romeo and juliet claire danesSto scrivendo un libro che non è sulla mia adolescenza, ma con quella ci deve fare i conti.

Un bravo scrittore di qui, Sergi Pàmies, sostiene che il romanzo sia come una moglie: te la ritrovi ogni volta che torni a casa, a romperti le scatole. Tralasciando la sfumatura un po’ sessista, è vero che sono da giorni immersa nei miei quindici anni, tanto che vi raccomando: se mi vedete con quei collarini neri simil-tatuaggio, la fila in mezzo e la pancia da fuori (soprattutto la pancia da fuori), sopprimetemi.

Il fatto è che a parte questi dettagli vorrei parlare di un’adolescenza che non fosse solo mia, in cui si possano riconoscere anche altri. Ed è stato molto triste apprendere che, intanto che io ricordavo gli infantili “Voglio morire!” scarabocchiati sul diario, qualcuno ha deciso di uscire dal libro e farlo davvero, buttandosi sotto un treno vero, nella stazione reale che infesta eterea, un po’ minaccia e un po’ promessa, i miei fogli A4.

Dove inizia il mio romanzo, è finita la vita di un ragazzo in carne e ossa.

Immagino che il dolore cieco e sublime sia stato appannaggio dei nostri nipoti e cugini più piccoli. Tra i miei coetanei, invece, serpeggiava una certa indignazione. Per le manifestazioni di lutto che dovevano pullulare in bacheche facebook che non visualizzavo, o per la morbosità che spingeva dei giovani quasi scampati all’adolescenza sui binari di chi invece aveva deciso di tagliare corto.

O forse perché noi siamo sopravvissuti.

Perdonate l’enfasi, ma dalla Polaroid sfuocata che diventa la vita in paese, quando la guardi da lontano, non posso fare a meno di pensare a quando gli adolescenti eravamo noi. E di trovare sbagliato fare ciò che rimproveravamo ai nostri genitori: razionalizzare senza mettersi nei panni altrui, ridurre a parole di biasimo ciò che è pura irrazionalità, sorpresa, tristezza, a volte delusione infinita.

La mia adolescenza è stata quella di tanti altri ragazzi in paese, che si sono ritrovati guarda caso in classe con gente i cui genitori facessero mestieri simili. Con qualche professore che credesse di fare la lotta di classe insultando figli di papà tredicenni e venerando le “sezioni peggiori”. In genere erano professori sgrammaticati, finiti in cattedra in modi strani. Non avevano guadato la fluida barriera dell’italiano, questo spartiacque che vuol dire tutto in una società che ha rinnegato se stessa per non arrivare mai a essere altro.

A parte la pressione sociale da liceo classico, coi voti finali esposti e tutti a guardare quelli dei figli altrui, a parte l’epilogo con le telefonate di condoglianze per un 100 mancato di poco, a parte gli alberi genealogici sciorinati al solo accenno di un cognome a me nuovo, la mia adolescenza è stata come tante, migliore di altre.

È stata la scoperta della vita fuori casa, coi suoi pericoli gonfiati ad arte per tenere le ragazze rinchiuse (non me, per fortuna). La scoperta della libertà, con Napoli che improvvisamente sembrava l’Eldorado anche se intravista da Piazza Garibaldi. Perfino la sorpresa della diversità, con l’orgoglio di ammettere che Axel Rose mi fa cagare e il poeta che preferisco non è Jim Morrison, anzi, se mi fate incazzare vi rivelo perfino che mi piace Leopardi.

Soprattutto, la scoperta della delusione. La delusione d’amore, ovviamente, che ti fa concludere che più uno fa il Kurt Cobain della situazione e più si sparerà a 27 anni, perlopiù metaforicamente, per mettersi una giacca e una cravatta e andare a lavorare nello studio del padre. E il disprezzo lenito dal tempo per compagni che abbracciano una volta per tutte il detto dei genitori: “Se sei martello, batti, se sei incudine, statti”. E si stanno sempre.

Spero che ora insegnino ai loro figli anche a essere martello, ogni tanto, quando serve.

Intanto, alla nostra adolescenza, in un modo o nell’altro, siamo sopravvissuti.

Con chi l’attraversa ancora potremmo essere più indulgenti.

Potremmo ricordarci di quando, senza permetterci il lusso secchione di adottare Anna Karenina, quel treno l’abbiamo guardato anche noi, pensando quasi quasi…

Io invece di buttarmici sotto ci sono salita sopra. E non è partito davvero che quando ho imparato anche a restare.

Ma questa è un’altra storia.

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