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Canale.jpg Sbagliando s’impara, e io ho imparato a sbagliare. Questa è la lezione che mi porto dietro dal mio surreale, improbabile, mai noioso mese a Parigi.

Un mese in cui non ho visto nessuno di quelli che avrei potuto aspettarmi di vedere, ma in cui ho incontrato ben due volte la stessa persona, per puro caso, in due posti diversi.

Un mese in cui non ho fatto ciò che mi sarei aspettata di fare (partire col portafogli, ad esempio), ma in cui ho fatto cose che non mi sarei aspettata mai (come partire con un giorno di ritardo, e in quelle ore “regalate” dalla Vueling passare il mio miglior pomeriggio in città).

Sono ancora attonita, stupita, disgustata dai ben quattro casi d’inseguimento per strada, da parte di uomini che si credevano in diritto di farlo. Uno mi ha seguita con due compari fino al supermercato in cui mi ero rifugiata, un altro mi ha tampinato due volte all’altezza dello stesso ponte: la prima volta, a riprova di quanto sia stupido confondere lo stalking con un “omaggio” alla bellezza femminile, ha cominciato subito dopo a infastidire la tizia avanti a me. Non mi sorprende che qualcuno bolli ancora tutto questo come aneddotica. Sono invece addolorata dal fatto che, per le donne residenti che ho consultato in merito, fenomeni del genere siano considerati “la prassi”. Questo deve cambiare.

Sono ancora inquieta quando penso alle occasioni amene in cui mi ritrovavo improvvisamente circondata da soldati. Costeggiavano mitraglietta alla mano la panchina su cui mi permettevo un pranzo tardivo. Scendevano lentamente da un vecchio ponte proprio mentre alzavo gli occhi, e non sapevo interpretare quello che stavo vedendo… Poi mezzo Facebook mi ha chiesto se fossi sopravvissuta all’attentato di Barcellona, e almeno ho compreso il gioco perverso che ha portato a tutto questo.

Sono un po’ pentita, sì, delle ore morte. Di quelle che ho trascorso facendo qualcosa di diverso dal divertirmi o prendermi cura di me. È bello e importante dedicare tempo agli altri: almeno finché non scopriamo che per noi è un sacrificio e per loro cambia poco.

Sono contenta di aver visto una Parigi diversa da quella che giocoforza ho visitato nelle prime, lontanissime incursioni in città: vivere in un’altra città turistica mi ha resa sensibile a scoprire “dove vanno gli autoctoni”, senza prendere questa mia curiosità per un’ingannevole ricerca di autenticità. Purtroppo temo si possa sentire più parigino il mio amico italiano che ha trovato l’America in Francia, che il buttafuori figlio di ivoriani che spiega al telefono al suo supervisore: “Vuoi sapere quando sto di turno? Be’… Sempre!”.

Insomma, non ricorderò questo soggiorno per l’impareggiabile bellezza dei giorni trascorsi il più lontano possibile dalla Torre Eiffel: ricorderò di aver provato a ritagliarmi una vacanza per me, imperfetta, molto casalinga, deludente per gli incontri previsti e sorprendente per quelli fortuiti.

Una vacanza che mi ha fatto venir voglia di trovare il giusto mezzo tra il tempo che dedico agli altri e quello che regalo a me, sapendo che non vi è una reale differenza, ma che in un corpo fatto di carne e di sangue devono essere ben dosati.

È un’operazione che possiamo fare tutti, senza sbatterci ad arrivare fino a Parigi.

On commence.

Cominciamo.

(Fin)

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Sono quella al centro, prima della tintura.

Nel corso della Grande Guerra, un soldato italiano scambiava per spie dei commilitoni che, semplicemente, parlavano a voce bassa tra di loro. Il rapporto in cui denunciava l’accaduto (lo trovate qui, insieme a un resoconto più accurato della vicenda) conteneva almeno un paio di volte espressioni come “a me non la si fa”. Era furbo, il soldatino. E i tre accusati erano particolarmente sfigati: lungi dall’essere spie, rischiavano grazie a tanta astuzia il plotone di esecuzione.

Cento anni dopo, più modestamente, il vigilante di un supermercato su Avenue de Flandre scopriva un reperto sospetto nella borsa di una tizia di vostra conoscenza (oui, c’est moi). Si trattava di un pacchetto di gallette di riso. So che molti di voi mi sbatterebbero davanti a un plotone d’esecuzione per il solo fatto di mangiare quelle, ma ciò che interessava allo scrupoloso addetto alla sicurezza era la provenienza del pacco: vuoi vedere che l’avevo rubato nel negozio su cui vegliava?

Che fosse un tipo “accorto”, l’avevo notato fin dal mio ingresso nel negozio: si era messo alle calcagna della cliente entrata prima di me, che apparteneva a un’etnia spesso bollata come propensa ai furti (come quella di lui, d’altronde, e la mia, ma questa è un’altra storia).

Ma tanto io, ormai l’avrete capito da altri post, ero in cerca di una cosa sola: filo interdentale. E non l’avevo trovato neanche lì. Stavo dunque lasciando il negozio, quando mi ero sentita richiamare:

“Madame! Madame!”.

Tornando indietro dal mio detective preferito, avevo capito solo: “Votre sac”. Ok, la borsa. L’avevo aperta. Tatatataaan. Il pacco sospetto. Avevo mormorato nel mio francese spaventato: “L’ho comprato da Auchan“. Mi ero pure impappinata, dicendo “a Auchan”, quasi alla catalana, invece di “chez”. Ma tanto lui aveva capito solo “L’ho”.

Mi aveva, però, risparmiato la lezione di francese, e si era limitato ad ammonirmi: avrei dovuto mostrargli la borsa fin dal mio ingresso, per segnalargli il possibile equivoco. Peccato che nessuno dei supermercati visitati durante il soggiorno parigino prevedesse una norma simile. Anzi, mi avevano sorriso cerimoniosi anche quando ero entrata con lo scialletto d’ordinanza avvolto intorno alla borsa (particolare che, anni addietro, mi era valso addirittura una perquisizione della police nationale, convinta che nascondessi della droga).

Ero uscita dal supermercato con una strana sensazione: il tipo aveva fatto, come si suol dire, “nient’altro che il suo dovere”. Ma insomma, senza infrangere nessuna regola di quel genere di stabilimento (ero colpevole solo di avere una borsa capiente e di non aver comprato nulla) ero stata sospettata di furto ed esposta al rischio di una lunga trafila di spiegazioni. E tutta la documentazione che potessi offrire era la famosa denuncia, in catalano, del furto di portafogli e carte d’identità.

Una cosa simile (e la pianto con gli aneddoti) mi era capitata durante un mio ritorno a Napoli, nella sorta di bazaar-libreria al piano terra dell’aeroporto. Nel tentativo di infilare l’uscita per me più comoda, non mi ero resa conto che le porte che cercavo di aprire fossero bloccate. L’equivoco aveva attirato l’attenzione del proprietario, che mi aveva lanciato un’occhiata strana e si era incaricato personalmente di perquisirmi quando, uscendo dalla porta giusta, avevo inspiegabilmente provocato l’azionamento dell’allarme. Un allarme particolarmente sensibile, visto che ancora non avevo varcato davvero il metal detector. Ma qui rischio di passare per paranoica io.

“Questo libro…?” mi aveva chiesto il mio perquisitore, estraendo un testo dalla borsa.

“Questo libro è spagnolo” gli avevo fatto notare io.

Da lui avrei potuto rubare al massimo un’opera di Federico Moccia, ma ero pronta a giurargli che non avrei ceduto alla tentazione.

Allora mi aveva lasciata andare, ringraziandomi pure per la collaborazione.

Perché viviamo in altri tempi, rispetto a cento anni fa, i plotoni d’esecuzione sono sporadici e soprattutto virtuali (anche se non sempre, purtroppo).

Ma nella linea d’ombra tra “fare il nostro dovere” e peccare di eccesso di zelo, continuiamo a pensare, ogni tanto, “a me non la si fa”.

Non la si fa alla padrona di casa che, protestando di non essere razzista, dichiara di non affittare il suo appartamento “a stranieri”, almeno a quelli provenienti da “certi paesi”. Anche se mi piacerebbe mostrarle gli appartamenti devastati da suoi connazionali in cui, da studentessa, mi sono ritrovata a vivere.

Non la si fa nemmeno a chi ritiene che informarsi sulla nazionalità della mia ladra di portafogli sia determinante e cambi molto, per me: fosse stata una svedese, sarei rimasta certo con più gioia senza documenti e coi soldi contati!

Insomma, tutta questa gente a cui non la si fa, non la fa mai a nessuno?

Magari il problema è quello.

Chi la fa, l’aspetta.

E no, stavolta non ho sbagliato il congiuntivo.

(Continua)

 

 

Immagine correlata La lettera che aspettavo da Barcellona è arrivata, mi sento un’altra!

Sia per la sicurezza di avere nel nuovo, inguardabile portafogli una carta di credito che fino a qualche giorno fa stava viaggiando senza di me, che per il passaporto che finalmente posso mostrare in situazioni come quella dell’altra sera, dietro Père-Lachaise: per un equivoco una volante stava fermando me e un amico, e mi ero resa conto che tutto quello che avessi da offrire, in termini di documenti, fosse una denuncia di furto scritta in catalano.

Almeno quella sera ero rimasta lontana dalla serie che stavo guardando sempre più spesso, in attesa della lettera: Poldark. Megaepopea basata su una popolare saga inglese, e sgamata su Netflix quando mi ero rassegnata al fatto che le serie francesi non mi sembrassero particolarmente ben recitate.

In una settecentesca Cornovaglia rurale, che è la vera delizia della serie, vive e rischia la vita il carismatico protagonista, il capitano inglese Ross Poldark, reduce di guerra, contrabbandiere a tempo perso, minatore fallito a tempo pieno.

Ross torna dalla guerra d’indipendenza americana (in cui lui lottava, per sua stessa ammissione, dal lato sbagliato), per ritrovarsi il padre morto, la fattoria di famiglia distrutta dall’incuria, e la “fidanzatina”, Elizabeth, in procinto di sposare suo cugino Francis, il Poldark ricco.

Al di là del tema caro agli espatriati del “ritorno” a una terra che non ci riconosce, la parte della serie che più mi appassiona è il conflitto interno di Ross tra l’amore idealizzato per Elizabeth e quello reale e quotidiano, prosaico e a tratti sublime, per Demelza, sguattera sposata per anticonformismo e capriccio che finisce, però, per diventare la sua “padrona”. A dire di Ross, almeno. Perché Demelza viene data spesso per scontata, condannata a rimediare alle sregolatezze del marito scapestrato, mentre l’algida amata di sempre non ha bisogno di sporcarsi le manine guantate, per far sì che Ross torni costantemente da lei.

Una situazione in cui mi sono trovata più di una volta, e non credo di essere l’unica.

Nonostante questo, be’, mi sono resa conto che almeno sullo schermo, almeno stavolta, io tifo Elisabeth.

Per una volta, almeno nella fiction, almeno nell’agosto parigino senza soldi che mi è toccato a inizio vacanza, fatemi empatizzare con gli amanti falliti. Fatemi illudere del fatto che, se Ross e Demelza hanno tutte quelle crisi di coppia, quelle divergenze così realistiche che li portano a separarsi e unirsi a più riprese, è solo perché “Ross non sta con la sua anima gemella”.

Così facile, così risolutivo. E così azzardato: o tutto o niente.

O sto con la mia dolce metà oppure arriverò anche a essere felice, ma mai in modo completo.

E in questa parentesi agostana surreale, questa favola sempre uguale ci voleva proprio.

Tornerò presto alla realtà, alla decostruzione dell’amore romantico che qualcuno fa meglio di me. Tornerò al lavoro quotidiano che è la vita di coppia e alla certezza, se posso essere certa di qualcosa, che non esistano amori veri o falsi, solo amori che ci vadano bene e altri che ci facciano male.

Ma la principale regola per distruggere i vecchi regimi, le dittature del pensiero che chiamiamo quotidianità, è sentirne tutto il fascino, il motivo per cui, letteralmente, ci avvincono.

Solo quando avremo ammesso questo, invece di lasciarlo nell’ombra dei nostri desideri, potremo congedarcene con gioia e tenerci quello che abbiamo.

E questo scapestrato eroe di campagna, che sogna Elizabeth ma sa che è da Demelza che deve tornare, l’ha capito un istante, e trecento anni, prima di me.

(Continua)

Non mi soffermerò qui sui due stalker incontrati nell’arco di 24 ore nello stesso punto in cui mi avevano seguita la prima volta, o sul gruppo di adolescenti che, dopo avermi lanciato versi poco originali, ha cambiato strada apposta per entrare nel supermercato in cui mi ero rifugiata. C’è chi bolla tutto questo come aneddotica a rischio di generalizzazioni. C’è chi invece la trova anzi un indizio di mentalità nordica, più diretta, più aperta.

Curiosamente, sono persone a cui tutto ciò non succederebbe.

Dirò invece che sul Quai de la Marne, se sei donna, è difficile sedersi senza che nessuno ti interrompa, pretendendo un sorriso disponibile in cambio di qualche complimento scontato.

È una legge non scritta che, messa in pratica, mi fa quasi specchiare nelle acque torbide del canale a controllare che non abbia vent’anni di meno, la maglietta alzata sull’ombelico e le Palladium ai piedi, come ai tempi delle “postegge” della mia adolescenza paesana.

Ma io leggo lo stesso, un Flaubert particolarmente verboso a cui ho dato un ultimatum di venti pagine per far succedere qualcosa, o lo rimpiazzo con un best-seller inglese. Sembra aver raccolto la sfida.

Col più curioso dei disturbatori è andata così.

Sedendomi sul canale mi ero ritrovata le formiche sotto i piedi, e un’erbaccia proprio dove volevo poggiare la schiena. Non era colpa né delle une né dell’altra, l’intrusa ero io. Così, dopo pochi secondi, mi sono alzata di scatto.

A questo punto è arrivato lui, l’uomo del poncho: indossava infatti un tabarro color caffelatte, più scuro della sua pelle e lanoso quanto i suoi capelli, sistemati dietro le orecchie in un carré disordinato.

“Devo dirglielo, signorina” traduco dal suo francese, “l’ho vista lì alzarsi subito e ho pensato ‘questa ragazza è triste, è esasperata, c’è qualcosa che la rende così, mi dispiace e voglio andare a dirle con tutto il mio cuore che non deve preoccuparsi…’ “.

“Ma no, sono felice” ho ammesso a lui, e a me stessa.

Se c’è qualcosa che adoro delle lingue che conosciamo poco, è che ci obbligano a essere semplici. Si dice che le parole forgino il nostro modo di pensare. Ebbene, quando ci mancano quelle, potrebbe succedere il contrario.

E potremmo esagerare usando una parola come “felicità”, che magari nella nostra lingua scomoderemmo solo (a ragione o a torto) per brevi attimi di piacere. O potremmo star dicendo una grande verità, che le vie del pensiero che battiamo ogni giorno non riescono a raggiungere.

Sì, sono felice. Ho dei pensieri, non è un periodo ideale. Ma in fondo, sono felice.

“Mi fa piacere saperlo” ha commentato il tizio, in realtà un po’ deluso dalla scarsa chiaroveggenza, ma contento delle due frasi che è riuscito a spuntarmi prima che me ne andassi. Per quel giorno infatti ero stanca di battaglie senza gloria, che non dovrei neanche stare a combattere.

Incamminandomi su Rue de Crimée per vedere se da Franprix avessero del filo interdentale (non ce l’hanno), mi sono chiesta nell’aria tiepida della serata perfetta se il mondo non potesse essere semplice come le parole che perdiamo. Quelle che non sappiamo tradurre, e allora ci costringiamo a essere onesti con noi stessi e con gli altri.

Sta’ a vedere che non è malaccio, perderle ogni tanto.

Pensate a chi spreca tante di quelle occasioni per tacere.

(Continua)

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Si scherza, eh…

Riassunto delle puntate precedenti: derubata di portafogli e documenti proprio sul predellino della navetta per l’Aeroport del Prat, la nostra antieroina diretta a Parigi scopre un quartiere multietnico e relativamente poco turistico, mentre, intrattenuta da incontri inaspettati, attende l’arrivo di passaporto e (nuova) carta di credito.

Lo ammetto, lo scoglio principale è stato l’impotenza. Il fatto che niente al mondo, neanche l’intervento di Mago Mariano, avrebbe portato qualcuno a entrare in casa mia e avviare le pratiche necessarie a recuperare il maltolto. Ho dovuto aspettare il ritorno del mio ragazzo, e adesso, dal balcone, tengo d’occhio il cancello sperando di scorgere il postino.

In ogni caso, mi è andata bene: coi soldi sfuggiti alla mia ladra preferita ho un budget di circa 12 euro al giorno. Considerando che l’alloggio è pagato ed è in un appartamento con cucina, non sono affatto pochi. Anche per questo ho rifiutato le offerte di genitori e amici impietositi, che ringrazio qui ufficialmente!

Ricambio condividendo gli accorgimenti che ho adottato finora per restare con qualcosa in tasca fino all’ultimo giorno.

  1. Organizziamoci! Leggo tanti post su Facebook, tipo: “Siamo rimasti senza stanza, aiuto, dove possiamo andare a dormire?”. Insomma, qualcuno deve aver preso un aereo (magari last minute) per Barcellona o Parigi, pensando di trovare stanza sul posto. Se ci va male, però, al terzo giorno passato all’addiaccio finiamo per pagare una fortuna l’unica stanza libera in pieno centro, e addio risparmio. Partiamo almeno con un piano B (una mappa dei campeggi, per esempio, o l’indirizzo dell’amico di un amico disposto a farsi “usare” come ultima ratio).
  2. Spendiamo soldi! Ma solo quando ne vale la pena. Siamo al terzo panino preso al volo accanto alla Torre Eiffel o sotto la Sagrada? Con gli stessi soldi mangiamo un menù fisso giornaliero a Barcellona, e almeno un piatto a Parigi. Per uno spuntino salutare, meglio comprare una forma di pane intera, e del companatico in un negozio di alimentari di qualità: ci avanzerà qualcosa per domani. E pensiamoci due volte, prima di razziare i negozi di souvenir tutti uguali. Non è meglio comprare in un supermercato una salsa romesco o della senape all’antica? O biscotti e altre specialità locali. Una dritta, poi, sulle immagini di tori in rappresentanza di Barcellona: ma anche, proprio, davvero, no.
  3. Spendiamo molti soldi! Ma solo all’inizio. I primissimi giorni, specie se abbiamo il “lusso” di una cucina, meglio investire in alimenti e utensili che potrebbero aiutarci tutta la vacanza: contenitori tupperware, stagnola, legumi, verdure fresche prese in mercati non turistici… Non facciamo come i ragazzetti appena atterrati che investono mezzo budget in salsette Knorr o “beicon” in vaschetta, per un’unica carbonara insapore. E i succhi e frullati fatti da noi surclasseranno gli “smoothie” a 4 o 6 euro, magari ottenuti inserendo una zucchina in un estrattore a freddo.
  4. … Ma la parola d’ordine è: multifunzione! Non avete idea delle tagliatelle che sto facendo con una bottiglia vuota di limoncello al posto del mattarello! Senza eccedere in spilorceria, se un oggetto si può rimpiazzare del tutto, inutile comprare. Per esempio, pensiamo davvero che la differenza tra rasoi per lui e per lei giustifichi la differenza di prezzo?
  5. Scopriamo quante cose sono gratis! Senza scadere nell’ovvio (tramonti, passeggiate in riva al mare ecc.), pensiamo alle spiagge sui moli di Parigi, ai festival di cinema al parco… A Barcellona troviamo proiezioni sia al mare che… in montagna, senza dimenticare le feste di quartiere. E con tutta questa confusione sul roaming, non vi dico l’utilità strategica del Wifi nei luoghi pubblici! Quando ci capita, facciamo screenshot a volontà e avremo la mappa della città tutto il tempo.
  6. Oculatezza! Meglio un frullatorino cinese a 17 euro oggi, o cercare un grande magazzino domani? Io ho scelto la seconda e ho risparmiato 7 euro. Stessa ratio per la sciarpetta che ho preso spinta dai 15 gradi di sabato scorso: meglio puntare 10 euro su un nero pesante e passepartout, col foulard di lino ricamato da 17 euro ci vediamo quando mi arriva la carta! Non dico di restarcene lì tenendo lo spazzolino tipo teschio di Amleto, a chiederci “Comprare o non comprare?”, ma a volte meglio pazientare un po’ e superare i luoghi comuni: alla fine ho speso meno spostandomi nel costoso centro di Parigi! E a proposito…
  7. Ma ‘ndo vai? Attenzione a non spendere il doppio in spostamenti, credendo di risparmiare. E non parlo della T10 barcellonese, che non ha limiti temporali e, specie se si è almeno in due, si rivela sempre utile. Ma ci conviene davvero investire nei costosi biglietti a tempo limitato? Dipende! A seconda dei nostri ritmi e percorsi preferiti, finiamo per scoprire che i posti che vogliamo vedere sono a breve distanza l’uno dall’altro, o non visiteremo tutto nel periodo previsto dalla nostra offerta. Insomma, disegniamo la vacanza intorno a noi, e non viceversa.
  8. Diamoci alla pazza gioia! Almeno una volta. Come chi fa la dieta e un giorno a settimana può mangiare quello che vuole, ci meritiamo il nostro momento “senza badare a spese”. Che non significa dare fondo al portafogli: per limitare i danni, nell’uscire portiamoci l’esatto importo che possiamo sperperare in minchiate, senza rischiare di non poterci neanche comprare il biglietto della navetta per il ritorno.

Sperando che la prossima vacanza non ce la facciamo più con le pezze a culo!

E scusate il francese, eh.

(Continua)

 

(Mai come stavolta… La Bohème :p )

 

 

Immagine correlata Indiano lui, tunisina lei.

Ci compro i legumi e il riso che mi semplificheranno i prossimi giorni senza carta di credito. È la seconda volta che entro nel loro negozio di alimentari, mi considerano una cliente fissa.

“Che paese?” mi chiede lui.

Bello capirsi tra gente che non sa parlare la stessa lingua.

“Italia”.

Ci pensa, come un bambino interrogato in geografia. Poi s’illumina.

“Ah! Sonia Gandhi! La conosce? È italiana!”.

Bisogna vedere se Sonia Gandhi sia d’accordo, a questo punto.

E non saprei come dire al mio ex pakistano che gli “odiati” indiani fanno il suo stesso e identico gesto con le mani, una sorta di OK convinto, per dire: “È proprio la meglio femmina del pianeta!”.

La moglie fa di più: mi ringrazia nell’italiano che ha imparato seguendo Antonella Clerici ne La prova del cuoco. E poi:

“Conosce Sofia Loren? In Tunisia è famosissima. Aveva pure una casa, nel paese. Oh, Sofia…”.

E fa anche lei un suo gesto, come per dire: “Divina”.

“Sì, ho presente” sorrido.

Non sono le uniche cose curiose, che mi sono capitate in una settimana a Parigi. C’è il tipo arabo che mi ha chiesto informazioni in inglese, per poi cacciare un perfetto accento palermitano e dire: “Io sono di Sicilia“.

C’è la signora che mi ha gridato addosso perché sbocconcellavo una baguette per strada.

Mi accorgo inoltre che i soldi li do in modo strano, seguendo i complicati calcoli matematici dei numeri francesi. Se mi dicono 70 centesimi (soixante-dix), ma ho una moneta da 50 e un’altra da 20, vado in crisi.

Poi ho scoperto che “Belle et naturelle” sarebbe un complimento, nell’intenzione dei provoloni da strada che non mi ritengano “magnifique”, “ravissante” o semplicemente “jolie”. In mancanza d’altro, posso contare tipo scalpi indiani il numero dei “la” dedicatimi in “Oh la la la la la la”. Un giorno spiegherò meglio perché mi aspettassi qualcosa di più, dal paese di Simone de Beauvoir.

Poi ho notato due cose: non me ne frega niente, stavolta, di Montmartre, Quartiere Latino ecc. Li ho visti e rivisti. Voglio vivere il bel quartiere in cui sto come vivrei Barcellona, ma fuori contesto. Per vedere quanto di me sia determinato dai mobili che mi circondano, le abitudini, le ore fisse a cui uscire e rientrare.

Quante cose mi definiscono solo per la routine che ho organizzato intorno alla mia vita di sempre?

Facciamo insieme quest’esercizio: scopriamolo.

Scopriamo se si può vivere fuori dalla nostra zona di conforto, e farlo pienamente, invece che spaventati, preoccupati, aggrappati al nostro mondo di sempre come se fosse l’unico possibile.

Quando passerete dal kebabbaro sotto da me, non ve la prendete se lui passerà subito all’inglese, ascoltando la vostra pronuncia di “pain”. Tanto “moutarde” lo capirà, vi metterà quella sulle patatine, al posto della maionese.

Io alla commessa che mi chiede scusa per un qualcosa che non capisco risponderò comunque: “C’est pas grave”.

E, nove su dieci, avrò anche ragione.

(Continua)