Scommettiamo che voi avreste fatto lo stesso?
Scommettiamo. Io ho solo chiamato la polizia, e poi un amico marocchino per una traduzione al volo, perché tre ubriaconi spagnoli avevano attaccato un senzatetto arabo. Mia nonna lo avrebbe chiamato “fare la metà del proprio dovere”, no? Invece, un altro po’ e mi danno il passaporto marocchino. Perché? Come in una versione marocchina dei “dieci giusti” invocati da Abramo, l’amico che ho interpellato al telefono mi ha detto che “basterebbero cinque persone che agissero come me”. La mia ipotesi è: queste persone esistono eccome, solo che le loro storie non ci arrivano. Forse non sono in contatto anche loro con associazioni che si occupano di diritti umani, come quella che ha aiutato Ahmed giovedì sera.
I tre bulli di cui sopra, che venivano dal Paral·lel, non stavano inseguendo un tizio a caso, lungo Creu dels Molers: volevano la sua birra, che lui, per motivi a loro incomprensibili, non voleva cedere. Il primo manrovescio era partito (con la rincorsa) al grido di “¿Pero qué pasa con los árabes?”. Il secondo colpo era accompagnato da accuse assortite di pedofilia e amenità varie: soprattutto, aveva steso il marocchino a terra. Era accorsa della gente a mettere pace, ma mi dava fastidio che trattassero la cosa come se fosse una semplice lite tra ubriachi, e non un episodio razzista con una vittima ben identificabile. Così, quando i tre energumeni se ne sono andati una prima volta, ho chiesto al ferito (che aveva una cinquantina d’anni, ma piangeva col moccio al naso), se potessi fare qualcosa: “Chiama la polizia” mi ha chiesto lui, che aveva un vistoso bernoccolo sulla fronte. Non ricordavo il numero: me l’ha dato uno di quelli che erano intervenuti a scacciare gli assalitori, ma il ragazzo in questione dubitava fosse quello giusto, perché era di “Urgències”. Come no, volevo dirgli, il fatto non era per niente urgente: ci avevano pure raggiunti di nuovo i “Tre tre”! Quando hanno visto che telefonavo, da che volevano già “tagliarmi le mani” perché credevano li stessi riprendendo, mi hanno informato che ero “muy chula”. Tradotto: a mettere il ditino sul telefono erano buoni tutti. Prima di tutto è un’accusa fantastica, formulata da un gigante di due metri che ha appena atterrato “un moro” in quanto tale. In secondo luogo, se avevo scrupoli a chiamare, la mia era proprio paura per il gigante in questione. Io sono contro la pena di morte, e non sono passati troppi anni dalla sera in cui ci siamo resi conto che, a Barcellona, tale pena si può comminare per direttissima: anzi, senza processo.
Ma l’agente della Guardia Urbana che, poco dopo, è sceso da una volante per parlare con me, era gentile, mentre quello che provava a decifrare i rantoli della vittima andava per le spicce: tanto, le istruzioni erano le stesse di un caso di stupro. Prima vai all’ospedale per il referto e poi, con quello, vai a sporgere denuncia. Se ti hanno rubato qualcosa, come insisteva a chiedere la guardia urbana, ti viene fatta giustizia più rapidamente (e sì, vale anche in caso di stupro). L’agente che spiegava tutto ciò mostrava una certa insofferenza per il marocchino e la sua scarsa padronanza della lingua spagnola. In effetti, quando siamo rimasti di nuovo soli io e Ahmed (intanto avevamo fatto le presentazioni), a mia volta non ci stavo a capi’ più niente. Lui, però, sembrava volermi chiedere cose abbastanza urgenti, quindi ho chiamato per una traduzione rapida l’amico marocchino di cui sopra: per fortuna, si trattava di un esponente di Euro-Àrab.
È stato lì che la questione è diventata interessante, da un punto di vista della solidarietà: in mezz’oretta si è mossa una macchinaria che mi ha stupita assai, e che mi piacerebbe vedere anche nella comunità italiana, per non dire “dappertutto”. Per prima cosa, è stato allertato subito questo giornalista: aveva appena terminato delle riprese a Plaça Espanya, a cinque minuti da dov’eravamo, per poter prendere il treno in tempo (il coprifuoco è sempre alle 22.00), ma è tornato indietro per dare una mano. Nell’attesa mi telefonava un legale sarawi esperto in materia di immigrazione. Poco dopo, altre persone si interessavano al caso, tra messaggi WhatsApp e commenti ai video che il giornalista, una volta convinto Ahmed che doveva passare la notte al sicuro, ha girato insieme a me. Il mio livello di arabo è da lezione 3 di Duolingo, dunque ero convinta di star ascoltando una denuncia vibrante del razzismo diffuso. Invece mi sono scoperta eroina del giorno e santa subito (santa… musulmana, insomma, o laica tipo). Dopo un dibattito sul da farsi, il giornalista ha accompagnato un rinfrancato Ahmed (che con sette gradi di temperatura indossava una felpa di cotonina, e ci avrebbe dormito all’addiaccio), in un apposito rifugio dalle parti di Plaça Espanya.
Non è mancato il momento comico in questa situazione grottesca. Mentre l’amico euro-arabo (quello che ho chiamato) convinceva al telefono Ahmed a incontrare il giornalista, io venivo “posteggiata” da un senzatetto nigeriano che mi vedeva impalata sulla strada di Plaça Espanya. Avevo finito per prendermi io il suo numero: il ragazzo nigeriano non voleva dormire in strada (non crediate che sia scontato!), ma non conosceva la Fondazione Arrels, e io, beh, avevo un po’ da fare per stargli a spiegare i dettagli!
Mentre a cose fatte correvo a casa, che avevamo sforato il coprifuoco di cinque minuti, ho capito che tutto questo entusiasmo per una telefonata alle guardie poteva servire almeno a sensibilizzare sulla questione dei senzatetto, che sono abbandonati spesso al volontariato ed esposti all’ipotermia (entrambi i morti a Barcellona durante il passaggio di Filomena erano marocchini). Ho chiesto dunque consiglio al mio ex clochard preferito, e “muso ispiratore” dell’ultimo romanzo che sto sistemando: cosa avrei potuto proporre, nelle interviste che dovrei dare tra qualche giorno, per migliorare le condizioni di chi vive in strada? In risposta mi è arrivato un messaggio che vi traduco qua sotto:
I problemi sono tanti e complessi. Credo che, sul lungo periodo, l’obiettivo più importante sia prevenire le cause. Tuttavia, le piccole cose possono fare la differenza: come avere un posto in cui puoi lasciare della roba, così non te la devi portare dietro dappertutto. Servono anche posti in cui puoi fare la doccia e lavare i panni. Qualsiasi cosa che renda meno evidente lo stigma quotidiano può aiutare.
Ok, a dirla tutta il messaggio finiva con un anatema al lockdown: il diretto interessato l’ha sempre visto come una misura crudele, soprattutto con i senzatetto. Questo è un discorso complesso e sensibile, ma sul resto siamo d’accordo, vero?
E se lo siamo, perché c’è bisogno della white savior, o del beau geste di un angelo biondo (sic)?
Che poi, come sappiamo, la mia ultima tinta non è andata troppo bene.