Mentre il re di Spagna abdicava, io facevo la spesa per il 2 giugno. Per un aperitivo che avrebbe coronato un evento reso emblematico dai fatti.
Emblematico, e a quel punto un po’ inopportuno, visto che uno degli organizzatori si sarebbe presentato in ritardo, avrebbe farfugliato qualcosa sulla Storia che ci sfilava davanti sotto i nostri occhi, e un’oretta dopo sarebbe andato a inseguirla, perso forse tra le bandiere repubblicane di Plaça Catalunya.
Anche io avrei voluto inseguire quelle bandiere, dopo, mentre affettavo formaggio di supermercato e ci mettevo una goccina di miele, per renderlo più buono.
Ma la storia fa così, la nostra personale e “quella con la S maiuscola” (con la I maiuscola, disse una volta un ministro francese parlando dell’histoire).
A inseguirla si ha sempre un po’ paura, perché si teme il senno di poi.
Il senno di poi è una brutta storia. Ora ci sarà questo nuovo re, Felipe VI, e forse la petizione di un referendum per la repubblica lascerà il tempo che trova. Qualche indipendentista catalano già lamenta tutte quelle bandiere, repubblicane sì, ma spagnole. Mentre loro vogliono la repubblica, sì, ma catalana.
E scommetto che i principali osservatori politici sapranno già dirci come andrà a finire. Con un solo problema: non lo sa nessuno.
Nemmeno Gennaro D’Auria.
Quello che sicuramente possiamo prevedere, comunque vada, sono i ve l’avevo detto.
Le speranze si dissolveranno in una bolla di sapone? Ve l’avevo detto, punteranno il dito su Facebook.
Si avvererà almeno un decimo di ciò che si auspica in queste ore? Prevedibile, cinguetteranno su Twitter.
Il senno di poi è uno di quei mostri quotidiani con cui facciamo i conti e, dopo un po’, neanche sembra tanto brutto, ma piuttosto che affrontarlo ci rifugiamo nel cauto pessimismo che apparentemente non fa male a nessuno, perché “ci piacerebbe essere smentiti”, ma se non succede ci possiamo sempre barricare dietro il ve l’avevo detto.
Sfido io, il senno di poi lo conosciamo bene, in ogni aspetto della vita. Quando al lavoro il manager mi chiese “in gran segreto” un’opinione su un collega, per poi licenziarlo una settimana dopo e tenersi me, mi dissi che non potevo prevedere, che almeno ne avevo parlato bene, che poi un indizio sulla conversazione, al collega, gliel’avevo dato. Piansi pure un po’, come all’asilo. Poi seppi che era la politica dell’azienda, metterne tre a fare lo stesso lavoro e tenersi quello che preferivano, e la cosa improvvisamente mi sembrò meno drammatica, come se, esteso ad altri casi, non fosse più un modo di giocare col tempo della gente.
Anche in amore, abbiamo già dato. Quando veniamo scaricati per qualcun altro, un anno di sforzi, di alti e bassi per tener su una cosa che non stava in piedi diventa improvvisamente un evidente errore, di cui l’altro ahimé non si è accorto finché non è scesa questa Venere dall’Iperuranio, o non è giunto questo Principe Azzurro al galoppo, e tutto è stato chiaro. Salvo poi dare alla questione una nuova luce, quando la Venere e il Principe se la squagliano a loro volta.
Tutto vero, per carità. Ma non ci accorgiamo che il senno di poi ci priva di molte cose. Ci priva della speranza, dell’adrenalina, dell’illusione, che ormai si è capito che non sempre è un problema.
Come ci sentiamo, quando la Venere la incontriamo noi? Annaspiamo nel vuoto. Ci manca l’aria mentre lasciamo la vecchia storia per qualcosa che magari non si è ancora compiuto, ma sentiamo che è giusto così. A prescindere da come vada, quel momento è solo nostro.
E se va male, ci sarà quel limbo, quel momento in cui il nostro cuore o il nostro masochismo sfuggiranno a tutte le regole della ragione, agli appelli degli amici, a tutto quanto sia mai stato scritto sul buonsenso, e ci sentiremo dei piccoli eroi ad andare avanti nella nostra chimera, contro ogni logica. Finché il senno di poi annullerà questa sensazione liquidandola con un “Come stavo male, eh? Meno male che con te ho ritrovato la serenità, amore mio”.
Ma il senno di poi causa più paura di quanta dovrebbe, e lo fa proprio perché è una paura occulta, che non sempre ci riveliamo. La solita paura di illuderci.
Tranquilli, se non esiste il successo totale, non c’è neanche il fallimento perfetto.
Io ce l’ho già avuto, nella politica spagnola, un senno di poi. Con gli Indignados. Ai tempi sembrò che si dovesse cambiare il mondo, che le primavere arabe facessero scuola, che la politica, così come l’avevamo intesa, non esistesse più.
E invece tutto è cambiato perché nulla cambiasse. Ma è anche vero che non è cambiato nulla, perché tutto cambiasse. Che le energie degli indignados sono state convogliate in tanti altri movimenti, come la PAH. E anche ieri, quando finalmente abbiamo riposto l’ultimo vassoio unto di patatine e siamo corsi in Plaça Catalunya, vedevo lo stesso senso del gruppo, lo stesso spirito collettivo respirato nelle lunghe assemblee di piazza con quei gesti imparati con le mani per dire sì, no, cambiamo argomento.
Quei gesti non si facevano più, ma era la stessa gente che o ci credeva davvero, o non era disposta a lasciar perdere senza prima provarci. Che è la cosa che più mi piace, della mia seconda patria. Quella che mi piacerebbe trasmettere alla prima.
E a quelli che me l’avevano detto, sugli indignados, quelli che già me lo dicono ora, che sfumerà tutto nelle tinte pastello sfoggiate dalla nuova regina (una regina repubblicana, dicono), a loro forse farebbe bene, il senno di prima. Quel momento di poco senno e molta speranza che a qualcosa sempre porta, fosse anche solo l’inizio di quello che sapremo realizzare più avanti, con più energie, quando il cammino sarà più chiaro.