Ce lo chiede Amia Srinivasan nella sua raccolta di saggi che prende il nome dal testo più acclamato: Il diritto al sesso (pubblicato da Rizzoli nel 2022).

Del libro mi piace il fatto che l’autrice, con un rigore dialettico che (lo dico?) a volte mi pare addirittura pilatesco, pone più domande che risposte su tematiche importanti per il femminismo, specie nella sua corrente intersezionale.

C’è questo saggio in cui Srinivasan, che tra le altre cose tiene seminari sul porno, discute con la sua classe di over 18 del rapporto tra il porno stesso e la cultura dello stupro.

Eppure era iniziata così bene: negli anni ’60, la pornografia si presentava come un inno alla libertà sessuale, finché non è stato chiaro che sembrava perlopiù ignorare, se non reprimere, il piacere di un… genere a caso! (Il mio). Il contrasto di visioni è evidente anche nella Spagna polarizzata tra pasionarie e nostalgici del franchismo: molti anni fa, mentre vedevo un film spagnolo che celebrava il destape post-franchista, sentii mezza sala sussultare davanti alle comprensibili rimostranze di una giornalista, che sullo schermo criticava i film soft porno e l’immagine subordinata che davano delle donne. Poi capii l’ilarità generale: la giornalista era interpretata da un’attrice resa famosa proprio da quei film!

Srinivasan osserva laconicamente che la questione sul proibire o meno il porno è stata risolta da Internet: stiamo ancora a illuderci che ci riusciremo?

Pensiamo piuttosto alla domanda che poneva la giornalista polemica del film, anche se poi era l’Edvige Fenech de nosotros: è liberazione un’immagine del sesso che non tenga conto del desiderio femminile? A questa domanda, una mia conterronea molto orgogliosa delle sue origini magnogreche ci illuminava sull’etimologia della parola porno, che secondo lei ignoravamo, e sosteneva che era ovvio che l’industria in questione fosse al servizio del piacere maschile. Si sentiva molto “avanti”, in questo postulare che il piacere di un uomo etero dovesse prescindere da quello femminile, se non sopraffarlo. A suo modo era avanti sul serio: è stata precorritrice di articoli imbarazzanti e delle loro ignave esegesi.

Il fatto è che a un certo punto ci si è chieste se il porno si limitasse a descrivere immaginari maschili, o li creasse: la seconda che hai detto, rispondeva Catharine MacKinnon nel 1993. La subordinazione delle donne viene erotizzata, dunque resa reale. “La pornografia è la teoria, lo stupro la pratica” dichiarava Robin Morgan già nel 1974.

Non vi dico alcune femministe nere: ah beh, siamo di nuovo alla Venere ottentotta, all’esibizione delle schiave al mercato? All’anima della rivoluzione del piacere! Aiutami a sbadigliare.

Ma ancora una volta non è così semplice: secondo Jennifer Nash, la rappresentanza nel porno di donne nere fa della loro condizione “un locus di piacere ed eccitazione sessuale”, sia per lo spettatore bianco che per la spettatrice nera (un discorso portato avanti anche da Leslie Green a proposito del porno gay). E poi la mancata rappresentatività nel porno può diventare un ulteriore segno di oppressione: la scarsità di native americane o donne dalit non significa certo che queste categorie se la passino benissimo! Allora mi sono ricordata di quando cercavo su Google il significato del termine Beurette, trovato in una serie francese, ed era venuta fuori una profusione di video porno! Non avevo neanche dovuto cliccare per capire si trattasse di donne arabe, un feticcio dei cugini d’Oltralpe che magari di mattina le consideravano “poco francesi” e arretrate. Però Srinivasan, che è di origini indiane, si chiede: perché devo assistere alla sottomissione sessuale di una persona che mi somiglia, per sapere di essere desiderabile? Quando si appartiene a una categoria discriminata, non bisogna scambiare il dover scendere a compromessi per un segno di emancipazione!

Invece le sex-positive, come le abbiamo chiamate in tempi recenti, insistono sul diritto delle donne al proprio piacere, che sì, può passare anche per il porno mainstream.

Come la pensa la classe interpellata dall’autrice, una congerie di over 18 che è cresciuta a pane e Internet? Sorpresa: sposano in pieno le motivazioni delle abolizioniste! Sì, il porno non descrive solo l’oggettivazione delle donne, ma aiuta a realizzarla. E sì, rende più difficile per le donne dire di no, e per gli uomini “dare ascolto a queste proteste”. Il porno femminista? “Mica guardiamo quello” commenta uno studente (d’altronde, osserva Srinivasan, non è quasi mai gratuito e non può essere certo usato nell’ora di educazione sessuale). Ai ragazzi annoia (!) la performance trita e ritrita che esclude ogni reciprocità e azzera del tutto quella roba lì, l’aff… affett… Niente, devi fare solo il trapano vivente. Non si potrebbe cambiare copione, ogni tanto?

Avoja, rispondono le studentesse, ma se nessuno ti parla di sesso impari “studiando” i porno, apprendendo un copione in cui il tuo piacere non è mai il punto focale: al massimo serve a dimostrare al macho che ci sa fare.

Insomma, per la prima generazione “formatasi” guardando porno, c’è un copione che non detta solo gesti e movimenti, ma anche “lo stato d’animo appropriato, i desideri appropriati, l’appropriata distribuzione del potere”.

L’obiezione sarebbe: il porno è una forma di intrattenimento, se adolescenti a digiuno di informazioni lo prendono per un’autorità, di chi è la colpa? La pornostar Stoya punta il dito contro il sistema americano di educazione sessuale, che brillando per la sua assenza ha trasformato lei nell’autorità che non ha mai preteso di essere (al lavoro sessuale è dedicato un complesso saggio a parte nel volume).

D’altronde, avverte Srinivasan, attenzione a non fare il gioco dei conservatori, dei loro appelli a “preservare l’innocenza” di un’infanzia slegata dal mondo adulto che non è mai esistita, che diventa anch’essa una fantasia: “Ai miei tempi…”. Quei tempi lì non sono mai esistiti, Donald. E comunque non ha senso credere che le nuove, ultraconnesse generazioni siano sprovvedute come lo saresti stato tu, negli anni ’60. L’autrice sembra molto determinata ad apprezzare lo spirito critico della sua classe o della GenZ in generale, e cita esempi di ribellione aperta a presidi e insegnanti che cercavano di colpevolizzare le vittime di stupro nei campus, criticandone l’abbigliamento.

Il discorso dunque non è bianco o nero: come avviene (spoiler) per il lavoro sessuale, ciò che in realtà sostengono diverse femministe pro-porno non è che il porno sia ‘sta favola da preservare, ma che è inutile legislarci contro in un mondo in cui ogni tentativo di mettere paletti è stato strumentalizzato per colpire le minoranze sessuali, o rafforzare, in nome di un femminismo bianco egemonico, la differenza tra “donne rispettabili” e prostitute.

“Qualsiasi cosa dica la legge, il porno sarà realizzato, comprato e venduto. Ciò che dovrebbe interessare di più alle femministe non è ciò che la legge dice del porno, ma ciò che la legge fa per le donne che ci lavorano”.

E insistere sull’educazione sessuale, come fa anche la classe “GenZ” dell’autrice. I genitori che vi si oppongono, rivendicando il diritto di istruire i propri figli sull’argomento, ignorano la semplice realtà che i figli in questione “vengono già istruiti in materia di sesso, e non da loro”.

Basterà l’educazione sessuale a cambiare immaginari dettati da vere e proprie multinazionali (vedi PornHub), e da un algoritmo che arriva perfino a penalizzare le attrici dai 23 ai 30, perché non rientrano né nella categoria MILF né in quella teen?

La tanto agognata educazione sessuale, dunque, non dovrebbe presentare “una via alternativa” al porno mainstream, insegnandoci cosa dovrebbe piacerci e cosa no, ma dovrebbe promuovere uno spirito critico e, soprattutto, l’immaginazione che algoritmi e stereotipi consolidati hanno sottratto alle generazioni precedenti.

Già che ci sono, termino qui i commenti sul libro e vi appioppo un aneddoto finale sugli immaginari sessuali.

Tempo fa ho commentato una cosa tipo “Preferirei che non parlassi anche a nome mio” sulla pagina Facebook di una nota fumettista, che scherzando presentava una fantasia di sottomissione (“quando mi faccio sbattere”) come qualcosa di comune a tutte le donne. Allora una persona non binaria mi faceva sapere che a sua volta adorava “farsi sbattere”, ma non veniva a rompere “le palle” a me se non condividevo i suoi gusti! Nella replica, consapevole del mio privilegio cis (la fumettista è trans), ho spiegato che chiunque poteva fare ciò che voleva, ma la reverse logic (cioè, rigirare la frittata) non funzionava su un argomento per cui tante donne sono stufe di fingere orgasmi su fantasie di questo genere, che evidentemente non funzionano in maniera universale, e se sono cis scoprono quanto la penetrazione sia un di più e mai “il punto” (e non mi riferivo certo al mito del punto G, pure costruito intorno al piacere maschile). Quindi dicevo solo: in materia di fantasie, sesso, e a questo punto anche di porno, cerchiamo di non parlare per “tutte”, come recitava il post originale benché usasse un tono ironico. E mi permettevo di consigliare un libro ad hoc.

Indovinate quale? Il diritto al sesso, ovvio!

Leggetelo anche voi.