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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il mare ha un suo metodo

Da barcelonatourisme.com

Viene prima il sollievo.

Colpisce un istante solo, così breve che potrei fingere di non notarlo. Eppure è stato lì, nel mio ventre contratto, un momento prima di lasciare spazio al dolore. Lo sapevo, mi dice il ventre. E dice pure: almeno adesso lo sai anche tu. Quanto cazzo detesto gli almeno.

Ma non ascolto il corpo, non ancora. Sono tutta protesa verso l’amico, che sta scegliendo un’altra oliva.

“Chi lo dice?” riesco a chiedere. “Chi dice che Bruno si è innamorato di questa… tizia biondissima?”.

All’improvviso temo che l’amico mi riferisca qualcosa che ha visto in prima persona. Niente di tutto questo, ma mi sento nominare una fonte di tutto rispetto: un altro che frequenta il bar specializzato in scambi linguistici, e che sa tutto delle ex di Bruno e niente di me.

Io non ho bisogno di sapere altro. Potrei raccontarmi perfino che avevo capito subito: dopotutto avevo irrigidito la testa sul petto di Bruno, mentre lui mi parlava della nuova amica. Ma non è vero, Bruno mi ha nominato diverse donne: lo faceva di meno, ma non aveva mai smesso. Dal caos che mi ha invaso la mente ripesco un detto americano: “Se sostieni un uomo in difficoltà, lo prepari per quella che verrà dopo di te”. Bruno si è consolato tra le mie cosce dei soldi persi, e adesso che sta meglio può passare a una che gli piaccia davvero… No, troppo cinico: la realtà dev’essere ancora più banale.

Quand’è che ha conosciuto la ragazza biondissima? Circa un mese fa, e lo sanno già tutti. Di me, invece, nessuno ha saputo nulla per un anno.

Mi alzo a fatica dal tavolino basso: non riuscirò a simulare a lungo. Accusando i crampi del ciclo (che comunque non inizia) pianto l’amico lì, insieme alla busta coi documenti che custodivo con tanta attenzione. Ma non mi guardo indietro, non voglio vedere gli ossi di oliva rosicchiati. Adesso voglio solo correre, e per la prima volta dopo tre giorni di trasloco non so dove andare. L’unico obiettivo è quello di ripescare il cellulare in borsa.

Bruno risponde quasi subito, sorpreso della chiamata. Per un lungo istante mi chiedo se non stia insieme a lei, poi penso che no, perché lui la voglia così tanto lei dev’essere assente, quasi sempre.

“Perché non sei ancora venuto a casa nuova?” riesco a domandargli.

“Stasera, dici? Avevo un ospite a cena: l’amico di un’amica che…”.

“Perché non sei venuto?”.

Silenzio. Lui assume un tono ambiguo, tra l’incoraggiante e il divertito:

“Se hai qualcosa da dirmi, dimmelo”.

Gli ripeto le parole che ho appena ascoltato. Il nuovo silenzio sembra durare un’eternità, ma so analizzare anche quello: Bruno è seccato.

“Chi te l’ha detto?”.

Non è sorpreso, imbarazzato, pentito. È proprio seccato. Quando gli nomino la fonte del pettegolezzo, prorompe in una serie di imprecazioni sulla gente che “non si fa i cazzi suoi”. E allora capisco che non siamo più soli. Come la Bella Stronza si intrometteva tra noi a sproposito, adesso c’è la Biondissima, con maiuscola: un’altra che non chiamerò mai per nome. Della mia rabbia Bruno non sa che farsene, preso com’è dalla sua indignazione.

Il tuo corpo capisce le cose… Okay, inutile ripetermi la tiritera della Petulante adesso che le gambe mi portano via senza più chiedermi il permesso, e Bruno si scalda: lui con “questa persona” non ci ha fatto proprio niente! Ci si è preso un caffè, che c’è di strano? Al massimo hanno passeggiato un po’…

Me lo immagino a contemplarla in silenzio, senza riuscire ad ascoltare ciò che sta dicendo. Ecco il sentimento che gli mancava, nobile e puro, così diverso dal bisogno immondo di sfogare i suoi umori nel primo corpo a portata di mano: il mio. Che sta avendo un suo collasso interno, senza per questo fermare la corsa.

La prima a crollare è la logica. Questa roba è così allucinante che non sta succedendo, non ho altra spiegazione. Poi arrivano le accuse a me stessa: se Bruno sta avendo questa reazione del cazzo, sto facendo qualcosa di sbagliato io.

“Perché non me l’hai detto, Bru’?”. Riesco persino ad assumere un tono disinvolto, da donna di mondo. “Pensi che mi importi? Tutto quello che voglio da te è lealtà”.

Come ho fatto a spuntare sulla Rambla? Non lo so. A un tratto capisco che sto andando verso il mare, ed è una buona notizia. Il mare ha un metodo tutto suo per calmarmi, o così mi viene da pensare mentre accelero il passo e recupero un po’ di voce.

“Guarda che io non sono il secondo piatto di nessuno”.

Lui sembra soppesare quell’espressione che il mio cervello ha appena tradotto dallo spagnolo, e che un altro italiano non avrebbe colto subito.

“Temevo potessi diventarlo” ammette in un tono che mi pare rassegnato. “Per questo ti ho scritto che non mi sentivo di essere altro che un amico. Non credere sia stato facile, c’era mezzo mondo a farmi pressione ed ero io a frenare, a dire che avevo una frequentazione fino a cinque minuti prima…”.

Frequentazione. Mesi di lavoro, pianti, insonnie, digiuni, cancellati in una parola. A quanto pare non è mai esistita la mia estate inappetente, non è mai iniziato questo autunno passato a sperare, e a correre. Era un’allucinazione anche la gatta che veniva a fregarmi il lettino da campo e a consolarmi, prima di volare giù senza che la lasciassi più entrare nelle mie notti insonni.

Solo che la gatta c’è rimasta secca e io sono ancora lì, in qualche parte del mio corpo che sta correndo dissociato dalla mia voce, dalle parole rassicuranti che racconto innanzitutto a me stessa, poi a Bruno: lealtà. Chiedevo solo lealtà.

La più grande illusione è stata quella di avere tutto sotto controllo.

Quando intravedo il porto, respiro. Partenope si è buttata in mare, io scivolerò contro un lampione a fissare le luci delle barche ormeggiate.

Mi accorgo solo adesso degli accenni di Bruno al suo ospite: il poverino deve restarsene in sala da pranzo, mentre il padrone di casa si sente molto magnanimo a parlare con me, invece di intrattenerlo. E forse non capisce neanche perché ho la voce rotta.

Mi rendo conto che ha ammesso la nostra “frequentazione” solo con quelli che tentavano di piazzarlo con la Biondissima, e solo mentre decideva di mollarmi.

“Possiamo parlarne dal vivo?” taglio corto.

Sembra contento della soluzione: così potrà pure tornare al suo ospite. All’improvviso ha il tempo per venire da me il pomeriggio seguente.

La prima cosa che faccio quando riattacca è chiamare la Petulante: scusa, non sei più stronza, mi riceveresti appena puoi? Forse non lo dico proprio così, ma qualcosa nella mia voce incrinata spinge la Petulante a riservarmi il primo buco che si ritrova in agenda, tra due giorni. Adesso ho un’idea a cui aggrapparmi in queste prime ore.

Intanto mi tocca contemplare quel mare troppo scuro, le acque increspate da un vento che non punge.  

A lunedì per il seguito!

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Scoop!

Mi rivedo nell’atto di ridere, mentre scelgo un’oliva.

L’amico invece sgranocchia delle patatine, già stanco delle mie lagne.

L’ho reclutato all’ultimo momento per festeggiare la fine del trasloco, che è durato quasi tre giorni. I vicini pakistani che caricavano gli scatoloni sui loro carrelli mi rivolgevano le stesse tre frasi in inglese o in spagnolo, mentre io in urdu sapevo dire tipo “ti amo” e “lenticchie”: come risultato dell’esperimento linguistico, dopo aver già pagato i duecento euro pattuiti mi sono ritrovata il ripostiglio ancora ingombro. I vicini e i carrelli erano spariti, e il giorno dopo dovevo riconsegnare le chiavi, o addio caparra.

Mentre risalivo a prendere le ultime cianfrusaglie, sulle scale mi ha seguita una donna tarchiata, coi capelli ondulati color biondo platino e le zeppe di sughero molto alte. Non era la prima volta che la vedevo: a parte i capelli mi ricordava Iside, la prostituta dal cuore d’oro di Brutti, sporchi e cattivi. Le ho dato la precedenza perché reggeva due buste della spesa, e sono riuscita così a coglierla mentre si fermava davanti a una certa porta, armeggiando con un mazzo di chiavi dall’aria antica. L’uomo col mastino deve aver sentito il frastuono, perché si è affrettato ad aprire.

Così l’ultima immagine che mi rimane di lui è quella di un’ombra al di là di una porta socchiusa. 

“Ancora non riesco a usare la chiave” ha ridacchiato Iside, accentuando un’inettitudine che di solito non deve avere. Avrà già capito quanto piaccia, a lui, salvare le donne che trova maldestre.

Stavolta ho sorriso anch’io: uno che cambiava serrature ogni giorno non faceva niente per riparare la sua! Magari pure quella era un ricordo d’infanzia…

Poi è stato il mio turno di chiudere a chiave, per l’ultima volta: niente piagnistei, dovevo cercare un Internet point che mi stampasse i documenti per il corsetto online, il cui inizio è imminente. Giorni prima un’impiegata del Consolato mi ha messo in guardia, il titolo finale mi verrà riconosciuto solo nell’università che impartisce il corso. I dubbi su quella faccenda mi erano venuti da un po’, ma ormai la retta era pagata.

Quando già stringevo in pugno i documenti, incerta se tornare addirittura a casa per riporli in un luogo sicuro, ho deciso in extremis di chiamare l’amico, che vive a cinquanta metri dalla Rambla del Raval e a duecento dalla mia nuova casa. È uno dei pochi con cui ho legato allo Spazio, e so che frequenta pure il bar in cui Bruno ha lo scambio linguistico con quella tizia biondissima.

Sono quasi le otto di sera ed è domenica, al centro della Rambla del Raval c’è la “tenda berbera”: un bar tutto drappeggi e tavolini bassi che viene montato solo il fine settimana. I proprietari magrebini non servono alcool, ma frullati e tè alla menta, qualche bibita gassata e tante olive.

Fino a poco tempo prima non sputavo i noccioli: mi faceva schifo vederli nel piatto mezzi rosicchiati, piuttosto preferivo il mal di pancia! L’amico ride della mia rivelazione, lieto di interrompere i discorsi sul triangolo svogliato che lui porta avanti, e sul tizio misterioso che mi tiene “in sospeso” da un anno. Anche stavolta non faccio nomi, ma brandisco uno stuzzicadenti come se fosse una spada: “Se quello lì non torna presto, non mi trova più”. E infilzo un’altra oliva.

L’amico approva la decisione senza fare ulteriori commenti. Il suo volto già si illumina di un sorriso più frivolo:

“Sai lo scoop?”.

Ma sì, spettegoliamo un po’!  Almeno diamo un senso alla serata. L’amico fa una pausa teatrale, poi aggiunge:

“Il nostro Bruno si è innamorato…”.

Nell’istante in cui esita ho il tempo di pensare che Bruno l’ha fatto di nuovo: ha parlato a qualcuno della nostra “frequentazione” senza nominarmi. Poi l’amico prosegue:

“Si è innamorato di una con cui ha lo scambio linguistico, in quel bar che…”.

“Una tizia biondissima?”.

L’amico affoga la delusione in un sorso di tè.

“Ah, allora già lo sapevi! Vabbè, ormai lo sanno tutti”.

A venerdì per il seguito!

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Mudanza

Cazzo, l’acqua.

Il rubinetto è aperto al massimo, ma non esce neanche una goccia. L’uomo col mastino ha scelto il momento migliore: a quest’ora del mattino non ci sarà nessuno per le scale, e se voglio iniziare il mio ultimo giorno in questa casa mi tocca scendere sei piani, per riazionare il contatore. Sfioro i gradini in punta di piedi, pronta a risalire al minimo rumore… Invece il silenzio non nasconde sorprese. Cosa è successo, allora? Quando arrivo ad aprire la porticina dei contatori, scopro che tra le file ordinate c’è un vuoto, e “quel vuoto sono io”, penso con enfasi. Mi hanno tagliato l’acqua, mi cacciano già dalla casa che avrei dovuto abbandonare l’indomani. Adesso mi tocca traslocare subito dopo la visita dal notaio…

Rammaricandosi in chat per l’incidente, Bruno mi fa capire che stasera, dopo un reading di racconti a cui partecipa anche lui, potrebbe fare una capatina a casa nuova. Ma verrebbe “sul tardi”.

Negli ultimi messaggi ha usato di nuovo il termine “frequentazione”, che aveva abbandonato da un po’. Dopo settimane di tenerezza e dolore condiviso, mi sembra ansioso di ribadirsi che tra noi non c’era niente di che.

Dal notaio mi presento con uno zaino sportivo, contenente pigiama e spazzolino. Il mio avvocato scoppia a ridere e mi scatta delle foto, dichiarando che non ha mai visto nessuno presentarsi così da un notaio, mentre l’agente immobiliare scopre che, invece di dover calmare un’acquirente nervosa, deve sorbirsi i miei “problemi di cuore”.

Tra gli eredi del proprietario, un cinquantenne coi capelli brillantinati e l’accento di Siviglia mi presenta sua moglie, che col linguaggio fiorito delle sue parti chiama “mi esposa”: quell’espressione dolce e concreta mi ricorda le nozze a cui ho assistito in Italia, tra le montagne indifferenti e lo scoglio su cui ho fatto da Partenope spiaggiata.

“Sei proprietaria?” grida al telefono mio padre a cose fatte.

Ah, già: stringo in mano delle chiavi che sono solo mie, e neanche riesco a gioirne.

L’amico agente vorrebbe strangolarmi. Sta ricevendo pressioni per diventare un finto autonomo, dalla trattativa con cui mi ha spuntato un prezzo miracoloso ha ricavato meno di trecento euro. Passa il giorno a vendere case che non può permettersi, e lo fa per pagarsi gli studi di psicoterapeuta. Non a caso, nel taxi che condividiamo per tornarcene nel Raval assume lo stesso tono della Petulante.

“Questo Bruno ha mai ammesso che stavate insieme? Lo sapevano anche i vostri amici?”.

Questo no, spiego, ma almeno nell’ultimo mese non fingeva più di ignorarmi. L’amico agente scuote la testa.

“E tu ti accontenti degli almeno?”.

Già. Una volta li detestavo.

Improvviso il trasloco con la collaborazione di un vicino stanco, che si carica gli scatoloni più urgenti su un carrello della spesa.

In spagnolo, il trasloco si chiama mudanza: la parola mi dà l’idea di un cambiamento improvviso, ma felice. Invece adesso aiuto quell’uomo già assonnato a non far sbandare il carrello sui marciapiedi, che si restringono inesorabili con l’avvicinarsi della Rambla. A casa nuova potrei avere già un intruso, un nipote del vecchio proprietario che è andato “a prendersi i materassi”: così mi ha annunciato quel vecchietto pieno di eredi nel consegnarmi le chiavi. Il notaio si è limitato a sorridere, mentre io programmavo anche quest’ultima corsa in agenzia, per recuperare la chiave mancante. Tre stanze da letto, e mi tocca dormire sul divano. O forse no: forse userò il lettino da campo, ancora disseminato dei peli della gatta.

Le stanze sono vecchie e arcigne come le ricordavo, ma è facile scegliere la meno brutta in cui accamparsi: ha il parato stinto, ma a fiorellini azzurri, e un balconcino che affaccia su uno di quei vicoli troppo vicini alla Rambla, che si riempiono di piscio il fine settimana. Ricordo che è venerdì.

Sono le undici quando immergo le bacchette nei vermicelli da asporto, presi nella catena di wok cinese che ho appena scoperto sul vicino carrer de Sant Pau. Il televisore lasciato come un relitto in salone è un modello antico, sull’unico canale visibile una bella donna sulla cinquantina descrive con voce suadente il significato di una carta, La Temperanza. È quella che vorremmo tutti, ammicca la maga guardando in camera.

Il cellulare mi si illumina proprio mentre lo sto spegnendo, rannicchiata nel lettino da campo. Il messaggio di Bruno è così breve che, per leggerlo tutto, non devo neanche aprire WhatsApp. Sei sveglia?

Sono quasi le due.

Mi scopro a spegnere il cellulare, senza rispondere.

A mercoledì per il seguito!

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Qualcosa che non ho visto

Adesso mi tiene addirittura per mano.

Lo fa quando siamo in strada, non sempre però. La “relazione”, come ora la chiama anche lui, torna a essere un chiaroscuro definito dalle assenze: condividiamo la passione, non i problemi. Al massimo sono io ad accollarmi i suoi, le ansie per quei soldi persi che gli guastano le ore. Lui però mi offre riparo a casa sua, quando l’uomo col mastino mi manomette il contatore dell’acqua e devo scendere sei piani a ripristinarlo. Il mio terrazzo resta chiuso: non c’è più la gatta ad acciambellarsi sotto l’amaca, e passata l’estate comincia pure a far freddo.

A un certo punto devo ammettere che l’euforia da fine estate è finita. Le scartoffie per comprare casa nuova non finiscono più, e il ciclo non torna. La Petulante mi sciorina ancora la storia del corpo che capisce le cose prima della mente: c’è qualcosa che mi mantiene bloccata proprio ora che tutto si muove, qualcosa che non ho visto e non voglio vedere. Io sulle prime penso che farei bene a non vedere più la Petulante! Per smentirla mando a Bruno un messaggio molto schietto, insolito per la mia nuova tappa “strategica”: può farmi il favore di venire con me a visitare casa nuova? Vorrei un suo consiglio su certi cambiamenti da realizzare…

La replica è quasi telegrafica: è tornato a non avere tempo.  

Finisco io a casa sua una sera che siamo entrambi a un concertino in zona. Mi piace che Bruno dia per scontato che dormirò da lui, ma sembra quasi che succeda solo perché “si è fatto tardi”. Mi rimprovero subito per quei pensieri tetri, ma il giorno dopo sto già recuperando il mio spazzolino dalla tazza sbreccata in bagno. Non so neanche io perché lo faccio: ho ancora qualche asso nella manica, cazzo!

Nottetempo gli scrivo una lunga fantasia scaturita da un libro di filosofie orientaliste: una roba che, più che erotica, finisce per risultare mistica o allucinata.  

Il suo silenzio dura così tanto che risulta umiliante, dopo un messaggio del genere. Siamo tornati davvero a quel punto lì? Come se i mesi passati, i chili che ho perso, le tiritere della Petulante e i trucchetti della Strategica fossero solo un sogno. L’unica cosa a segnare il passo del tempo resta quella finta estate, che ormai scivola via nell’autunno profondo. Mi sento di nuovo al punto di partenza, e non è vero: quest’anno passato dietro a Bruno non tornerà più, come le energie e l’amore che gli ho sacrificato. Come l’amore che ho perso per me.

La risposta arriva di notte, ed è di quelle lunghe che accompagnano i suoi no.  

“Disconnesso”: così si definisce. Lo è per “circostanze” che non mi sta a spiegare (e io penso subito a un brutto scontro con l’amico del prestito). In ogni caso, in quel momento non gli sembra giusto “valicare i confini dell’amicizia”.

L’amicizia.

Ancora una volta, il corpo è il primo a reagire: sopraffatta dagli ormoni del ciclo bloccato, scoppio a piangere senza neanche accorgermene. Subito dopo, però, la logica ha il sopravvento. A scombussolare Bruno sarà stato senz’altro l’autunno, col suo “ritorno alla normalità”! Ci siamo rivisti in condizioni inconsuete per entrambi, a fine estate, ed entrambi siamo stati risucchiati dalla ricerca di un lavoro o di una casa. L’incertezza di ogni giorno ha preso il sopravvento.

Sì, non è il caso di preoccuparsi. Bruno a volte ci mette un po’, ma torna sempre.

A lunedì per il seguito!

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Luce

Adesso gli è tutto più facile.

Me lo spiega tranquillo, mentre chiacchieriamo tra le lenzuola sfatte. Una volta si rallegrava perché con me era riuscito ad abbassare gli standard. Adesso che quasi diventavo pelle e ossa, deve riconoscere che è più semplice andare con una ragazza che “gli piace pure”.

Mi si mozza il respiro, come ai vecchi tempi. Non commentare, mi ripeto. Lui dice tante boiate, ma poi finisce per fare la cosa giusta.

Me lo ripeto anche allo Spazio, mentre pianifichiamo la serata di beneficenza che sarà l’evento principale dell’autunno. A un certo punto, a Bruno viene chiesto in tono un po’ irridente se “in questo momento” lui stia con qualcuna, e lo sento esitare un istante solo prima di rispondere a bassa voce: “No”.

Sciocchezze, per una volta la situazione è sotto controllo! Sto meglio, sto comprando casa, è tornato Bruno. La Petulante non mi incanterà con le sue storie sull’ascolto del corpo, anche se ho questo formicolio alla pancia e il mio ciclo è bloccato. Finisce che ho un ritardo di due settimane, e so di non essere incinta: Bruno è ancora più maniacale di me nell’evitare rischi. Di certo sono i nervi per la casa, e per le scartoffie di un titoletto universitario che, nei miei piani, mi farà rientrare in sordina nel mondo accademico. Ho ingaggiato a mia insaputa un falso traduttore giurato, e quando ho scoperto l’inghippo ho dovuto far ricorso a un’agenzia online. È ufficiale, l’Europa unita è una baracconata anche per chi ha il passaporto giusto: omologare un titolo di studio è un’esperienza massacrante, e pure costosa.

Ma chi se ne frega di queste minuzie! Dopo la nuova frenesia che ci ha presi, Bruno “passa” meno spesso, ma a intervalli costanti. È una cosa buona, vero? Darsi una calmata, crearsi una routine. È quello che fanno le coppie normali, come… come noi. All’improvviso non sono più un’ospite occasionale a casa sua, e una mattina, in bagno, sto per recuperare lo spazzolino dalla tazza sbreccata che ne contiene vari, poi la mia mano si ferma. Se lo lascio lì è più comodo, no? Mi chiedo pure se dirglielo o no, poi mi rispondo che certe cose è meglio farle e basta, che a ragionarci su si fa peggio.

Anche il suo modo di parlarmi delle ragazze è cambiato: non si dilunga troppo negli apprezzamenti, oppure evita proprio. Ridiamo insieme del fatto che la passione ritrovata abbia, come risultato inedito, quello di farci aguzzare la vista: anche io noto di più i bei ragazzi in strada! Un pomeriggio lui mi spiega che in un bar vicino casa sua, che organizza spesso eventi e scambi linguistici, ha conosciuto una ragazza pallida e biondissima che vuole imparare l’italiano. Bruno mastica qualche parola nella lingua della ragazza, ma vorrebbe approfondire, così loro due si sono dati appuntamento nel bar al prossimo evento. La mia testa sul suo petto si irrigidisce, ma lui non se ne accorge. È soddisfatto dell’opportunità, e non ha fatto apprezzamenti sull’aspetto fisico della ragazza biondissima: quando mai me ne ha risparmiati, su una che gli piaceva? E poi, non ho più niente di cui preoccuparmi.

È domenica e il sole inonda il letto stropicciato. In quella luce perfetta lo scopro a osservarmi: le sue iridi hanno una sfumatura dolce che non gli ho mai visto.

“È un piacere guardarti” confessa.

E allora mi godo la luce sulla pelle umida, e gli occhi di Bruno. Mi nutrirei solo di quelli, di lui.

A venerdì per il seguito!

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La strada per tornare da me

Incredibile: non ha fame.

C’è qualcosa che sta divorando lui, da dentro. Per aiutare un amico in difficoltà ha perso molti soldi, e quando ci si mette è così generoso, ricordo assistendo alla sua angoscia. Non si riesce a perdonare per quella sua fiducia mal riposta, e all’inizio del suo sfogo avverto una sensazione all’addome, come se lui mi avesse conficcato tra le costole quel suo grande zaino che porta ovunque. Magari era questo l’effetto a cui puntava per me la Strategica: una repulsione immediata allo psicodramma a cui sto assistendo.

E invece ogni strategia svanisce quando Bruno inizia a piangere, e io concludo che soffriamo della stessa incapacità di trovare un posto nel mondo. Forse è questo a darci una fame perenne, anche se a volte ci sembra di no.

Ed è questo a buttarci l’una tra le braccia dell’altro, e anche stavolta lui è il mio male e il mio rimedio. Ma non finisce al solito modo. Il mattino dopo, prima di infilarsi gli auricolari, Bruno mi dà già un appuntamento per la prossima volta, di lì a due giorni. È cambiato qualcosa nel suo modo di guardarmi. Forse sono più sicura, diretta.

Di certo sono molto più magra di come mi ricordava.

Non voglio pensare che sia solo questo, o il fatto che gli serva un sostegno: voglio vivere questo nostro ritrovarci, che all’improvviso sembra reale. Voglio tornare in quel posto che conosciamo solo noi, e stavolta mi pare che anche lui sappia la strada.

Quando mi rivede, la Strategica rischia sul serio che le salti al collo per la gioia: il suo metodo funziona! L’ha fatto addirittura tornare da me, e stavolta non disdegna troppo l’idea di restare… L’altra mi guarda con l’espressione di una che abbia vinto la lotteria senza giocare. Ormai mi è chiaro che la sua strategia sopraffina era farmi affezionare allo status di single, finché non lo preferissi alle montagne russe con Bruno.

Ma è contenta anche così: a fine seduta intasca gli ottanta euro con più soddisfazione.

Stavolta ci rivedremo tra un mese, mi annuncia come se mi facesse un regalo. Non sono entusiasta: è tutto, no? Il trattamento è finito, ed è stato davvero breve e strategico come prometteva… Lei fa per dire qualcosa, poi sorride.

“Facciamo almeno un’altra seduta per monitorare”.

Vuole solo i miei soldi, provo a pensare, ma lei mi guarda in un modo così strano che non ci riesco.

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Qualcosa è cambiato

Da pupa.it

I risultati arrivano troppo presto.

Sul momento me li godo e basta, senza pensarci troppo: la Terapia Breve Strategica funziona! Il primo giorno passo in rassegna le cose più frivole che farei “se Bruno non esistesse”, come la metto tra me e me, e finisco per ripescare un vecchio lucidalabbra dall’armadietto in bagno. L’odore fruttato mi mette subito allegria, e decido di abbinare il colore a un vestito carino.  

Un giorno mi dirò che quella terapia così bizzarra dà risultati immediati, ma non duraturi. Lo ammettono anche i fondatori nei libri che ho divorato: bisogna lavorarci sempre, nonostante la sensazione immediata di star meglio. Così ogni mattina, davanti allo specchio, scelgo l’azione più piccola che farei come single. Ogni mattina mi scopro a uscire di casa canticchiando.

Stavolta invito Bruno da me perché non ho altra scelta. Ho mandato un messaggio collettivo nelle varie mailing list: è il mio onomastico, e ora che compro casa cerco anche qualcuno che occupi quell’attico al posto mio, per accelerare la restituzione della caparra…

Ma chi voglio prendere in giro? Desidero solo festeggiare il mio ritorno alla vita, al cibo. Tanto Bruno si dichiara subito in forse perché “ha da fare”, e per una volta penso che sia meglio così. La possibilità di vederlo placa sempre la mia ansia, ma se non viene continuerò con gli esercizi della Strategica, senza il rischio di interferenze.

Infatti alla festicciola mi diverto. Anche l’uomo col mastino si mantiene lontano dal mio muricciolo, come se quello fosse il suo regalo per me. Con certi amici cerchiamo su Google i titoli dei porno che parodizzano film famosi: Natural Porn Killers, Apocalypse Climax… Mi si scioglie il trucco dalle risate, e non me ne frega niente: i miei lividi sono ormai invisibili, ed è bello sfottere un genere che, nelle versioni più apprezzate allo Spazio, sembra fregarsene del piacere femminile. Riderci su in quel modo è un toccasana, e i melodrammi del passato non mi sembrano neanche più tristi o sciocchi. Sono solo inutili.

Bruno mi telefona verso l’una di notte: era a un incontro letterario a leggere racconti suoi, si è liberato solo adesso. Si trova dalle parti di casa mia, può ancora “passare”?

La festicciola è finita. Il mio vestitino di raso nero è tornato nell’armadio, mi sto struccando. Perché rischiare? D’altronde non ho più nulla da temere, sono immune al nostro psicodramma! Vero? Ci metto un po’ a replicare.

“Passa pure, ma sappi che mi troverai in pigiama”.

Tie’! Neanche lo accolgo all’ingresso: gli faccio trovare la porta socchiusa, mentre arrangio in cucina un piatto di avanzi. Dopo che avrà mangiato ci farò due chiacchiere e lo spedirò a casa.

A sorprendermi è il silenzio. Quando lo sento buttarsi sul divano, nell’eco dei suoi movimenti avverto una lentezza nuova. Allora esco dalla cucina col mio piatto di avanzi.

Mi basta un’occhiata per capire che qualcosa è cambiato. 

A lunedì per il seguito!

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Strategie

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

La soluzione è nei libri.

Me lo ripeto quando i miei sono ormai ripartiti, e posso passare il resto dell’estate in biblioteca. La gatta mi ha salvato: voglio che la sua morte assurda serva a ricordarmi che la vita è troppo breve, per passarla a frignare!

E il mio ritorno alla vita è stato sempre un ritorno ai libri. Per questo credo che “usare il cervello” risolva sempre tutto. Quando non l’ho fatto sono diventata solo un corpo, a uso e consumo di Bruno e della sua noia. La Petulante si inalbera: non funziona così! A mettermi nei guai è stata proprio l’ostinazione a non ascoltare anche il corpo… La Petulante è sempre più stronza.

E poi non mi risparmia certo i suoi tentativi di farmi ragionare, che espone in questi termini: se Bruno si innamora solo di quelle che trova strafighe, e io non sono poi ‘sto dieci, con chi me la voglio prendere? Sc-scusa? Ma sì, insiste lei, è che esco fuori dai suoi schemi! Lui si immaginava a mangiare torte nuziali a tre piani, e a un certo punto si è ritrovato davanti un bel dolcetto che non si aspettava di gradire… Insomma, concludo, sono una crostatina del Mulino Bianco. Mi chiede qué es eso.

A me “crostatina” non l’aveva detto ancora nessuno.

Meno male che Paul Watzlawick, di cui divoro la bibliografia, mi spiega che la realtà è solo una storia che ci raccontiamo. Se a un certo punto ci crea problemi, basta cambiare narrazione.

Manco a dirlo, in biblioteca sequestro tutti i testi sulla Terapia Breve Strategica (TBS), fondata da Watzlawick con un allievo italiano, e scopro subito che a Barcellona esiste un “centro di TBS”, il cui sito web è dotato di indirizzo mail: lasciate il numero e vi chiameremo.

La terapeuta mi telefona proprio mentre sto in biblioteca, e nella mia corsa indiavolata verso il bagno (per poterle parlare ad alta voce), mi faccio ripetere tre volte il suo nome. Il mio stato confusionale deve allarmarla: non viene spesso a Barcellona, si affretta ad avvertirmi, ma niente paura! La sua non è mica una terapia convenzionale, una seduta o due al mese basteranno, se lavoro bene…

Solo questo, mi doveva dire. All’appuntamento mi presento armata di fogli A4, con stralci del mio diario e un’antologia di conversazioni selezionate tra me e Bruno. Mi aspetto di ritrovarmi in una clinica o un centro medico, e invece finisco in uno studio legale riadattato per le sedute, davanti a un donnone di mezz’età che tra me e me già chiamo “la Strategica”. La vedo incenerire con gli occhi le mie scartoffie, prima di iniziare la tortura per cui la pagherò: cosa credo di ottenere, esordisce, con quella relazione sballata? Dovrei sapere che i maschi sono fatti per reagire a certi stimoli, ed è inutile provare a instillarglieli noi…

Oddio, fa sul serio? Se a qualche uomo fa comodo sentirsi l’appendice del suo pene, non sarò certo io a reggergli il gioco! La Strategica è colta alla sprovvista dalla mia conoscenza del metodo, e allora mi allarmo un po’: non ti arrendere, la imploro con gli occhi, prova ancora a farmi fessa e contenta.

Allora lei mi assesta una domanda trabocchetto: sei intelligente o sei stupida?

Sono stupida, ovvio! Se no, mi chiedo, cosa ci farei in uno studio legale riciclato, a farmi prendere per il culo da una che mi vuole riprogrammare la mente in dieci sedute? E neanche ci riesce, a quanto vedo…

Ma ormai sono lì, tanto vale spiegare che con Bruno le ho tentate tutte. Ho provato a “rispettare i suoi tempi”, e dopo sei mesi ero ancora un passatempo da concedersi dopo il bucato. Allora ho imposto i tempi miei, e sono stata mollata dopo neanche sette giorni di montagne russe. Quando ho provato io a chiudere, è tornato. Quando ci ha provato lui, è tornato. E io, dopo un po’, non sono stata più in grado di mandarlo via.

La Strategica ascolta tutta la tiritera, poi si gioca l’ultima carta. Prima di stare con lui ero single, vero? Non sono mai stata con lui, borbotto a mezza voce: quell’unica settimana “ufficiale” è stata una farsa… Diciamo che ero single, insiste la poveraccia. Come stavo, prima?

Benone, mento. Dovrei spiegare che avevo fame, e non sapevo neanche io di cosa.

“Allora” prescrive lei “pensa ogni giorno a cinque azioni che potresti fare da single, quindi esegui la più semplice. Dopo una settimana eseguirai le due più semplici. Ci vediamo tra tre settimane”.

Finalmente! Esco da lì con ottanta euro in meno (sul web mica c’era scritto il prezzo…), e una formula magica a cui aggrapparmi: non chiedevo altro che dei compiti da fare, delle azioni che dipendessero solo da me. Voglio solo riprendermi un po’ di controllo. Non capisco neanche come funzionerebbe, questa roba, e a dirla tutta dubito che funzioni.

E invece mi accorgo subito che è un trionfo.

A venerdì per il seguito!

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Lividi

Da behr.com

Mamma nota subito i lividi.

Neanche il tempo di disfare la valigia e già mi ha squadrato le braccia, incerta se fare una battuta o preoccuparsi sul serio.

Non le sto a spiegare che la morte della gatta mi ha fatto scattare qualcosa, che voglio cambiare tutto. Aspetto che lei e papà ripartano per agire.

I miei sono lividi cocciuti, persistenti sulla mia pellaccia di gommapiuma: forse sono gli stessi notati, quando erano ancora freschi, dall’agente immobiliare milanese che sta diventando mio amico. “Ma che, te menano?” ha sdrammatizzato lui, facendomi pentire di non aver indossato una giacchetta. No, non “me menano”, e sul momento neanche ci faccio caso, ma mi diverte il paradosso: chi mi lascia addosso i lividi fa finta che non sia successo niente, e quelli restano lì a dimostrare il contrario.

Ho contattato l’agente per “farmi un’idea” sulle case in vendita: nella quasi impossibilità di affittare un buco a nome mio, l’aspirazione balzana è quella di spuntare un mutuo, o almeno scoprire come si fa. I miei si sono offerti di farmi da garanti e, magari, versare la cifra iniziale. Chi non ricorre all’aiutino da casa, per potersi aggiudicare un appartamento a Barcellona? Perfino i miei amici medici devono farsi anticipare qualcosa…

“Portami una sola busta paga, e il mutuo è tuo”.

Questa è la promessa del direttore, quando i miei mi accompagnano in banca e proviamo a capirci qualcosa in quattro lingue diverse (napoletano incluso). Però il mio contratto di lavoro dev’essere a tempo indeterminato, avverte dispiaciuto questo cinquantenne gentile, che a giudicare dall’accento barcellonese sarà passato dalla casa dei suoi a quella ereditata dalla nonna.

Uscendo dalla banca, mia madre mi dice che basta così. Ho un vicino di casa che forza serrature e fa volare le gatte dai balconi, dunque devo andarmene da quel posto. Vorrà dire che troveremo una casa economica, e invece di lasciarmi i soldi in eredità i miei mi vedranno proprietaria, e al sicuro, adesso che possono ancora venire a farmi visita.

L’uomo col mastino ci fa trovare le scale addobbate dalle sue scritte minacciose, e dai bisogni del cane. Stavolta non ha lasciato ricordini nella cassetta della posta. L’amministratore si rifiuta di cambiare ancora la serratura del terrazzo condominiale, e la polizia ci ha fatto sapere che “basterà aspettare lo sfratto”, ormai è questione di tempo: il soggetto non se ne andrà per il pericolo che costituisce, ma perché non riesce più a pagare il suo antico affitto calmierato. Lo prenderanno per povertà.

Nel frattempo, liberarsi di lui è diventato un privilegio. L’amico agente scova una casa che i miei “capiscono” (quella che avrei voluto io era grande un terzo e costava uguale), e festeggiamo condividendo una birretta con gente dello Spazio, che si è data appuntamento in un pub del Born.

Bruno fa la sua apparizione in ritardo, schiacciato dallo zaino che si porta sempre dietro, e al momento di ordinare dichiara: “Per me niente”. “Lo vuoi con ghiaccio o senza?” scherza il cameriere, e Bruno non coglie, ma poi si avventa sulle mie patatine e su quelle extra che si premurano di offrire i miei.

All’uscita del pub si prende papà in un angolo e gli spiega le sue varie ipocondrie, e papà, che è medico, inizia a sbrogliargliele. Sembrano intendersela a meraviglia, e mamma è quasi divertita da quella consulenza medica che non finisce più.

“Tu avresti preferito studiare da infermiera” scherza, con una traccia di allarme nella voce.

Poi si rende conto che papà ha lasciato al tavolo la giacca e le chiavi, e senza una parola gliele va a recuperare.

A mercoledì per il seguito!

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Requiem per una gatta

Mi avvertono solo al mattino.

Sto scendendo le scale in fretta perché ho rimediato una sostituzione: un amico che insegna italiano ha avuto un’emergenza in famiglia, e ha affidato a me l’ultima lezione del corso. Già pregusto il viaggio in treno come una pendolare qualsiasi, e la sala professori in cui mi saluteranno con cordialità: la nuova “collega”. Forse dovrei insegnare italiano a tempo pieno…

La mia allegria, però, si infrange due piani più sotto. Il piccolo tunisino non mi guarda più con la curiosità che riserva alla “donna sola” nell’attico. Si sente molto importante a darmi la notizia, e allo stesso tempo ha timore.

La gatta è precipitata dal terrazzo condominiale.

Il pensiero mi stordisce. La sera prima ho sentito dei rumori provenire proprio dal terrazzo: il mugolio di un cane, e una voce familiare che provava a rabbonirlo. Quella voce, una volta, era gentile anche con me. Il ragazzino non è soddisfatto dei dettagli che mi ha fornito, come se avesse fatto i compiti a metà: purtroppo, si giustifica, “il signore che comanda nel palazzo” ha cambiato ancora la serratura del terrazzo comune, il che impedisce a chiunque di accedere al “luogo del delitto”.

All’improvviso non voglio più prendere il treno. Inutile fingere che sia solo il dolore a paralizzarmi: comincio a temere sul serio per la mia incolumità.

I miei genitori mi telefonano al ritorno dalla lezione, che ho tenuto con finta allegria. Mamma simula la nonchalance di quando è preoccupata davvero: adesso che vengono a trovarmi, promette, cercheremo insieme una soluzione.

Quale? Le case a Barcellona vanno per “momenti storici”, e in questo qui è impossibile trovare un buco in affitto senza un contratto di lavoro, o senza una di quelle caparre impossibili che, con una scusa o l’altra, non vengono mai restituite per intero. Ho trentadue anni, cazzo. Possibile che per trovare casa abbia bisogno di mamma e papà?

Della coppia che teneva la gatta, trovo solo il ragazzo che lavora da casa: non ha dubbi su chi sia il responsabile. 

Quando gli hanno riportato la gatta in fin di vita, ha scavalcato in un istante il muricciolo che lo separava dal terrazzo condominiale. Sul parapetto, tra i cavi tagliati delle antenne, c’erano escrementi. Eppure la gatta aveva sempre usato la lettiera: perfino io le facevo trovare in terrazzo una scatola di scarpe con dentro dei sassolini. Se l’è fatta addosso mentre “qualcuno” la tratteneva per buttarla giù, afferma il ragazzo. È un tipo alto e robusto, e il suo fidanzato è molto simile a lui: possono permettersi di provare una rabbia perfetta. Io a quella devo aggiungere anche la paura.

Un giorno scoprirò che i gatti precipitano e basta, se non ci sono reti a proteggerli. In quel momento non ne so nulla, né saprò mai se la spedizione notturna dell’uomo col mastino fosse una coincidenza, proprio quella notte. Così decido di far installare un gancio alle ante del terrazzo: per un po’ ingannerà l’ansia. Avrò più tempo per correre fuori se sento un tremolio prolungato di vetri.

Invece non trovo niente per placare il rimorso.

L’ultima volta che la gatta era venuta da me, l’avevo cacciata via. Si era messa a miagolare sotto la mia finestra in una delle notti che passavo a piangere, da quando Bruno se n’era andato. “Lasciami in pace!” avevo urlato fin dai primi miagolii, ma lei non voleva saperne di star zitta, e neanche io. Avevamo ingaggiato una gara assurda a chi urlava di più, lei sotto la luna, io nel buio perfetto. Non avevo le forze di alzarmi e aprire la porta sul terrazzo: volevo solo cancellarmi dal mondo, quella maledetta gatta non aveva il diritto di rificcarmici dentro.

Adesso è lei che non c’è più.

A lunedì per il seguito!

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Dove non muoiono le sirene

È il matrimonio a farmi decidere.

I futuri sposi con cui ero stata a cena dopo l’esposizione ci ospitano in costiera per le nozze, e con altri italiani a Barcellona volo fino a certe montagne a strapiombo sul mare, che fanno da sfondo al paese dello sposo.

Sono montagne del Sud Italia, brulle e perfette, fatte apposta per ridicolizzare il mio dolore che passerà, come tutte le cose umane.

Al banchetto nuziale, i piatti destinati a me fanno il giro dei tavoli. Li cedo a chiunque con la scusa della mia transizione a una dieta vegetale, ma nessuno si meraviglia troppo: è un’altra stranezza di noi “stranieri per caso”, approdati alla cerimonia con tenute improbabili e un italiano atroce. Se da fuori sembriamo un’armata Brancaleone, vestita per tutte le occasioni e per nessuna in particolare, al nostro interno le differenze geografiche si notano eccome.

Io e l’altro napoletano abbiamo insistito per offrire una “busta” consistente (che abbiamo finito per versare da soli, senza rivelarne l’importo generoso perché pareva brutto). Se ci svegliamo presto, scendiamo giù al villaggio a prendere i cornetti per gli altri, che magari preferivano solo il caffè. Io non è che mi svegli presto: in realtà non dormo affatto. Singhiozzando con la testa affondata nel cuscino, per non disturbare, riesco a chiudere gli occhi tra lo spuntare dell’alba e le sette in punto, quando suona la sveglia della mia compagna di stanza: dice che dal cellulare nuovo non sa spegnerla. E comunque lei continua a dormire come un sasso.

Al matrimonio, gli uomini del mio gruppo esibiscono cravatte sgargianti o camicie hippie, mentre noi donne sfoggiamo pagliaccetti fioriti, pantaloni lamé con lo spacco, e scarpe più o meno comode. Io sono in abitino lilla, e ho camuffato gli occhi gonfi in sfumature già minacciate dal caldo. Riuscirei quasi a mimetizzarmi con le invitate del posto, se non fosse per i capelli tagliati in una scalatura estrema, tipica di Barcellona, che addosso a me sembra un innesto malriuscito.

“Che problemi abbiamo?” mi viene da pensare a un certo punto. Non riusciamo ad appartenere a nessun posto, e ne facciamo un vanto. Le altre invitate si sono accentuate i ricci con la piastra, e i loro abiti da cerimonia occultano tacchi che toglieranno all’apertura delle danze, sostituendoli con le ballerine che nascondono sotto il tavolo.

Io non ballo, non mangio. A un certo punto mi apparto su uno scoglio, Partenope inappetente e sfatta dall’insonnia. Con gli occhi a quelle montagne logore riesco solo a piangere al cellulare con l’Amico, che non mi regge più.

“Veramente fai? Vai a goderti la festa!”.

Non ci riesco, spiego. E all’improvviso l’eco di quelle parole tra gli scogli mi paralizza. Ma è un momento: subito mi risollevo dalla mia posa di sirena spiaggiata, e mi rassetto il vestito.

Io che non riesco a fare una cosa? Inaudito, devo imparare!

Ecco che riappare l’urgenza di essere all’altezza, di coltivare un’immagine di me che non esiste ancora, ma deve esistere, o “è la fine”, anche se non so mai di cosa.

E invece è l’inizio. È marcio e sbagliato, ma è un inizio. Stasera mi va bene anche questo.

Finalmente mi giro verso quel Mediterraneo mite e aromatico, più familiare di quello che osservo dai moli odorosi di paella surgelata. Mi sono scelta una terra dove il basilico fatica ad attecchire, ma i mostri marini vivono felici, si innamorano e generano terre fertili. Forse le sirene muoiono solo in questo mare qui.

Dov’è che imparano a vivere, invece?

I festeggiamenti sono proseguiti senza di me. Su uno schermo allestito apposta per trasmettere video di amici lontani, un Bruno accaldato e quasi serio augura agli sposi di essere così felici da non crederci neanche loro.

Decido di rubargli quegli auguri, come se per una volta li avesse fatti a me.

A venerdì per il seguito!

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Sparire

Un’alternativa in 3D a YouPorn.

Per coniare la definizione ci metto diverse notti appannate, sospese sull’amaca tra le stelle e la gatta. Forse per Bruno sono stata soltanto l’unico corpo a portata di mano: roba da poco, ma questo passava il convento. Con un involucro del genere, era inutile perdere tempo a scoprire il contenuto.  

E invece “il contenuto” è difficile da rassemblare: devo rimettermi insieme pezzo per pezzo, e ne perdo tanti mentre l’estate inizia piano. Il paradosso è che il mio corpo inizia a somigliare a quelli amati da Bruno almeno in questo: nell’ostinazione a occupare il minor spazio possibile.

Chi mi incrocia per strada dice: “Stai sparendo”. Quel pensiero mi piace, e ormai mi nutro soprattutto di pensieri. I miei amici del Sud usano la parola “sciupata”, che mi riporta a una prozia con la fame di guerra che mi tampinava alle feste di famiglia, per vedere se mangiavo abbastanza (e intanto si nascondeva un dolcetto nella manica).

Non voglio nutrire la mia carne profanata, oltraggiata dal suo donarsi a qualcuno che ha risposto soprattutto con indifferenza e paragoni continui (e che amo ancora, nonostante tutto questo). Fasciata in vestiti sempre più piccoli, presi d’occasione, sono una Partenope di seconda mano, senza acque oscure ad avvolgermi. Per quello ci sono le stelle e i lamenti della gatta, che ha sempre fame. Io invece ingurgito quello che posso quando mi sento troppo debole.

Di conseguenza, visito sempre meno il panettiere sotto casa: un diciottenne magrebino che mi corteggia per ammazzare le lunghe ore davanti al bancone. Un giorno, insieme al cartoccio con la baguette precotta mi offre ridendo la sua compagnia. Posso addirittura scegliere tra lui e il suo collega, un coetaneo molto meno audace che lo osserva perplesso. Magari li preferisco entrambi, insinua il dongiovanni in erba.

Gli rispondo con un sorriso di plastica. Il cartoccio caldo resterà intatto, e il pane si trasformerà in un blocco di pietra. Come il mio corpo.

L’Amico di sempre mi segue da lontano, incapace di offrirmi altro che le sue interpretazioni: Bruno si è scelto per sé un copione che sfuma del tutto, con una donna vicino. Assento, ma non ci casco: la spiegazione più semplice è che in quel momento della sua vita non aveva di meglio.

Ma non riesco a essere cinica fino in fondo. Quel posto che conoscevamo solo noi, fatto di litigi e risate, lenzuola spiegazzate e carezze al mattino, quel posto io l’ho visto. L’ho abitato. Se Bruno si racconta che non è mai esistito, non sono io a perderci.

Lo rivedo alle feste di un quartiere che io detesto e lui ama: ormai fa caldo, e sono strizzata in un vestito taglia S, che comincia pure ad andarmi un po’ largo. Lui è con gente che non frequenta lo Spazio da un po’. Mentre chiacchiero a mezza voce con gli altri mi sento i suoi occhi addosso, e mi viene quasi da ridere: è dall’inizio della serata che non smetto di confrontarmi alle passanti. Questa gli piacerebbe più di me, quest’altra no...

Di lì a qualche giorno “passa” da me per questioni relative allo Spazio: mancano pochi mesi all’evento di beneficenza che dovrei coordinare. A un certo punto il discorso tra noi si fa teso, scivoloso. Sul letto ci finiamo soprattutto a parlare, finché non riassumo la situazione.

“Il problema è che io ti amo, e tu invece…”.

Non gli ho mai detto “ti amo”. La frase lo colpisce come un’accusa, come una faccenda domestica che non ha sbrigato come si deve. Mi spiega che un amico che era con lui alla festa di quartiere ha capito cosa c’era stato tra noi due. L’ha capito dal nostro… linguaggio del corpo.

“L’unico che sappiamo parlare” sorrido. “Perché mi guardavi in quel modo?”.

Ci pensa un momento, poi confessa:

“Stavo cercando di capire se eri molto carina oppure no”.

Un altro esame. Non mi dice se l’ho passato, forse per farlo dovrei sparire sul serio.

Per quanto ci provi, però, proprio non riesco.

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La gatta e la luna

Non ci riesce.

Per lasciarmi si ingarbuglia in un’ora inutile di discussioni, che ci vede finire sul letto solo per parlare.

Sono io a gettare la spugna.

“Vuoi chiuderla qui?”.

“Sì!” grida lui.

Lo grida come quella donnina in camicia da notte gridava di essere prigioniera, la sera che doveva sancire l’inizio del mio grande amore. Il mio soltanto, a quanto pare, perché per Bruno è durato una settimana scarsa: proprio non riusciva a sopportarmi un giorno di più.

Come una malata, mi sottraggo alla luce. All’inizio, a farmi uscire di casa ci sono gli impegni allo Spazio. Riesco perfino a collaborare con Bruno a una rassegna cinematografica, omaggio improvvisato a un regista italiano appena morto. La prospettiva di vederlo comunque riesce a calmarmi un po’ l’ansia, ma a rassegna finita mi sento riavvolgere dal buio. Fortuna che, con quello, torna la gatta.

Aveva iniziato a intrufolarsi in casa mia passando per il terrazzo condominiale, che ora l’uomo col mastino ha chiuso agli umani. Di solito lei si piazzava su un lettino che mantenevo nel ripostiglio, per poterci dormire se avevo ospiti. L’unica volta che si era acciambellata addosso a Bruno, lui l’aveva accarezzata con un certo imbarazzo, poi aveva dichiarato che puzzava. Mi aveva incuriosito la combinazione tra le sue carezze impacciate e gli improperi che le dirigeva.

Subito dopo la rottura, me la sono presa con la gatta e col suo sguardo curioso: come si permetteva di intrufolarsi nel mio dolore? Un giorno ho provato a farla scendere dal lettino, e le è bastato allungare un artiglio per regalarmi un fiorellino di sangue. Alla fine mi è sembrato che scappasse via per pietà, quasi intenerita dalla mia impotenza. Da allora, mentre affondavo la testa nel cuscino per smorzare le urla, sentivo le sue zampine pestare forte il terrazzo condominiale, riportandomi a un mondo di suoni. Quella presenza lì, potevo accettarla.

La gatta ritorna una notte che sto piangendo.

Sono distesa sull’amaca che mi sono fatta montare in terrazzo, e non so con chi parlo: ti manifesteresti un momento, chiedo al buio, o ti devi sempre far pregare per tutto?

È proprio a quel punto che sento un richiamo acuto: quasi un grido alla luna, che la gatta osserva dal davanzale di mattonelle. Poi c’è un tonfo di zampette, e uno strusciare ovattato che si interrompe solo quando sento un fagotto sotto la mia schiena, nel punto in cui la stoffa azzurra dell’amaca sfiora il suolo in pendenza. Da lì la mia ospite non può certo guardare la luna, ma la cosa non sembra importarle. È come se non avessimo mai litigato, come se in tutto questo tempo mi fosse rimasta accanto.

Decido che è un segno, perché mi serve crederlo. Ecco che mi sono ridotta ad aver bisogno di un segno. Ma ne ho abbastanza dei pasti che sto saltando, delle notti che passo sull’amaca a piangere e parlare in diretta con Dio.

La gatta sarà il mio nume tutelare, uno scudo felino contro il mio primo mito di fondazione: Partenope che non riesce a sedurre Ulisse, e per questo si lascia morire. Ho abbandonato quella storia sull’altra sponda del Mediterraneo, ma non è servito. Sei tua, mi dice il mito, finché non incroci il desiderio di un uomo. In quante ci abbiamo creduto, e per quanto tempo?

Eppure sulle spoglie di Partenope sorge una città.

A lunedì per il seguito!

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Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

A venerdì per il seguito!

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Totò ha gli occhi azzurri

Perché ti ostini a trattarmi come spazzatura?

Manca mezz’ora all’apertura dell’esposizione, e io me ne sto lì a scrivergli. Le dita mi scivolano da sole sulla tastiera del computer, di questo passo smetterò di contenermi. È quello che voglio? È quello che voglio. Esito solo un momento, poi lo scrivo.

Ha presente la sua ex, la Bella Stronza? Quella che era alta, portava la quarta “anche se non si vedeva”, e tutte le informazioni che Bruno mi ha dato mentre distesa accanto a lui c’ero io? Ebbene, la Bella Stronza è uguale a Totò, a parte gli occhi. Mi umilia il fatto che lui mi consideri appena passabile, dunque indegna delle sue attenzioni, e poi mi ponga come modello di estrema bellezza una che è Totò con gli occhi azzurri.

Scrivo proprio così. Fanculo ai miei anni di femminismo attivo, al master in Studi di Genere, al dottorato analogo che mi ha portato fino a Barcellona. Quando premo Invio, sono messa davanti al fatto compiuto: ho risposto alle bassezze di Bruno prendendomela con un’altra donna. Una che non conosco nemmeno, che non mi ha mai fatto niente.

Riesco solo a pensare: mai più, cazzo. Non devo farlo più. E devo anche smetterla di circondarmi di gente che tiri fuori il peggio di me.

Il fatto è che l’ho incrociata davvero, la Bella Stronza, mentre girovagava tra i baretti del Gotico insieme a certi amici suoi… E niente, mi sono messa a piangere con discrezione mentre andavo avanti per la mia strada: non avrei mai voluto essere lei. Eppure per mesi la mia identità è stata ridotta proprio al fatto di non esserlo.

Bruno si collega quasi subito: è vero che non sta facendo tutto come dovrebbe, ma io gli metto troppa fretta! Non ci credo, che mi parli di fretta dopo che ho passato sei mesi a fargli da donna invisibile. Poi capisco: per lui non sono mai stati “sei mesi”. Quello che vede è una serie di episodi in cui si trovava a “passare”, poi si infilava gli auricolari e annegava nella musica ogni traccia di me.

Però mi giura che la sera prima, mentre discuteva di luci con la coppia di Napoli, si chiedeva anche lui perché mi stesse ignorando. Era pure rimasto deluso, al ritrovarsi i due artisti alla porta senza me ad accompagnarli: si era chiesto sul serio dove mi fossi cacciata, pensando a me in virtù di quella assenza. Dunque è la mia presenza che proprio non tollera, parafraso. Il suo mea culpa si sta trasformando in autocommiserazione, ma all’ultimo momento lui devia verso il dettaglio che vorrei dimenticare: la mia definizione della Bella Stronza. Il paragone con Totò ha intrigato Bruno come qualcosa di assurdo da decifrare, e a me viene quasi da ridere: eccola che ritorna, la sua ex, che si vendica di quella mia critica stupida rubandomi la scena una volta di più.

“Raggiungimi più tardi all’esposizione” gli ordino, ma si ribella subito: si è già sbattuto abbastanza, ci arrangiassimo da soli! Sì, capisce che glielo chiedo per noi due, ma stasera non può farci niente. Stasera ha altro da fare.

Ho una foto della cena organizzata dopo l’esposizione.

Sono a un tavolo con due coppie: quella di Napoli che esponeva i quadri, e un’altra che mi ha appena consegnato l’invito per il suo matrimonio. Il pittore di Napoli ha appena fatto una gaffe, dando per scontato che avrei partecipato alle nozze con un compagno. “Invitalo pure” si è affrettato a concedere il futuro sposo. “Non sapevamo ci fosse un fortunato…”.

Per un lungo istante ho perso le parole. Al matrimonio ci sarei andata da sola, ho precisato poi, e intanto pensavo: cazzo, quelle lì sono coppie vere, mentre io sto con uno che si vergogna di me e si autocommisera per la sua vergogna, sentendosi un eroe per il solo fatto di “provarci” comunque.

Eppure nella foto sorrido. Sono di nuovo in tiro, ho un bel foulard. Sembro stonare nella mia eleganza inutile, contrapposta alla tenuta sfiziosa delle altre due commensali: nella nostra ultima, brevissima interazione allo Spazio, Bruno aveva già fatto apprezzamenti con me sulla pittrice napoletana.

Torno a casa stremata. Ho fatto il mio lavoro di coordinatrice: a quanto pare sono tutti contenti, e io non ho più energie. Anche Bruno ha fatto il suo lavoro: la serata di raccoglimento gli ha fatto recuperare la sua etica integerrima. Mi ha dato la sua parola che ci avremmo provato, e non la sta mantenendo. Però quando “passa” di nuovo gli do addosso in un modo che non si aspettava, e all’improvviso mi interrompe per chiedere a sproposito:

“Sabato verresti a cena da me? Ho un’ospite”.

Non è un’ospite: è l’amica per eccellenza, che non vive a Barcellona e, benché a distanza, gli fa da consigliera su tutto. Forse Bruno vuole sottopormi al suo autorevole giudizio, oppure quello è il suo modo di “costringersi” a fare cose da fidanzato, come invitarmi se ha ospiti in casa.

Nella mia mente già inizio a selezionare l’abito che indosserò. Devo essere perfetta. Perfetta.

Dopo l’invito a cena è più disposto a trattenersi, come se a quel punto non gli restasse altra scelta che prestarmi attenzione. Sta interpretando il copione di fidanzato, ce la sta mettendo tutta, e io gli faccio da spalla, incrociando le dita.

In quel momento non so che altro fare.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Paesaggi

Adesso abbiamo un nome.

“Fidanzati” non lo dice mai, ma dice tutto il resto. Tutt’a un tratto aumenta il tempo che passiamo a parlare in terrazzo, godendoci la primavera tra le antenne del Raval. L’uomo col mastino spiasse pure: sono contenta lo stesso, avevo ragione ad aspettare. Bruno ce la sta mettendo tutta, prima aveva solo un po’ di paura.

Continua a farne una questione “etica”: ho ragione io, non va bene che si passi la notte insieme e al mattino ci si tratti da sconosciuti. È uno che prova sempre a fare la cosa giusta, non vuole sbagliare proprio con me.

Ora che l’amore sembra filare, mi apro al resto. Mi lascio invitare al bar dalla mia ex insegnante di scrittura creativa: forse c’è un lavoretto per me, in una casa editrice appena nata. Pagano una miseria, ma si tratta di leggere un libro in inglese e compilarci una scheda. Accetto senza pensarci, mentre il barista fa una battuta discreta sul colore dei miei occhi. La vita è bella.

Bruno mi incoraggia, anche lui è tornato a cercare lavoro. Ancora non usciamo “insieme”, intuisco che davanti agli altri gli ci vuole tempo, anche se insisto perché lui smetta di evitarmi, o trattarmi come un’amica quando va bene. E allora si impegna: quando partecipiamo a un evento in rappresentanza dello Spazio mi abbraccia una volta o due, mi resta vicino. È un inizio, mi dico. La prova del nove sarà allo Spazio, nel territorio che io gli avrei usurpato.

Presto inaugureremo una mostra di paesaggi.

La coppia che espone è di Napoli: con loro sono io a prendere accordi, mentre Bruno si incarica di appendere i dipinti alle pareti dello Spazio. Ho evitato di andare di persona a sovrintendere, a lui non piacerebbe. La profezia sulla mia inesperienza col “progetto” non si sta realizzando: il calo di entusiasmo si è verificato prima che subentrassi io, e a detta di tutti (escluso Bruno, che non si pronuncia), mi sto rivelando un buon acquisto.

Incontro la coppia di Napoli dopo la seduta dalla Petulante. Ho un tubino bordeaux con foulard abbinato, e una linea scura sugli occhi. Quando mi ha vista così in tiro, la Petulante mi ha assecondata con un sorriso di circostanza: aspetta, sembrava dirmi, e vedrai se conciarti così serve a qualcosa. La Petulante è una stronza.

Sotto al portone dello Spazio sono trattenuta da una telefonata, e segnalo alla coppia di salire: ad accoglierli ci penserà “il nostro incaricato”.

Quando Bruno apre la porta anche a me, l’istante di gioia che gli leggo negli occhi cede il posto a una specie di sorpresa. È come se non mi associasse a quel luogo, e al tempo che ha appena trascorso a lavorare lì dentro. Ancora una volta non sono che un’estranea, una che ha invaso il suo Spazio.

La coppia ha qualcosa da ridire sulla posizione delle luci, e lui assecondando le richieste diventa quasi professionale: è il padrone di casa, io sono un’intrusa. Mentre riposiziona i quadri devo osservarlo in disparte, come una potenziale acquirente che è arrivata troppo presto.

In fondo è un’opera d’arte anche il suo talento nell’ignorarmi.

Stavolta rimando le spiegazioni a un momento più tranquillo. Gli accenno soltanto, via messaggio, che dopo la mostra vorrei un chiarimento importante. Ma in fondo non sono preoccupata: è questione di tempo, benedetto tempo. Il mattino dopo, con la coppia di Napoli montiamo un video divertente sulla Rambla per promuovere l’esposizione, e finisco per cantare ‘Na sera ‘e maggio con un gruppo di argentini. Quando mi lascio trasportare, ricordo che c’è vita al di là di Bruno.

Solo a casa mi rendo conto del messaggio, ricevuto ore prima: non viene alla mostra. Gli dispiace informarmi adesso, ma non gli è riuscito di mandarlo più presto. Non accenna nemmeno al fatto che gli voglia parlare, che gli abbia detto che è urgente. Ha delle cose da fare, e gli sembra di essersi sbattuto fin troppo negli ultimi tempi.

Forse, se lo chiamassi un momento, sentirei in sottofondo il rumore della lavatrice.

A lunedì per il seguito!

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Prigioniera

Cosa diavolo ho visto?

Sono a cento metri da casa di Bruno, dalla cena che a quanto pare ci consacrerà come coppia. Ma devo tornare sui miei passi: dietro a un portone con le inferriate moderniste, una donnina molto anziana, in camicia da notte, sta spingendo i vetri con tutte le sue forze. L’hanno chiusa dentro, mi grida, una donna malvagia l’ha ingannata. Che sia la vittima di un furto, ancora sotto shock? Provo a bussare ai citofoni, ma non risponde nessuno. Bruno accorre alla mia chiamata con una velocità che non mi aspettavo: mi avverte che quella è una casa di riposo.

Alle spalle dell’anziana si materializzano un uomo e una donna in camice verdolino. Questa fa sempre così, assicura l’uomo, è pazza. Non è vero, grida la diretta interessata, e pure io accenno a protestare, ma l’uomo non mi ascolta: sta per portarsi via quella donnina in camicia da notte, e l’unica cosa che posso fare è prometterle che verrò a visitarla. Il pensiero sembra tirarla un po’ su.

Arrivo a casa di Bruno che sono ancora senza parole. Lui inizia a raccontarmi di una nonna lontana che conosce solo il dialetto, e in nessun momento accenna a noi due, alla storia che inizia una volta per tutte. Col mio strano ultimatum gli ho dato un’occasione d’oro: riconoscere che stiamo insieme senza mai ammetterlo ad alta voce. Bastava l’invito a cena. In fondo lui ama cucinare.

Non mi arrendo: sul suo letto a una piazza provo a scucirgli le parole, come se fossero una formula magica che spazzi via l’ansia. Allora, stiamo insieme o no? Lo vedo soppesare la domanda.

“Se no, non ti invitavo” risponde.

È comunque una festa.

Il mio corpo esulta di una gioia perfetta, e mi risveglio pure con meno lividi del solito. Rivestendomi ricordo il testo di una canzonetta Brit pop, dei tempi del mio Erasmus: questa potrebbe essere la fine di tutto, quindi perché non ce ne andiamo in un posto che conosciamo solo noi?

Che sciocchezza, questo per noi è l’inizio! E poi Bruno troverebbe quel pezzo troppo commerciale.

Tornando a casa passo davanti alla mia chiesa preferita, Sant Pau del Camp: ho una voglia improvvisa di dire grazie a qualcuno. Ma vengo fermata all’ingresso: una donna seduta a un tavolo disseminato di santini mi fa capire che, se non sgancio un obolo, la mia presenza lì non è gradita.

Allora saluto senza rimpianti la navata avvolta in penombra. Dietro la chiesa ci sono due file troppo ordinate di alberi immersi nel sole, piantati apposta per fare ombra a qualche auto, ma all’improvviso quel boschetto improvvisato mi sembra più sacro della navata buia, dei santini in vendita.

Osservando il sole tra le foglie penso: se ci sei, grazie. Fa’ che stavolta vada bene.

Ma l’immagine della donnina che scuote il portone non mi abbandona più.

A venerdì per il seguito!

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Ultimatum

Non conosco più le regole.

Lui “passa” da me, si emoziona, mi emoziona. Ci sono le risate e il cibo condiviso, la passione e il sonno. Poi capisco dal suo silenzio che sta per andare. Prima di uscire si infila gli auricolari, e io divento rumore di fondo. Lo dice anche lui: finché sta con me, sta bene. Poi scivolo via dalla sua giornata, e non sa come impedirlo.

Una volta sola non mi ha resistito: eravamo allo Spazio, io esibivo un taglio nuovo e indossavo un vestito di marca, appena comprato in offerta. Lui aveva avuto una brutta giornata, di quelle che ti fanno credere di essere fuori dal mondo. Voleva sentirsi normale. Continuava a dirmi che ero proprio carina, quella sera. Mi ha abbracciata tra i sacchi della spazzatura che ci eravamo offerti entrambi di buttare, andando via insieme. Non l’avevo mai visto così, non in strada, davanti ai passanti. Mentre mi rannicchiavo tra le lenzuola e la sua pelle odorosa di cibo, l’ho scoperto a fissarmi con un sorriso benevolo: ero così “brava”, mi ha detto, che avrebbe voluto che tutti gli altri mi provassero. Anche stavolta non si è spiegato le mie lacrime improvvise, e si è affrettato ad abbracciarmi: il suo voleva essere un complimento, autentico. Gli dispiaceva che l’avessi presa così, quando ero con lui dovevo sentirmi sempre a mio agio.

C’è un rituale che ormai accompagna le nostre rotture: prima di infilarsi gli auricolari mi dà tre baci, i primi due sulle guance e l’ultimo, più lento, sulla fronte. Lui si sente molto nobile nell’addio: sta facendo la cosa giusta, si ripete, a costo di non battere chiodo per chissà quanto. Poi torna a “passare”, e io non lo mando via, non lo so fare più.

Gli sembra normale questa roba?

Questo gli scrivo, dopo che mi ha piantato di notte sulla Rambla per preparare una salsa piccante. Quello che non gli scrivo è che ho cominciato anch’io a paragonarmi alle altre. Per strada, nei negozi. Le osservo una a una e mi dico: “Questa gli piacerebbe più di me, questa no”. È un vizio che non mi abbandonerà mai per davvero, che tornerà nei periodi più agitati. Per sentirmi più sicura mi “faccio bella” con due soldi, vado spesso da Kiko e nelle catene di parrucchieri a buon mercato (una volta gli è piaciuto il mio ritorno al biondo scuro, quasi castano). Cerco vestiti di seconda mano che mi evidenzino i “punti forti”, e facciano sparire il resto. Mi ripeto che lo faccio per me.

I complimenti altrui non mi saziano. L’unica a rimanere perplessa dal mio cambiamento è la Divina: quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. A una serata di danze brasiliane mi squadra a lungo i capelli dalla tinta giallastra, sbagliata da una parrucchiera inesperta. Non mi dice niente, ma mi arrabbio lo stesso: non siamo mica tutte bellissime al naturale, come lei! Sulla Rambla i turisti ubriachi mi chiamano Shakira o Lady Gaga, a seconda di come mi sia pettinata, e quasi mi diverte l’idea di rievocare donne così diverse.

Ma di questo a Bruno non scrivo nulla.

La sua riposta al mio sfogo arriva la sera successiva: non riesce a vederci come coppia, sta provando a capire perché. C’è ancora la nobiltà di quando parla di chiudere, privandosi dell’unica “occasione” sicura, ma la chiosa è ambigua, come se lasciasse a me l’onere dell’ultima parola.

Lo contatto all’istante: non ho capito, che vuole fare allora? Va fuori dai gangheri. Sapeva che gli avrei scritto proprio in quel momento! Sta per uscire ed è già in ritardo, lui che mi fa aspettare anche due ore quando l’appuntamento ce l’ha con me. E poi non può spiegarsi meglio, va bene? Non sa come farlo. Capisco che si sente molto generoso a parlarmi ora che dovrebbe solo scappare, scappare, tutto preso da quell’impegno più urgente di me.

Ripenso alla storiella della rana nella pentola: se questo schifo fosse successo solo un mese prima, gli avrei riso in faccia e l’avrei cancellato dalla mia vita. Ora non ci riesco. Con Bruno non è mai tutto orribile, né tutto fantastico: c’è sempre la giusta miscela che lo fa tornare, che mi fa aprire la porta da cui lui uscirà con gli auricolari a palla, riducendomi a un rumore di fondo.

Chissà se mi fa una colpa anche di questo, della mia incapacità di bastargli.

Io invece sono nelle sabbie mobili. Non voglio credere di aver perso tutto questo tempo, e allora aspetto, e ne perdo ancora di più.

Ma ora so cosa succederà. Bruno tornerà presto a “passare”, e una sera saremo allo Spazio, e i Morti di Figo lo stuzzicheranno con domandine su questa o quella ragazza, e lui darà il suo “parere tecnico” proprio davanti a me: a quella che avrà finto di incontrare giusto sotto il portone, un’ora dopo averle lasciato strani lividi addosso.

Allora qualcosa in me si incepperà.

Quando succede tutto questo, è l’ultima volta che fuggo. Per arrivare a casa imbocco scorciatoie, evito i passanti sulla Rambla mentre la mente si perde nel solito mulinare di giudizi: questa gli piacerebbe, quest’altra no. 

Quella notte, il messaggio che mando a Bruno è un ultimatum.

Lo rivedrò solo se stiamo insieme, davvero. Se accetta mi invitasse a cena da lui, per una volta. Altrimenti gli basta non rispondere, e sparirò dalla circolazione. 

Quando mi arriva il suo messaggio è tardi, e io vorrei solo dormire bene. Mi devo calmare un bel po’, prima di leggere.

A mercoledì per il seguito!

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Ricordati di preparare la salsa

Da buonissimo.it

Dico di sì, e vado a stanare Bruno.

È collassato sul divano all’ingresso dello Spazio, per la mangiata che si è fatto mentre cucinavo.

“Comportati bene” scherzo, “da oggi in poi coordino io gli eventi qua dentro, e ti comanderò a bacchetta!”.

Non fa nulla per nascondere la sorpresa: sarò anche brava, dice, ma è troppo presto. Sono coinvolta da poco tempo in quel progetto che lui ha visto crescere, mi mancano ancora gli strumenti per capirlo fino in fondo. È molto pacato mentre mi spiega tutto questo, tanto che a un certo punto gli credo: non sono capace. Poi mi dico che non mi ci vorrà certo un altro dottorato, per organizzare qualche evento! Ma lui ha l’arte di ridimensionare con gentilezza ciò che dico, che faccio. Leggo libri “pesi”, vivo nell’odiato centro storico, e ascolto cantautori noiosi, che in realtà non ascolto affatto. Quello che scrivo sul blog è simpatico, ne capisce il successo, ma “non lo attira particolarmente”. A quanto pare a non convincerlo è il tono spensierato, la voglia di ridere che sembro avere sempre. Sarà per questo, sospetto a volte, che lui si impegna a fondo per farmela passare.

È come se nella sua testa venissi con tutto un pacchetto di caratteristiche fisse, definitive, che spesso non hanno niente a che vedere con me.

Dopo la mia “elezione”, ogni volta che mi toccherà fare un discorsetto nello Spazio, perfino i Morti di Figo si schiereranno in prima fila a farmi da claque, e un istante prima di cominciare, dal palco o dall’angolo in cui avranno piazzato il mio microfono, vedrò con la coda dell’occhio Bruno che si dilegua, magari a caccia di qualcosa da mangiare. Oppure diserterà l’evento, perché tanto non si sarebbe perso niente. Mi lascia volentieri il “successo di pubblico”, come se fossi un cinepanettone.

Con quelle che vincono il suo premio alla critica, la fascinazione va al di là del desiderio: mentre si riveste mi spiega tranquillo che con questa o quest’altra ci prenderebbe un caffè, ci farebbe una passeggiata… È tutto quello che vuole, e tutto quello che non fa con me. Se io sapessi quanto si sentono insicure, proprio le più belle! A modo suo è sensibile, trovo il coraggio di pensare. Ha un’idea tutta sua dell’amore e delle priorità, ma si aggiusterà anche questo, se ho pazienza. Ne sono proprio convinta, fino a un mercoledì sera.

La festa allo Spazio è stata affollata, tra discussioni politiche e bicchieri di vino. A un certo punto Barcellona si è fatta sonnacchiosa, come accade a volte nei giorni feriali: ci è venuto a noia discutere o brindare, ma neanche accenniamo ad andarcene. Bruno e io restiamo un po’ isolati, e sono io ad aprire le danze: si è fatto tardi, perché non resta da me? Così evita di farsi una corsa per prendere l’ultima metropolitana. Lui nicchia, come sempre: con tutto quello che ha da fare in casa… Mi accorgo che non sono le solite schermaglie, stavolta sembra deciso. Forse lo aspetta il bucato, o una traduzione in nero. Come una scema inizio a prevenire le esigenze che potrebbero sorgergli a casa mia: ho uno spazzolino in più, può lavorare dal mio pc, c’è abbastanza latte per la colazione… Se qualcuno tendesse l’orecchio, forse proverebbe pietà.

Con gli occhi socchiusi e la fronte tesa, lui sembra passare in rassegna tutte le cose che in quel momento sono più importanti di me. Siamo ormai sulla Rambla, quando pronuncia il verdetto. Il suo coinquilino gli ha passato la ricetta di un sugo piccante, specialità della madre, e a Bruno è venuta voglia di cimentarsi proprio adesso in una sua versione. E no, per questi esperimenti preferisce la cucina sua.

Ci metto un po’ a processare l’informazione: per Bruno la salsa piccante è una priorità, io no. Io sono buona solo a tamponare l’appetito.

La sua fame, quella vera, non passa mai per me.

A lunedì per il seguito!

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Alla più bella

Arriviamo insieme.

Arriviamo trafelati e in disordine, ma davanti agli altri dello Spazio lui si comporta come se ci fossimo appena incontrati sul portone.

Decido di ignorarlo. Vivo a Barcellona, ci sono cause migliori da perdere. E lo Spazio ha il problema di tutti gli spazi: prima era meglio. A sentire gli habitué se n’è andata troppa gente, lasciando le redini al Figo e alla sua claque di Morti. È una situazione che all’improvviso voglio cambiare, che so cambiare. Voglio implicarmi in qualcosa, e questo desiderio si traduce sia in spagnolo che in catalano con “voglio bagnarmi”. A Bruno lo scrivo in catalano, per non dare adito a equivoci imbarazzanti: sto per occupare uno Spazio che lui considera più suo che mio, memore com’è di una presunta epoca d’oro che io mi sarei persa.

Comunque sia, mi pare, lì dentro c’è posto per entrambi.

Come risultato lui torna a “passare” da me proprio il giorno della mia prima riunione, “così ci andiamo insieme”. Dice che si ripromette sempre di non tornare, ma poi lo fa, e io non riesco più a mandarlo via.

La riunione è partecipata, c’è addirittura qualche donna. Progettiamo esposizioni, feste per raccogliere fondi, e una serata di beneficenza che si terrà a novembre: con l’entusiasmo della neofita avanzo proposte anche a verbale concluso. Quando restiamo in quattro gatti, e pure Bruno si è eclissato, uno dei Morti di Figo propone di reclutare una bella frequentatrice dello Spazio come cassiera alla prossima festa, a patto che sfoggi una scollatura da antologia. La trovata crea imbarazzo perfino tra gli uomini presenti. Lo racconto poi a Bruno mentre restiamo a chiacchierare sul letto: mi diventa femminista.

“Facciamo tanto i compagni” commenta “e poi, come strategia di marketing, mettiamo alla cassa la più bella!”.

Ancora classifiche. Ancora il promemoria che la più bella è un’altra, è sempre un’altra. Quando è arrabbiato con qualche Morto di Figo, Bruno ne critica prima i difetti, poi i successi, come se fossero stati usurpati a lui. La fidanzata “gnocca” rimane in fondo all’elenco, una postilla alle attestazioni di status, ma intanto sta con uno stronzo, mentre lui prova a fare sempre la cosa giusta… E si deve accontentare di me. Quest’ultima parte non ha bisogno di dirla. Quando glielo farò presente mi risponderà che “ci siamo accontentati a vicenda”, senza rendersi conto che intendiamo cose diverse: io mi sono accontentata delle sue attenzioni a metà, e lui di me, di me e basta.

A volte lo guardo con una pena che non so più provare per me stessa, e per la mia ostinazione a resistere, aspettare. Cosa direbbero allo Spazio, se sapessero di noi due? Chi di noi due si starebbe “accontentando”?

“So che hai un buon successo di pubblico” commenta lui quando, come una bambina, gli riferisco i complimenti di qualcun altro. È lui a consegnare il premio della critica, e io non sono neanche nella rosa finale, altrimenti mi tratterebbe meglio, questo mi è chiaro. Allora continuo a sforzarmi per vincere questo cazzo di premio.

Ma nessuno allo Spazio si fa domande: da me vogliono altro.

Alla fine di un pranzo collettivo in cui ho cucinato per quaranta persone (scuocendo la pasta perché Bruno non si decideva ad assaggiarla), mi chiamano da parte in due o tre. Voglio essere la coordinatrice dello Spazio? Solo per qualche mese. È vero che sono iscritta da poco, ma lavoro duro, e poi mi aiuteranno. Ci penso solo un momento.

A quanto pare non bisogna essere la più bella, per diventare quella che si sbatte di più.

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Nessuno è fesso

Ci separiamo per un po’.

Non voglio essere “il premio di consolazione” di qualcun altro. Anche a Bruno sembra ingiusto, ma non sa come evitarlo, dice. Ci sono perfino lacrime, non solo mie. Al mio compleanno lui mi porta il pranzo, preparato con le sue mani, poi spera che con questo gesto gli sia risparmiata la cena con gli altri al ristorante. Non lo forzo, ma neanche gli nascondo il mio disappunto. Ho pure tentato di dissuadere l’amica Occhiblù dal raggiungerci con le stampelle: ha avuto un incidente e viene apposta a festeggiare me, e io mi sento un verme, ma non voglio che Bruno faccia il cascamorto con un’altra davanti ai miei occhi. Cosa sto diventando? Alla fine lui arriva a cena quasi finita, mentre Occhiblù sta spiegando che il suo soccorritore, dopo l’incidente, ha finito per chiederle il numero di telefono. Il nuovo venuto approfitta per commentare: “Chiamalo fesso”.

Ma qua nessuno è fesso. A un evento dello Spazio conosco un bel ragazzo moro.

Anche stavolta ho disertato la riunione organizzativa, ma mi è sembrato giusto contribuire ai preparativi, portandomi dietro i vestiti da indossare dopo: tubino nero, calze traforate, e un fiore di stoffa riciclata, per adornare un collarino anni ’90. La regressione all’adolescenza è completa. Quando mi cade il fiore dal collo, lo infilo ridendo nella scollatura, e colgo un momento di imbarazzo nei due invitati a cui verso il vino: davvero a qualcuno viene l’idea balzana di guardarmi? Beh, c’è questo bel ragazzo moro che mi fissa da quando è entrato.

È un architetto, immerso in giri più fricchettoni dei miei. Mentre gli riempio il bicchiere mi parla di una Barcellona notturna e clandestina, popolata da artisti vagabondi e cani che gridano alla luna. Mi racconta di gente che non può permettersi neanche una stanzetta come la mia, rubata a un terrazzo condominiale: i paesaggi urbani che progetta lui comprendono anche quella gente lì, invece di riservare tutto lo spazio al miglior offerente. Vorrei che mi portasse con lui, una volta, in questo suo mondo notturno, ma mentre glielo dico fa il suo ingresso Bruno, tra applausi ironici: finalmente ha ritrovato la strada! Lui non ha voglia di scherzare: annuncia che andrà via presto perché “ha da fare”, poi si accascia contro una parete, e io provo a resistere, ma niente. A un certo punto abbandono la lezione di architettura per accovacciarmi davanti a Bruno. Tutto bene?

Per un momento il suo sguardo è simile a quello del ragazzo moro, e alle occhiate oblique sul fiorellino caduto. Poi lo vedo sorridere, come se mi avesse colta in flagrante:

“Hai le calze sfilate”.

Mi osservo le gambe: un foro nella trama di filo è più grande degli altri, si nota appena. Lui l’ha notato. La scoperta sembra risollevarlo.

Alla fine aggiungo a Facebook il bel ragazzo moro, ma il primo allarme mi scatta a un evento che mi ha consigliato, in un centro sociale a rischio sgombero. Non è un vero appuntamento, mi sono perfino portata dietro un’amica, ma lui si presenta a spettacolo finito, e inizia a conversare con mezzo mondo come se io fossi lì per caso. Posso aspettare “un po’”, mi chiede infine, per bere qualcosa insieme? Lo guardo fisso, gli sorrido, e vado a cenare con la mia amica. Qua nessuno è fesso. Al secondo incidente di questo tipo (un appuntamento rimandato a pochi minuti dall’incontro), la breve fitta che avverto allo stomaco mi annuncia che ho visto abbastanza, di questo bel ragazzo moro, e che nella mia vita non mi serve altro caos.

La Petulante si complimenta: finalmente ascolto il corpo! Però, aggiunge, l’istinto di fuggire dai guai si manifesta con un ragazzo che mi attrae da subito, e nonostante i tentativi frustrati sembra desideroso di vedermi. Con Bruno, invece, non avverto nessun mal di pancia premonitore. Ho qualche conclusione in merito? Sì, una: la Petulante è stronza forte. Ma non glielo dico.

Il ragazzo moro non sarà l’unico a distrarmi dalla mia ossessione, ma sarà quello che più mi farà dire: chissà. Una sera mi scrive mentre sono seduta sul letto, con la finestra aperta a sfidare l’uomo col mastino, che fa rumore sulle scale. Sono stanca di temere il suo rancore, e stanca di Bruno, che mi ha appena contattata in chat per sfogarsi sulla sua vita. Così, solo quella sera, mi godo i complimenti del bel ragazzo moro, e mi scopro a mettere su Pino Daniele. Sensazione unica, perché la musica ti prende anche l’anima

Le mie mani si muovono nell’aria che si sta facendo tiepida, promettendomi una primavera precoce.

Se il letto si muove, stavolta, è solo per seguire ritmi miei.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Gol!

Mi spiega che io sono un traguardo.

Sono la prima ragazza normale con cui riesce a stare! Un tempo le voleva troppo fighe, anche i suoi amici gli dicevano che doveva abbassare gli standard. Lo dice tranquillo mentre quasi sonnecchia, perché a me può dire tutto.

Non mi nasconde di mandare foto mie ai suoi amici, come mandava a me quelle della Bella Stronza (come se ci fosse paragone!). I commenti che mi riporta sono l’ovvia risposta alla domanda “che ne pensi?”. Di solito dicono che posso andare. Uno aveva fatto un’osservazione sulle mie origini napoletane. Solo una sua amica latina era entusiasta, ma aveva sbagliato a scrivere il mio nome in chat, e adesso lei e Bruno mi chiamano tra loro con quel nome storpiato. Sono stata ribattezzata a mia insaputa.

Ormai ho imparato a contare fino a dieci, quando mi dice queste cose. Cerco sempre una risposta che sia ragionevole e non polemica. Se lo critico per questioni del genere, si scalda molto: è solo uno sincero.

Il bello è che anche lui ha segnato un cambiamento, per me: da quando ero a Barcellona badavo di più all’attrazione fisica, perché se mi piaceva qualcuno mi scoprivo più spesso ricambiata. Con Bruno hanno prevalso altri fattori, però di lui non pensavo che fosse bello o brutto: non pensavo niente. Adesso so che sotto i vestiti che lo infagottano ha un bel corpo, e che non ci crederà mai.

Lui, invece, è felice di farcela “anche” con me. Mi fa strano sentirmi spiegare questo nella mia lingua, subito dopo una siesta. Nella penombra delle imposte chiuse ho come un’allucinazione: attraverso Bruno mi sta parlando l’Italia intera. Te l’ho detto che non valevi granché. Era inutile partire per averne la conferma.

Fin da quando l’ho richiamato, le settimane sono state tutte così: felici o tristi, senza vie di mezzo.

Quando va bene ridiamo, c’è il sole in terrazzo, a volte parliamo pure.

Quando va male non succede all’improvviso, mai. Un giorno ti dici che di ritardi ne ha sempre fatti, che se non ti scrive da due giorni sarà impegnato, che se ti parla delle altre è normale, no? Anche tu puoi parlargli degli altri.

L’unica volta che l’ho fatto pranzare da solo, perché intanto che arrivava avevo già digerito, l’ho lasciato davanti alla tavola apparecchiata, dichiarando che avrei schiacciato un pisolino. Gli sembrava strano, più delle due ore di ritardo con cui si era presentato. Io invece ero fiera di me. Poi mi sono pentita e sono tornata nella stanza a fargli compagnia.

Una notte, pur di addormentarsi nel suo letto lascia casa mia alle quattro. Mi richiama mezz’ora dopo: gli hanno scassinato casa. Gli inquilini erano ancora immersi nel sonno, se lui non fosse tornato a quell’ora avrebbero fatto la scoperta col sole già alto. Mi chiama per sfogarsi e per rassicurarmi di una cosa: non dirà a nessuno dov’era prima di rincasare. Si sente molto nobile per questo, il proverbiale gentiluomo che gode e tace. Io non mi sento così lusingata: cosa staremmo facendo di male? A meno che lui non si vergogni di me. La sua omertà è la soluzione a un problema che si è creato da solo. 

No, non succede all’improvviso. È come la storia della rana nell’acqua fredda, che non è neanche vera. Ma le frasi di Bruno lo sono, e io sono un traguardo, dunque, un “goal” che ha infilato alla vita. Abbiamo litigato pure su come si scriva goal: per lui esiste la versione italianizzata e si deve usare quella.

Io sono stanca di dover italianizzare tutto.

Ciò che non mi stanca ancora è sentirmi dire che non valgo niente.

A lunedì per il seguito!

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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ogni altra burrasca

Per quel tuo cuore che io largamente preferisco ad ogni altra burrasca (Amelia Rosselli).

Al risveglio percepisco la sua assenza.

Prima ancora di aprire gli occhi avverto il lenzuolo senza pieghe, e il piumone che scende piatto accanto a me. Il freddo mi invade da qualsiasi lato mi giri. Dal terrazzo condominiale non sento fruscii, né latrati soppressi, ma oggi la cosa non mi conforta. Tendo l’orecchio in cerca di passettini: d’estate la gatta dei vicini mi entra addirittura in casa, e me la ritrovo all’improvviso sotto al letto. Adesso, anche se facesse caldo, avrei paura a lasciare le imposte aperte. Non so perché la gatta mi abbia adottata, perché venga anche quando non ho cibo per lei.

Il buco che avverto allo stomaco non verrà colmato dal poco latte rimasto, anche se è tutto per me, e nessuno mi divorerà il pane cafone portato in valigia, che tanto si è fatto già gommoso.

Non ho tempo per le traduzioni in nero: ho un appuntamento tra un’oretta, con un gruppo di compaesani in vacanza. Mentre mi insapono davanti allo specchio mi chiedo: perché sono tornata a frequentare italiani? Troppi di loro pretendono ancora la trafila di farsi desiderare, cedere al momento giusto, adattarsi al ruolo dell’animale braccato che, però, si lascia catturare “solo quando vuole”… Questo balletto non mi interessa, non lo inizierò ora. Ma all’improvviso so perché, per qualcuna, è un’arma di difesa.

A pranzo coi compaesani mi scopro a scimmiottare gesti che un tempo mi sorgevano spontanei. L’arte di sfottersi a vicenda, così tipica delle mie parti, è diventata per me un gioco noioso. Che bisogno abbiamo di saltarci sempre alla gola?

Gli altri perseverano: in un dialetto che non so imitare fanno la gara a “chi è più fallito”, ma poi serrano i ranghi, con la familiarità degli amici cresciuti nello stesso palazzo. Io sono cresciuta in un villone anni ’70, con la proibizione di giocare in strada coi figli dei vicini: passavano le macchine. E la lingua di quei bambini era il codice di una tribù a cui non dovevo appartenere.

Quando mi arriva davanti il dolce, che non voglio nemmeno assaggiare, penso che non appartengo più a nessuna terra, a nessuna lingua, a niente. Appartengo solo alla pelle di Bruno. E a modo mio la possiedo.

Al ritorno, sulle scale c’è troppo silenzio. L’odore si fa insostenibile man mano che salgo: i bisogni di un cane. Sulla parete dell’ammezzato, una scritta dal colore sospetto avverte che lì dentro ci sono topi. Accanto alla scritta c’è la porta dei filippini, colpevoli di aver invaso di antenne il terrazzo condominiale. Il figlio più giovane non può più giocare in terrazzo, così lo fa in strada, col piccolo tunisino del quarto piano. Se mi vede passare, mi saluta con un “Buongiorno” perfetto. Sua madre è quella che ha “risposto male” all’uomo col mastino, che l’ha punita tagliando i fili delle antenne. È stata questa madre filippina a chiamare per prima l’agenzia immobiliare, perché ripristinasse la serratura del terrazzo. Ma l’uomo col mastino l’ha cambiata ancora una volta, poi due. Tanto quella “è casa sua”.

La polizia dice che per intervenire le servono prove.

Turandomi il naso raggiungo il mio piano e mando un messaggio a Bruno. Quando lui “riesce a passare”, gli dico: va bene, si fa come vuoi tu.

È l’ultima volta che sono io a tornare.

A venerdì per il seguito!

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Il linguaggio del corpo e della fame

da granconsigliodellaforchetta.it

Torno a Barcellona con una valigia piena di cose da mangiare.

Mentre gli scrivo mi accorgo che la mia camera è gelida: sarà un problema. L’unico linguaggio che condividiamo al momento è quello del corpo, e della fame.

Ci mette un po’ a rispondere: è tornato da poco anche lui, ha delle cose da fare. La pulizia della casa, il bucato… Non mi aspettavo certo si precipitasse! Magari il giorno dopo, o l’altro ancora…

No. Per vedermi gli servono quattro giorni. Aspetterò?

Chiudo gli occhi. Non ci vediamo da quindici giorni. Insieme ne abbiamo trascorsi solo due. Anche così, la sua lavatrice viene prima di me. Visto che avevo ragione? Era meglio chiuderla prima di Natale.

L’ho spiazzato ancora una volta: che problema c’è? Lui funziona così. Deve togliersi le preoccupazioni dalla testa, per potersi godere qualcosa.

Io non sono “qualcosa”, ricordo a me stessa chiudendo la conversazione. Non tornerò a ricordarmelo per un po’.

Il giorno dopo, la Petulante mi annuncia che Bruno e io abbiamo lo stesso disturbo. È un colpo basso: lei è la mia psicologa, e Bruno non l’ha mai visto. Le diagnosi non si fanno così. Ma ne è sicura, ci siamo trovati. Io da piccola ero di una religiosità ossessiva, dovevo recitare ogni Ave Maria senza distrarmi un attimo, o c’era da ricominciare. A volte guardavo sfinita giù dal balcone e pensavo: è solo un salto, tanto i bambini vanno in paradiso lo stesso. Secondo la Petulante, queste cose non passano mai per davvero. Bruno non mi ha mai parlato di epoche così, ma i suoi impegni quotidiani sembrano una tela di Penelope da disfare ogni minuto, e adesso io sono un impiccio, un difetto nella trama.

“Sei a casa?”.

Il messaggio mi arriva alla fine di una giornata piena d’ansia.

Bruno scrive come se non fosse successo niente. Sta uscendo ora dallo Spazio, se voglio può “passare”. Questo uso del verbo mi colpisce sempre: per me vuol dire al massimo “fare una capatina”, per lui significa restare a cena, o anche a dormire.

Anticipo l’irritazione per il tempo che ci metterà a salutare tutti, e percorrere settecento metri. Mezz’ora, stavolta: sta ancora imprecando contro la folla in strada mentre si getta sul divano. Ha un atteggiamento remissivo, e un po’ compiaciuto: è passato perché gli dispiaceva che “me la fossi presa”, ma lui è fatto così, mi assicura, prima il dovere e poi il piacere. E, a proposito di piacere…

Ritiro la mano che mi ha afferrato e scatto in piedi. È l’unica cosa che è venuto a fare? Allora è solo per questo che ha sottratto tempo alle pulizie generali! O magari vuole un premio per la sola generosità di “passare”…

L’ho spiazzato un’altra volta.

“Forse avevi ragione” borbotta. “Dovremmo smetterla con questa storia”.

Solo perché avrei voluto spiccicarci due parole, prima di ritrovarmi con la mano su una zip?

“Purtroppo so quello che voglio” dichiaro allora. “E so che tu non me lo puoi dare”.

Mentre lo vedo andarsene, ci credo pure.

A mercoledì per il seguito!

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