Ora ci tocca un lungo gennaio. Pronti? Si parlava degli occhi infantili con cui ci siamo guardati durante le feste. La domanda è: riusciremo a conservarli, senza che il ritorno alla routine li offuschi?
Due estati fa andai a una specie di seminario a Parigi, attirandomi le ire della mia prof. catalana, per cui stavo facendo delle ricerche in archivio. Non fu un’esperienza folgorante, ma tornai rinnovata. Trascinando la mia valigia sul marciapiede di fronte all’Estació del Nord, ebbi la sensazione che la parte più importante di quel viaggio fosse il ritorno, perché avrei messo in pratica le cose importanti che pur avevo imparato interagendo coi compagni di corso.
Quante volte abbiamo avuto una sensazione del genere, al ritorno? Quella di essere diversi da come eravamo partiti e voler applicare questa diversità alla routine a cui torniamo. Eppure, a un certo punto, questa routine ci assorbe e non conserviamo che due o tre cose, quando va bene, del cambiamento che volevamo procurare. Succedeva fin da quando, tornati dal mare con tutti gli indirizzi dei nostri nuovi amici, ci scordavamo di scrivere oppure mandavamo, dopo tanto tempo, una lettera che non riceveva risposta. Al primo mese di scuola potevamo ancora scrivere “fuori uno” sulla Smemo, ma al secondo ci eravamo già fidanzate con quello dell’ultimo anno, con buona pace del milanese dell’ombrellone affianco.
Ebbene, vi dico che il cambiamento di quel seminario, in un certo senso, me lo porto dietro ancora adesso. Perché? Perché allora ho intuito come conservarlo: il cambiamento dev’essere miele, nella nostra vita, e non olio.
Dal mare tornavamo compatti e densi, come olio, e la marea della nostra vita quotidana ci travolgeva a poco a poco finché del cambiamento non rimaneva una lunga macchia sozza, sempre più piccola man mano che ci immergevamo nella normalità. Fino a perdersi nella pallida scia del ricordo.
Le lezioni di quel seminario, invece, furono per me come miele. Le mescolai pian piano nella vita di tutti i giorni, goccia a goccia, dosando bene: crediamo di non poter fare qualcosa da soli finché non lo facciamo (riferito al trasporto in aula di certi banchi a due posti); le persone sono arroganti con noi solo finché glielo permettiamo (litigai con un galletto italiano in classe che voleva sempre meic a provochescion); se non ci piace una cosa meglio smettere di farla, che perdere tempo per non scontentare nessuno (abbandonai una sessione particolarmente ridicola di Teatro dell’oppresso e me ne andai in giro per Parigi).
Certo, i primi momenti del ritorno sono i più ricchi di energia, e questo va usato a nostro vantaggio: io affrontai definitivamente un ex il pomeriggio stesso, nonostante i suoi ricatti morali. Poi, pian piano, lasciai che le mie nuove convinzioni si fondessero dolcemente con le ore di lavoro che mi aspettavano in archivio, per la gioia della prof. incazzata.
Facciamolo sempre, coi ritorni. Non pretendiamo di trapiantare la vita altrove in quella di sempre, senza anestesia. Lasciamo che si fondano pian piano.
A saperlo, quando tornavo dalle vacanze sporca di sabbia, che a portare il mare dolcemente tra i marciapiedi del paese l’avrei tenuto più a lungo con me…
Ora che so, invece, nessuno me lo può levare.