Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per motivi di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Stay hungry

È buio e ho fame.

Ho trentun anni e molti amici invidiosi, perché vivo a Barcellona: cerveza, sangría, fiesta… Beata te, mi dicono.

Rispondo che ho perso il lavoro insieme a tutto il mio dipartimento. Nel licenziarmi, il manager belga mi ha confessato che suo padre era stato un ricercatore in materie umanistiche, come me. Insomma, gli facevo un po’ pena.

Adesso è novembre, io prendo un sussidio e Steve Jobs è morto da un anno. Da un anno circola un suo discorso all’università di Stanford: “Stay hungry, stay foolish”.

Io però non so bene di cosa ho fame.

Forse stasera, mentre girovago intorno alla Rambla, mi mancano un po’ gli gnocchi sfatti. Il nonno li amava stracotti, e le donne di casa glieli preparavano così. A un certo punto mi era sembrato assurdo: l’amore doveva significare per forza adattarsi alla volontà di qualcun altro?

Alla fine approdo al bar sozzo, l’ultima spiaggia prima di tornare a casa. Ovviamente li trovo lì: i superstiti di una riunione a cui non ho partecipato. Frequento poco lo spazio artistico lì a due passi, che gli altri espatriati chiamano semplicemente “lo Spazio”. Un po’ mi incazzo pure: non dovevano venire al concerto dell’Absenta?

“Quel locale è il passato”.

Il Figo si deve già reggere al bancone, da quanto ha bevuto. Che non abbia ottenuto la promozione al lavoro? Siamo strani, noi. Ci siamo lasciati dietro il precariato italiano per un’illusione di indipendenza, e a vent’anni funzionava: i cugini rimasti in Italia vivevano ancora con mamma e papà. Adesso i cugini iniziano a “sistemarsi” e noi siamo ancora nei call center, o in fila nelle segreterie di facoltà.

Ordino una birra e supplico la cameriera: “Puoi aggiungerci delle patatine?”. A quest’ora non le sarà rimasta neanche un’oliva. Accanto al bancone, un sessantenne con un cappellino da baseball sta facendo ridere una biondina alticcia. È osservando la strana coppia che intravedo lui.

Appollaiato nell’angolo tra il bancone e la parete, Bruno contempla la biondina come farebbe con un rebus. Per un momento mi sembra vicino alla soluzione.

Forse è per questo che non mi ha vista né sentita, mentre salutavo gli altri. Il sessantenne sta snocciolando una barzelletta dietro l’altra, e la biondina degna quelle battute ammuffite di una risatina ubriaca. Quando si sarà stancata, si alzerà per conto suo e se ne andrà. Vero?

Capisco al terzo sorso di birra che Bruno è invidioso. Vorrebbe essere lui il sessantenne sfacciato, alzarsi dallo sgabello e farla ridere.

Invece segue con gli occhi l’orbita descritta dal piatto di patatine che mi approda davanti. Solo a quel punto incrocia il mio sguardo.

Allora si rizza sullo sgabello e mi punta un dito addosso, scandendo entusiasta il mio nome. Lo fa ogni volta, come se mi battezzasse. Non importa che io sia senza cappotto, che abbia vuotato metà birra.

Per lui inizio a esistere nel momento in cui mi vede.

Per il seguito, a venerdì!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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E invece va pubblicato sul blog. Non è un romanzo, come credevo. È al blog che appartiene il resoconto della mia relazione più “tossica”: al blog che l’ha seguita in diretta e mi ha aiutato a tirarmene fuori.

A partire da oggi, primo giorno di primavera, pubblicherò un estratto dal mio manoscritto Fame. Lo farò ogni lunedì, mercoledì e venerdì.

Sì, ok, lo stica**i ci sta tutto. Ma se vi va di onorarmi della vostra presenza, qua sto!

Storia di un incontro

Per prima cosa, respira.

Lascia perdere la musica, lascia che ti invada. Tanto lo farà comunque.

She’s touching his chest now

He takes off her dress now

L’importante è che l’immagine ti trovi pronta. Sì, lei gli ha toccato il petto a un certo punto, e lui le avrà di certo tolto il vestito, anche se dalle foto che hai spiato su Facebook lei sembrava molto in fissa coi multitasche anni ’90…

Vabbè, mica sei qui per giudicare. Sei qui per avere un attacco di panico.

Jealousy turning saints into the sea

Adesso fai un respiro, e torna a casa. La canzone è un ricordo. Lui è un ricordo.

E insieme a lui e al pozzo in cui ti ha ficcata hai trovato anche la strada per arrivare fin qua.

Questa non è la storia dell’incontro con lui.

È la storia dell’incontro con la parte di te che sa la strada.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Un altro maschio di casa che vuole la mia gonna!

Il mio coinquilino mi stava fregando una gonna.

Stavamo scherzando sull’idea di iscrivermi a un corso di uncinetto, e ho deciso che era giunto il momento di mostrargli il mio segreto: la mia prima gonna di filo, confezionata secoli fa! È stata pure l’ultima, con la sua caterva di punti sbagliati. Però spaccavano, quei fiorellini color turchese con un bottone a fare da pistillo. L’avevo indossata una volta o due, poi mi ero arresa al fatto che fosse scomoda, e mi ero dedicata a scrivere romanzi.

Di fronte alla rivelazione, il coinquilino ha insinuato che la gonna fosse troppo stretta per andarmi bene. Quando l’ho smentito indossandola addirittura sui pantaloni, l’ha voluta provare lui! E sì, per me gli stava benissimo. Mi piace come cadono le gonne strette su certi corpi maschili. Il bello, però, è arrivato quando mi ha spiegato che la trovava “liberatoria”, per il frescolino sulle cosce, e mi ha chiesto: “Secondo te potrei indossarla domani, per uscire?”.

Ho valutato la domanda, e in quel momento è successo. L’oggetto “gonna” ha cambiato significato.

Per esempio: per ovvi motivi, a un uomo cis la stoffa non cade del tutto liscia sul davanti. Dovevamo decidere se minimizzare la cosa o lasciarla così, e da quel momento le nostre linee di pensiero si sono separate del tutto. Anche perché la soluzione da me proposta (indossare boxer coordinati) ha scoperchiato di nuovo il vaso di Pandora.

Dovete sapere che giorni fa, incapace di dire “slip sgambato” in inglese, gli ho comunicato che lui usava mutande “tipo quelle da donna”, e lui mi ha subissato di domande! Mi mostrava perfino gli ultimi acquisti: erano da donna? Non capivo. Aveva un appuntamento galante e temeva una figuraccia? Oppure aveva paura che l’ultima spesa da Tezenis fosse avvenuta nel reparto sbagliato? La seconda che ho detto, giura ancora lui. Ignora che nella calza della Befana troverà quattro capi “non sgambati” di Intimissimi Uomo (uno mi è stato dato in omaggio): è un regalo che faccio soprattutto a me stessa, per non doverlo più stare a sentire!

E invece eccolo lì che voleva indossare una gonna, e la vera differenza tra noi riguardava le priorità. Io gli ho sventagliato tutti i trucchi per esporre “solo i centimetri necessari”, appresi in un’adolescenza costellata di pantaloncini sotto le minigonne. Lui non mi seguiva: perché avevo tutta questa urgenza di fargli coprire il corpo? Quello che gli interessava era capire come “funzionasse” una gonna, oggetto a lui familiare, ma quasi proibito: per questo chiedeva le istruzioni per l’uso.

Per un momento ho provato invidia, e non per la “sporgenza” da nascondere, con buona pace di Freud, ma per uno che non capisce perché la mia priorità, quando indosso un capo corto, sia minimizzarne l’effetto vedo non vedo. D’altronde per lui era stato impensabile indossare una gonna fino a quel momento, mentre io vado da sempre in giro coi pantaloni della tuta, quando mi scoccio di vestirmi.

Alla fine ci siamo stabilizzati sulla regola della maglia: se lui ne trovava una abbastanza lunga da coprirgli i fianchi, era fatta.

Purtroppo non aveva una maglia di quel tipo. A malincuore ha lasciato la gonna sulla sedia, e ha lasciato me con un dubbio: quella conversazione sarebbe stata possibile altrove? Ne abbiamo parlato con una nonchalance permessa, forse, solo da due circostanze. Una è che lui è quello che è: ce lo vedo a girare sperduto come quegli ebrei chassidici che lasciano la comunità (nel suo caso, i boschi…) e non sanno neanche, per dire, comprarsi un paio di mutande da Tezenis. Un’altra è che io ho lasciato da tempo la mia comunità, che non sarà chassidica, ma provate a indossare una gonna “da uomo” la domenica al corso.

O forse la società è cambiata tanto che l’unico problema vero, per il mio coinquilino che indossa la gonna, diventerà sul serio come abbinarci i boxer.

Mi sa che indosserà quelli che gli ho preso io per la Befana.

Spring 2021. It’s one o’ clock at night and the Internet is not working.

No big deal, I’m going to bed soon. But my tenant shows up at my door: it is a big deal to her. She works as a content moderator in Italian for a famous social media company, and tonight she has a night shift. She needs to do something, or she’ll be in trouble.

Restarting the router (and all that) proves ineffective, so I, as a landlady, am required to sign a letter certifying the Internet is down. I feel a bit like my mother did, back in Italy, when I was sick and she had to write an excuse note to my school. But there is nothing to laugh about: a few months earlier, the power was cut due to works down the street, and my tenant (who prefers to remain anonymous) would chase the workers and ask them to sign. I remember a man with a safety helmet, staring before him in obvious embarrassment while she insisted, kind but firm.

This time, instead, the lady borrows my phone, since she’s getting hers fixed: she needs to explain to the company why she is not online. So I start receiving several emails: first, the impatient instructions of a supervisor, on how to restart the router (which we were perfectly able to figure out by ourselves!), then a sequence of “Are you done?”, which gets no reply because no, connection is not being restored no matter what we try. Finally, my tenant snorts: “Fu*k them, then, I’m going to bed!”. The last mail, as I realised the next day, had arrived after two at night. That summer I catch my tenant in the act of moving from my flat, without notice. I am standing before the building at an unusual time for me, and I bump into her, carrying some of her stuff with a friend and babbling some confused explanation when she sees me. That very night she sends me a long message, in which she explains she needs to go, and she’s sorry for the five-day notice: she is not feeling well. She no longer wants to work for that company, so she won’t be able to pay the rent. She’ll crash for a while at her friend’s place. This is what I have experienced, from my position as a privileged observer. Finally, today, my former tenant has given me a more detailed account of her own experience as a content moderator. Here’s what she’s told me.

“We are about 2500 employees, we have 15 nations to moderate. Our net salary amounts to 1660 euros a month, to which we can add a night-shift bonus and a multiple-language bonus. So, depending on the month we can hit 1900 euros. Policy is updated every 2 weeks, so it is very difficult to evade. Its interpretation is often left to the ‘upper spheres’, especially if a famous user is violating it: one day, Italian politician Matteo Salvini used the term ‘zingaraccia’ (derogatory for gipsy, ed.), so he was clearly referring to an ethnicity in derogatory terms, but our supervisors ordered us not to intervene.

Let’s get to work conditions. We all accepted a contract which included different shifts, but the Spanish law establishes that fixed shifts cannot last more than 6 months. Instead, we have been facing the same shifts for 3 years. For 2 weeks, we work at night: during the first week we work 6 days over 7, and we also cover 9 hours on the weekend. We have an afternoon shift in the following 2 weeks, then a morning shift in the last 2 weeks. We have been often denied any holidays for unknown reasons (we suspect they wouldn’t be able to cover our hours). Same happened with the days off we gained by working on a bank holiday. We only could get a break in ‘dead’ months, such as November”. [Apart from the first two days, November is quite a dull month in Europe, ed.].

Moreover, during about 8 months between 2018 and 2019, we have been working up to 8 days without a break. For 6 months we could not be unionised. Since May 2018, when the project started, we never had an emergency drill, or a security plan to leave the building, which is situated in the Agbar Tower of Barcelona. To this day, we still can’t access the emergency staircase: we can only use the lifts.

Finally, in the summer of 2022 the Spanish authorities gave the company a 50.000-euro fine, and because of that the company is hiring new workers, but after two years of broken promises, and the end date of june to fix the shift situation, our pleas remain unanswered. We know our Filipino colleagues suffer even worse conditions: forced in offices without any natural light, they had to deal with the content in English, to save the company money. When their work was finally given to a US department, there was a class action, resulting in a 50.000-dollar compensation: not much, for the American healthcare.

In fact, it is a health problem we’re dealing with: we are worn out by the lack of days off, and by the appalling content we are forced to watch (I’ll talk about that in a bit). Also, we did not have proper psychological attention until we started presenting symptoms of PTSD. Before that, we had counsellors, who had us meditate and colour mandalas: a therapy which proved highly ineffective for most of us. Sadly, our team leaders tend to undermine the symptoms we report, because they have one main priority: our performance.

We are required to deal with a report every minute, and this average handling time is calculated to the second. Our clicks on other pages outside the social media platform (sometimes we attempt to google reportedly fake news) are not counted as working time.

Let’s talk about content. The most violent and disagreeable images would pop out before we started remote work. Now it is not happening as often, but we can still bump into a shocking video from time to time. We have witnessed animal tortures, especially in industrial farming or Chinese dog-meat festivals. However, many terrible scenes involved humans, such as hostages tortured by terrorists or drug cartels. I have witnessed the extractions of organs from people who were still alive. Also, we receive constant reports of online soliciting, and at some point the algorithm changed and we were increasingly exposed to child pornography.

Now, as I mentioned, we have been assigned some psychological help from licensed therapists, but what we really need is the possibility to rest. Our only option is applying for stress leave, as many senior moderators are. I believe that, in order to avoid PTSD, we shouldn’t ‘get fixed’ once we’ve watched perjudicial content: rather than having us talk to a therapist afterwards, they should have offered proper training in the first place. Instead, they did everything in economy: they hired fewer people than needed, in the shortest time possible, all the while keeping high expectations on our performance. This is not fair.

I mean, you don’t hire just anyone to make an autopsy!”.

Primavera 2021. È l’una di notte e la connessione non funziona.

Poco male, sto per andare a letto. Ma la mia inquilina mi viene a bussare: per lei è un problema serio. Fa la moderatrice di contenuti per un noto social, e oggi ha il turno di notte. Deve fare qualcosa, o saranno guai al lavoro.

Non serve a niente riavviare il router, e quelle cose lì. Allora c’è bisogno che io, come padrona di casa, fornisca una sorta di giustificazione che attesti la mancanza di connessione. Mi sento un po’ come mia madre davanti al mio libretto di scuola, ma c’è poco da ridere: all’ultimo taglio dell’elettricità, per dei lavori in corso giù in strada, la ragazza (che preferisce restare anonima) rincorreva i muratori chiedendo una firma anche a loro. Ricordo un uomo col casco da lavoro che guardava davanti a sé, un po’ imbarazzato, e lei che insisteva, gentile ma ferma.

In quella notte senza Internet presto il mio cellulare alla ragazza, che ha il suo a riparare e deve spiegare all’azienda perché non risulta connessa. Così inizio a ricevere diverse e-mail: prima le istruzioni impazienti di un supervisore, su come riavviare il router (e fin lì ci arrivavamo da sole), poi una serie di “hai risolto?”, che cade nel vuoto perché la connessione non ritorna. Alla fine l’inquilina sbuffa: “Vabbè, si fregano, me ne vado a dormire!”. L’ultima mail, mi accorgo il giorno dopo, mi è arrivata alle due passate. Quell’estate becco l’inquilina a traslocare senza avvisarmi. Mi trovo fuori al palazzo in un’ora insolita per me, e la sorprendo con un amico a trasportare cose sue, balbettando una spiegazione un po’ confusa. Quella sera stessa mi manda un lungo messaggio, in cui mi spiega che se ne deve andare. Sa che sono solo cinque giorni di preavviso, ma non sta bene: non vuole più lavorare per quel social, quindi non avrà più soldi per l’affitto e andrà a stare per un po’ dall’amico che la aiutava a traslocare. Questo è ciò che ho vissuto io, dalla mia posizione di osservatrice privilegiata in tutti i sensi possibili. Oggi, finalmente, la ragazza mi ha fornito un resoconto più dettagliato della sua esperienza come moderatrice di contenuti. Questo è ciò che mi ha raccontato.

“Siamo circa 2500 dipendenti, e abbiamo 15 nazioni da moderare. Il nostro salario netto ammonta più o meno a 1660 euro mensili, a cui si aggiungono bonus per i turni di notte e per le lingue di cui ci occupiamo. Dunque, a seconda dei mesi possiamo arrivare a 1900. Le cosiddette policy vengono aggiornate ogni 2 settimane: in questo modo è molto difficile aggirarle. Spesso la loro interpretazione viene lasciata ai piani superiori, specie se a violare le regole è un utente ‘facoltoso’: una volta Salvini ha usato il termine ‘zingaraccia‘, riferendosi così a un’etnia in termini dispregiativi, ma i superiori ci hanno ordinato di non intervenire.

Veniamo alle condizioni di lavoro. Con gli altri moderatori avevamo accettato un contratto che prevedeva dei turni, ma la legge spagnola stabilisce che i turni fissi non debbano durare più di 6 mesi. Noi, invece, subiamo la stessa situazione da 3 anni. Per 2 settimane lavoriamo di notte: la prima settimana prevede 6 giorni su 7, e 9 ore di lavoro il weekend. Seguono 2 settimane di lavoro pomeridiano, poi abbiamo il turno di mattina nelle 2 settimane successive. Le ferie ci sono state spesso negate per una serie di motivi a noi ignoti (sospettiamo si tratti di un’incapacità di coprire le ore), ed è successo lo stesso coi giorni di compensazione, se lavoravamo durante qualche festività. In pratica si poteva andare in ferie solo in periodi decisi da loro, di solito in mesi ‘morti’ tipo novembre.

Inoltre, per circa 8 mesi a cavallo fra 2018 e 2019, abbiamo lavorato anche 8 giorni consecutivi senza riposo. Per 6 mesi non abbiamo avuto assistenza sindacale. Dal maggio 2018, quando è partito il progetto, non abbiamo avuto una simulazione di emergenza, né l’elaborazione di un piano di sicurezza per l’abbandono dell’ufficio, situato nella nota Torre Agbar di Barcellona. Tuttora non abbiamo l’accesso alle scale di sicurezza (si possono usare solo gli ascensori).

Finalmente l’ispettorato del lavoro spagnolo ha comminato all’azienda una multa di 50.000 euro nell’estate del 2022, così l’amministrazione sta assumendo nuove persone, ma dopo 2 anni di promesse, e la data limite di giugno per risolvere la questione dei turni, riceviamo ancora silenzio in risposta alle nostre sollecitudini. Sappiamo che i colleghi filippini sono in una situazione anche peggiore: costretti in uffici senza luce, si sobbarcavano la moderazione di contenuti in inglese, così l’azienda risparmiava sugli stipendi, ma le loro condizioni di lavoro erano pessime. Quando la moderazione si è spostata negli Stati Uniti, c’è stata una class action, risultata in un indennizzo di 50.000 dollari: pochi, per i costi della sanità americana.

Il nostro è infatti un problema di salute: soffriamo per la mancanza di riposo, per i contenuti orribili che siamo costretti a supervisionare (di questi parlerò tra poco), e per il fatto che non ci sia stata riconosciuta una reale assistenza psicologica finché non abbiamo iniziato ad accusare sintomi da stress post-traumatico. Prima di allora avevamo a disposizione dei counsellor, che ci facevano meditare e ci mettevano a disegnare mandala: una terapia che tra noi ha ottenuto scarsi risultati. Purtroppo i cosiddetti team leader tendono a sminuire le problematiche che presentiamo, perché la loro priorità è un’altra: la nostra performance.

Ci richiedono di sbrigare in media una segnalazione al minuto, e questo ‘average handling time’ [il tempo medio per occuparsi della segnalazione, ndR] viene calcolato al secondo. I click al di fuori della pagina che moderiamo (per esempio, a volte consultiamo un articolo su Google per verificare una notizia segnalata come falsa) vengono esclusi dal computo delle ore lavorative.

Veniamo ai contenuti. I più violenti e sgradevoli ci toccavano prima che iniziasse il lavoro da casa. Adesso siamo esposti a contenuti meno deleteri, ma può comunque capitare il video scioccante. Abbiamo assistito a molte torture animali, legate soprattutto agli allevamenti o ai festival cinesi in cui si consuma carne di cane. Ma diverse scene atroci vedevano come protagonisti degli esseri umani: le torture di detenuti da parte di organizzazioni terroristiche, o dei cartelli della droga. Io ho assistito all’estrazione di organi inflitta a persone ancora in vita. Sono continue le segnalazioni riguardanti adescamenti online. Da un certo momento in poi, inoltre, è cambiato l’algoritmo ed è aumentato il contenuto pedopornografico.

Adesso, dicevo, ci è stato assegnato un supporto psicologico, ma ciò che ci servirebbe sul serio è la possibilità di riposare. L’unica strategia possibile è quella di metterci in malattia per stress, cosa che sempre più moderatori ‘senior’ stanno facendo. Ritengo che, per evitare il disturbo da stress post-traumatico, non andrebbe ‘messa una pezza’ dopo aver visualizzato un certo contenuto: piuttosto che farci parlare a posteriori con uno psicologo, dovrebbero garantirci una formazione adeguata. Invece è stato fatto tutto in economia, assumendo meno gente e nel minor tempo possibile, senza abbassare le pretese sugli standard di prestazione. Non è giusto.

Voglio dire, non prendi mica chiunque a fare le autopsie!”.

Da preppykitchen.com

Riprendo le “trasmissioni” dopo un’estate di silenzio, in occasione di uno strano anniversario.

Nove anni fa iniziava per me un anno che sarebbe stato piacevole come una colica da patatas bravas strafritte nella peggio bettola del Raval, ma che mi avrebbe portato a essere la barzelletta che sono adesso: quella che va sempre in giro con gli ex. Due di loro sono, infatti, parte della mia famiglia allargata, quella che mi sono scelta. Perché in quell’anno che cominciava oggi, nove anni fa, ho imparato lebbbasi dell’ammore, quelle che possiamo ripetere a pappardella ma che, curiosamente, abbiamo bisogno di sperimentare per crederci davvero.

Tipo:

  • la gente non sceglie di essere attratta da noi, o da un elefante rosa se è per questo: sull’ammmore si può lavorare, ma l’attrazione iniziale, non solo fisica, c’è o non c’è. Possiamo sbatterci quanto vogliamo, ma nessuna caduta in rovesciata dall’Empire State Building, con tanto di inchino all’atterraggio, gli farà “cambiare idea”. I gusti personali non sono un’idea;
  • questo non significa che una persona possa trattarci come spazzatura. Se uno di domenica preferisce fare il bucato dei delicati a uscire con noi, fatti suoi, ma una domanda gliela farei. La risposta potrebbe essere: “Non ci posso fare niente se non vali abbastanza”. In quel caso, è consigliata la fuga senza voltarsi;
  • soprattutto, va rivalutato il concetto di “perdere tempo“.

Intendiamoci. Rinnego ora e sempre l’idea che, se una relazione finisce in una rottura, abbiamo perso tempo, e lo rinnego anche sapendo che in certe questioni (per esempio, il mio antico “desiderio di maternità”) l’idea di tempo perso non sia troppo peregrina. Ma no, non funziona così. Ed è anche anacronistico applicare alla me di nove anni fa il concetto che ho adesso di “perdita di tempo”.

Però in quell’anno simpatico che mi iniziava oggi, nove anni fa, ho iniziato a pormi un quesito che adesso si fanno in tante: quanto tempo e quante energie investiamo nell’ingrato compito di piacere a qualcun altro? Spesso, guarda un po’, il fortunato appartiene a un genere diverso dal nostro, un genere a caso che ancora oggi “tetiene il potere”, come cantava uno. In quest’anno avrei potuto svolgere bene il posgrado che invece ho concluso a malapena, e che era comunque una mezza truffa (non accettate mai questi titoletti che valgono solo nell’università che li rilascia). Oppure l’avrei mandato alle ortiche per qualcosa di più interessante, e magari remunerativo. In quel periodo mi sono comunque diplomata come insegnante di italiano, perché nella mia mentalità un po’ robotica non esistono scuse di nessun tipo all’inefficienza (un’altra cosa su cui dovremmo lavorare in paranza). Ma volete mettere se avessi avuto le energie adatte, e la testa sintonizzata sulle mie necessità? Quelle vere, dico.

Insomma, ho smesso di trovare risibile o semplificatoria la teoria per cui “mentre noi pensiamo a loro, loro dominano il mondo”.

E se sono sparita per l’estate, e in questi mesi, è stato perché mi stavo arripigliando: ho scritto un bel resoconto di quest’annetto simpatico che mi ha fatto perdere svariati chili (recuperati con gli interessi, per fortuna!) trasformandomi nella scoppiata asociale, ma tutto sommato tranquilla, che sono adesso.

Non so se riuscirò mai a pubblicare Fame, come ho chiamato il manoscritto. Ma voglio che lo leggiate, prima o poi, a costo di pubblicarmelo da sola.

Magari quello che è successo a me potrebbe farvi venire la voglia di non imitarmi.

Ogni tanto perfino io servo a qualcosa.

A imperitura memoria

Ciao! Questo è il solito post in cui vi invito a non sprecare troppo tempo in una cosa inutile, però stavolta c’è un colpo di scena. E pure un esempio, che deciderete voi se leggere o no.

Vedete, a Barcellona un mio amico molto nordico inizia ora una relazione con una “lokal”, e l’ho avvertito sulle possibili sfide di certe differenze culturali, che a volte portano a divergenze politiche (e sull’argomento ci ho scritto un romanzo, perché qualcosina ne so).

Il mio avvertimento/spoiler conteneva forse un pregiudizio su guiri e lokalz? Spero di no. Non ho detto in nessun momento: “Andrà a finire di sicuro così”. Ho solo precisato: “Se andasse a finire così, saprai cosa aspettarti e supererai meglio il problema”.

Ebbene, abbiamo discusso un’ora, l’amico è andato un po’ in ansia e io, oltre ad aver perso sessanta minuti che non riavrò mai, sono passata per la pettegola prevenuta che non si fa i fatti suoi. Quindi il mio consiglio stavolta è: se ci tenete all’amico perdetecelo, ‘sto tempo! Ma che non sia un’ora, cavolo. Gli aiuti non richiesti possono risultare odiosi e poco utili, oltre a sprecare le energie di chi li elargisce. A quel punto io metterei giusto la pulce nell’orecchio, e poi l’amico deciderà se alimentarla o meno: in fondo la vita è sua!

Una delle grandi svolte della mia, di vita, è stata quando ho smesso di voler controllare le esistenze altrui.

Qui finisce il post e comincia l’esempio (nooo, l’esempio no!). Proseguite solo se siete in vena di immergervi in un pezzo di cultura napoletana. Siete ancora lì? Bene, cominciamo!

Prendiamo il signore “sceso dalla Val Brembana” (semicit.) che con accento lombardo mi chiedeva, all’uscita della trattoria Da Nennella, se ormai fossero in chiusura: in fondo erano le due del pomeriggio! Inutile dirvi che quel signore veniva subito segnato come “Fuffi” nella lista d’attesa del mitico Ciro.

Mettiamo che Fuffi venga da noi e ci dica: “Sai? Ho conosciuto una tale Mariarca, detta ‘a Pulitona, che mi piace molto. Vive proprio ai Quartieri, dove lavora quel signore un po’ nervoso che mi chiama Fuffi. Non so in cosa sia laureata, anche se mi sembra che lavori nell’hi-tech, però vorrei approfondire la conoscenza: ho pensato quindi di andarci insieme a un apericena con finger food, poi a una rassegna di Kiarostami“.

Capirete che, per amore di Fuffi, potremmo anche prenderci la briga di precisare: “Magari hai capito tutto di Mariarca, Fuffi, ma metti che invece organizza i pullman per la Madonna dell’Arco, e a Kiarostami preferisce Maria Nazionale! E qualcosa mi dice che la grotta del suo presepe ha la vista sul Golfo di Napoli…”.

A quel punto Fuffi, che è una personcina un po’ ansiogena, potrebbe interromperci: “Grazie ma non voglio sapere tutte queste cose! Preferisco che sia una scoperta quotidiana, sai? Conoscersi a poco a poco, assaporarsi piano come un marron glacé…”.

E noi ci sentiamo un po’ scassagonadi e un po’ “capere”, cioè gente che non si fa i fatti suoi. Avremmo dovuto tacere? Forse. Però cavolo, mettiamo che Mariarca sentendo nominare Kiarostami sbraiti: “Come? ‘Ccà aro’ stamme?’. E si nun ‘o saje tu…”. Oppure commenti il finger food con frasi tipo: “Gli uomini da me vogliono solo una cosa: ‘a marenna p’ ‘a fatica!”. In tal caso io spero che Fuffi e Mariarca si sposino comunque di lì a un anno, e si trasferiscano insieme in Val Brembana, o sul presepe con vista sul Golfo di Napoli (che tanto è in scala 1:1). Forse, però, quella parolina che abbiamo detto a suo tempo al nostro Fuffi potrebbe propiziare il felice esito!

Quindi sì, facciamoci i fatti nostri che è sempre meglio, e soprattutto smettiamola coi pregiudizi: per esempio, l’intramontabile Mariarca è un mito a sé stante, e “le donne di Napoli” sono un mondo variegato, come tutte le donne.

Ma inso’, c’è una regola che vale anche per Fuffi: più ne sappiamo di una situazione/località/cultura, e meglio è.

Specie se siamo capaci in ogni momento di prendere ciò che crediamo di sapere, metterlo da parte e lasciarci stupire dalle cose, per come sono davvero.

(La mia prima Mariarca. In memoria di Loredana Simioli, che ci manca).

Da catalunyamagrada.cat

Ho passato questo strano San Giovanni in casa, con i miei in giro per fiamme del Canigó e due gatti da consolare dei copiosi botti.

Il combo micidiale covid+ciclo mi ha fatto ridimensionare il pluripremiato ciclo+raffreddore.

Soprattutto non avevo un presente a cui appigliarmi, in questa mia vita post-distanziamento, in cui il solo fatto di andarmene ogni tanto a scrivere in un bar o a fare la spesa (perché evito ancora feste ed eventi) mi ha aggiudicato la piaga del secolo. Il mio coinquilino occasionale era in spiaggia con la nuova tipa, ma i miei, che dovevano stare da me due settimane, sono partiti comunque per Barcellona, spendendo chissà quanto di albergo pur di venirmi a portare Bentelan, carta igienica, sale, e la panacea di tutti i mali: la pizza con la scarola.

Ecco, se dev’esserci una cifra di questo mio presente tutto da costruire, post-distanziamento, post-libro, in cui gli amici pre-lockdown hanno preso il volo, questa cifra è la cura: le tante persone che ogni giorno mi chiedono come sto e se mi serve qualcosa, oppure vengono a portarmi ciò che credono mi serva (la pizza con la scarola, decisamente).

Mi ripeterò. La grande teorica iberica del poliamore, Brigitte Vasallo, dice: “Poliamore è quando vai dalla tua vicina anziana che non vedi da qualche giorno, che magari è malata, e le porti un po’ di zuppa. Con chi tu vada a letto, non mi interessa più di tanto”.

Che il nostro presente sottile sia anche poliamoroso, in questo senso qua.

Una frase che mi è piaciuta di Niente di vero è: “Le coppie – di qualunque cosa si tratti – smettono di esistere, le persone no”.

Mia madre potrebbe rilanciare con una massima risolutiva che mi sparò al telefono quasi dieci anni fa: “Se uno non ti vuole, che te ne frega se vede un’altra o entra in convento? Resta il fatto che non vuole te”.

Oggi il “muso ispiratore” di Sam è tornato nei boschi aveva un appuntamento. Gli ho chiesto di avvisarmi, perché sarebbe successo: l’ha fatto. Gli ho detto che probabilmente l’avrei presa bene: l’ho fatto.

È da dicembre che ci siamo detti che proprio non andava. Lui per sua ammissione ha avuto per me la classica cotta adolescenziale, con quindici anni di ritardo: il genere di sentimento che evapora appena ti accorgi che dopo i briiividiii l’amore è, soprattutto, lavoro. Io, più che altro, sono stanca, e questo a volte è più risolutivo di un cambio di sentimenti.

Mi dispiace di non essere cresciuta in un’epoca in cui il poliamore fosse un’alternativa da prendere in considerazione. Pure io che a suo tempo ho fatto disperare più di un “fidanzatino” con le mie idee liberali, non concepivo l’opzione di portare avanti più relazioni amorose allo stesso tempo. Non credevo fosse possibile. Ora so che è possibilissimo, e pure che non fa per me.

Però ho capito una cosa: l’importante è la relazione che instauri con una persona. I sentimenti non si scelgono, i legami sì.

Questo ho detto al mio ex mentre mi parlava della nuova fiamma: io e lui ci siamo ritrovati a convivere costretti dalla pandemia, dopo che la nostra, di “flambata”, si era infranta contro i suoi compiti arretrati con l’età adulta. È stato da lì che abbiamo costruito il vero rapporto: più lontano dai suoi entusiasmi adolescenziali e più vicino al sovrumano compito, come dice Sam nel libro, di imparare a rivolgermi la parola al mattino.

Perché i sentimenti non si scelgono, i legami sì.

È per questo che, nella mia famiglia allargata, ci sono persone che per alcuni amici di Napoli non dovrei vedere mai più: mi dovrei offendere per il fatto che prima erano pazzi di me, e ora no. Ora mi vogliono bene.

Forse dovremmo capire che basare la nostra esistenza su un sentimento estemporaneo, spesso mutevole, è squalificante per il lavoro che impieghiamo nel costruire i rapporti.

L’unica eccezione che concedo a questo mio postulato è una sana e divertente cazzimma, alla Tony Tammaro.

Allora, visto che oggi piove, dedico questa al mio Sam con tanti auguri per l’appuntamento!

Uh, l’ultima volta è stata giusto un mese fa.

L’ultima volta che ho scritto sul blog, dico: vi invitavo a una presentazione. Una delle varie. Riprendo dopo un mese perché mi serviva una pausa, da tutto. Cosa ho imparato dal mio grand tour italiano?

Che i libri si vendono, pensate un po’. Sono prodotti come gli altri. È un’informazione ambigua che ci nascondiamo dai tempi di quel dignitario egizio che annoverava i papiri tra i beni materiali più preziosi in suo possesso: sono merce, si vende. Lo so, per me e per voi sono molto altro. Ma sono anche quello, e le case editrici sono aziende: dunque la ballerina ex GF vende più di me anche se non scrive per mestiere. E va bene così.

Una libraia a Monza mi ha suggerito di piazzare i miei romanzi come se fossero stati saponette, impalata all’ingresso a presentarmi ai clienti: dovevo convincere la gente che il mio prodotto era vincente. Non ha detto proprio così, ma il messaggio era quello. Taaac.

Io dico solo: perché essere multitasking per forza? È una trappola: io i libri li scrivo, la libraia taaac dovrebbe venderli. Meglio pensare all’amica che ha mollato tutto per venirmi a fare da relatrice al Salone del libro.

Per combattere in me la libraia, le piaghe ai piedi del Salone del libro, e la colica notturna che mi è venuta a Torino, adesso sto lavorando a quattro manoscritti. È uno sfogo, non so quanto durerà, e mi è consentito dal fatto che ogni manoscritto è a uno stadio differente: completo ma da rifinire, seconda revisione, prima bozza ma quasi finito, prima bozza ma appena iniziato. A volte li alterno.

Sento che questo è il mio mestiere. Lo svolgo ogni mattina, e ora ogni pomeriggio perché ho mandato al diavolo quel brutto corso di psicologia: troppi soldi per ciò che offriva in realtà. A volte mi è stato insinuato che non potevo definirmi una scrittrice, come una dilettante che spennella tele due volte al mese non si può considerare una pittrice. Io penso che potrei essere una pessima scrittrice, chissà, ma di certo non faccio altri mestieri, a ben vedere non faccio altro: è un privilegio, e un continuo vivere nella mia testa. “Vedo la gente personaggio!” (semicit).

Stamattina scrivevo in un bar col wifi: era il più autobiografico dei miei manoscritti. Dovevo spiegare perché, quando ascolto Mr. Brightside dei Killers, mi si accelera il respiro, mi porto una mano al petto e, se sto parlando con voi, vi sorrido con un po’ d’imbarazzo e spero di non urlare. Spoiler: c’entrano le circostanze in cui ho ascoltato la canzone per la prima volta (il corso di psicologia è servito a qualcosa!).

Sì, ma bando alle spiegazioni: come ve lo faccio sentire, tutto ciò? Come vi faccio entrare nella mia testa mentre sto avendo questo mini-attacco di panico?

Beh, rivivendolo io, che nel bar mi sono immedesimata in quel primo ascolto, e ci ho perso il respiro intanto che continuavo a battere sulla tastiera. Che è una novità recente: un manoscritto così lo scarabocchio prima su un quaderno, con la faccia che… bimba dell’Esorcista, scansate proprio.

Sarò riuscita, adesso, a rendere l’idea sul foglio Word? Questo me lo direte voi.

Niente paura, non cercherò di vendervi il risultato come se fosse una saponetta.

Salutando il barista molisano gli ho augurato buona giornata e buon lavoro.

Lui, che mi vede sempre in simbiosi col computer, ha risposto: “Buona giornata e buon lavoro anche a te”.

Ho sorriso: sì, buon lavoro. Il mio lavoro. Ci vuole ottimismo.

Sarà che sono Ms. Brightside.