lo stipendio da due anni”. Se proprio è il caso di chiudere bottega e tornare a letto, saremo “quelli che hanno fallito in tutto”.

Be’, a prescindere da se lo siamo o no, pensiamo un momento a come ci vedono gli altri, invece, una volta usciti di casa.

Ci vedono assonnati, datemi retta. O malvestiti se sono snob, o un po’ sfigati se stiamo palesemente rimuginando sui rimpianti di cui sopra. Qualcuno che ha qualche problema con se stesso ci odierà senza motivo apparente. Qualcuno che ci guarda con insistenza sarà per noi un potenziale provolone o un critico efferato, e magari ci ha scambiato solo per l’insegnante di suo figlio.

Ma ok, qualsiasi cosa pensino di noi, che poi saranno fatti loro che a noi importano poco, qualsiasi cosa pensino difficilmente coinciderà con la definizione che ci siamo appena regalati allo specchio, in un momento di scoraggiamento.

Quello che voglio dire è: i nostri fallimenti ci definiscono perché lo decidiamo noi. Non sta a noi decidere quanto soffrirne e fino a quando. Ma pensare che la nostra vita sia determinata da quelli e noi siamo “quelli che non ce l’hanno fatta”, è un problema nostro.

Funziona così: ci incorniamo di riuscire a fare una cosa, senza contare i fattori che non dipendono da noi (i soliti: il caso e le decisioni altrui). Decidiamo inopinatamente che di tutto quello che siamo ci definisca proprio questo, il nostro progetto. Che succede, se non funziona? Che questa definizione arbitraria e riduttiva che ci siamo applicati diventa la nostra pietra tombale, la lapide che ci sentiamo quasi in dovere di portarci sempre dietro.

Eccoci quindi ad attraversare la strada pensandoci come “quelli eternamente innamorati” di qualcuno che, vi giuro, in quel momento starà pensando alle blatte di Lucrezia Borgia piuttosto che a noi (un saluto a Lucrezia, era per fare un esempio scemo). Ma no, noi ci dobbiamo definire a partire da quello. Qualche perversa legge interna creata da noi stessi lo sancisce.

Magari, girato l’angolo, arriviamo a un caffè in cui un tipo seduto a un tavolino non riesce a leggere l’inchiostro simpatico di “cuore infranto” e vede solo una persona che potrebbe interessargli. Oppure arriviamo al lavoro e la nuova responsabile venuta da fuori, senza i pregiudizi positivi o negativi di chi l’ha preceduta, vede in noi solo una tabula rasa da valutare.

A questo punto, entriamo in gioco noi. Che dobbiamo capire quando smettere di rifugiarci nella comoda etichetta di falliti e correre il rischio di essere qualcun altro.

Qualcuno che potrebbe non “fallire” (se di fallimento si tratta) la prossima volta. O fallire di nuovo, chi lo sa, ma imbarcarsi in qualcosa di più stimolante del dolore lento di chi non riesce a essere nient’altro che quello che non è stato.

Proviamo a toglierci sto tag da sfiga nera, allora, che se qualcosa dei nostri fallimenti trapela a prima vista è perché ci stanno affliggendo anche all’esterno. Ma il nostro corpo, vedi le persone in riabilitazione, è più svelto di noi a ricominciare, appena lo mettiamo nelle condizioni giuste.

Prendiamo esempio.

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