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Da Vanity Fair

Per chiudere col Carnaval do Brasil seguito alle dimissioni di Rubiales, traduco male questo articolo de El País, scritto da Isabel Valdés e Ana Torres Menárguez, sul piccolo MeToo spagnolo sorto in seguito ai fatti del Mondiale: Se Acabó, che significa “è finita”, dunque “basta così”. Secondo le autrici, questo movimento si differenzia dall’originale perché “non si limita a denunciare”, e perché trova una società già sensibilizzata e pronta ad accoglierlo.

Non sono la stessa cosa né hanno avuto, fino a questo momento, la stessa estensione né ripercussione, ma il Me Too e il Se Acabó sono indissolubilmente uniti e condividono la stessa origine: l’averne abbastanza, l’esasperazione delle donne davanti alla violenza e alle disuguaglianze, e all’impunità di coloro che le esercitano, permettono e sostengono. Il Me Too è aggiunto a ogni post, ogni manifestazione, ogni concentrazione e ogni messaggio reso pubblico o condiviso nelle reti private da milioni di donne nel mondo dal 2017. Il 15 ottobre di quell’anno, Alyssa Milano pubblicò un tweet alle 22.21: “Se sei stata vittima di abusi o di aggressioni sessuali, scrivi Me Too [yo también, in spagnolo] in risposta a questo tweet. Lo scorso 25 agosto alle 12.34, è stata la calciatrice Alexia Putellas a pubblicare il suo tweet, per dare sostegno a Jenni Hermoso dopo il bacio che, senza il suo consenso, il presidente ora sospeso [e adesso dimissionario, n.d.R.] della Real Federación Española de Fútbol, Luis Rubiales, le ha imposto pochi secondi dopo che le pendesse al collo la medaglia di campionessa del mondo di calcio: “Esto es inaceptable. Se acabó. Contigo compañera Jenni Hermoso”.

Questo “se acabó” è diventato virale come in passato avvenne con l'”yo también”, perché entrambi concentrano idee ed esperienze comuni all’immensa maggioranza delle donne: nessuno dei due può intendersi unicamente come il sostegno per un episodio concreto, ma è piuttosto espressione degli episodi che condividiamo. Quel “bacio a stampo”, come lo ha definito Rubiales, non era “un bacio a stampo”, ma il riflesso di decenni in cui le donne hanno ricevuto tanti altri “baci a stampo”. Non è la particolarità di un solo episodio, ma l’accumulo di molti che sono stati naturalizzati e normalizzati all’interno del sistema.

Mentre il Me Too fece uscire allo scoperto, soprattutto, aggressioni e abusi che sono socialmente più facili da identificare per la gravità che presuppongono, il Se Acabó lo ha fatto con tutte quelle piccole cose che si verificano tutti i giorni, ogni giorno, e che in realtà non sono piccole, ma sono la base stessa della struttura. Sono quelle “azioni quotidiane meno evidenti che dimostrano dominazione di genere” di cui parla Berta Barbet, dottoressa in Scienze Politiche all’Università di Leicester (Inghilterra).

E mentre il Me Too presupponeva una cesura col silenzio ed era soprattutto associato alla violenza sessuale, il Se Acabó fa un passo avanti, e ingloba questioni che vanno al di là di tale violenza, anche se è stato un bacio non autorizzato a iniziarlo; il “se acabó” contiene in sé stesso il significato di dover rompere la struttura, cambiarla, farla finita con tutte quelle azioni e quegli atteggiamenti che la mantengono in piedi e per cui c’è ancora chi non vede niente di male in quel “bacio a stampo”. Nuria Romo, docente di Antropologia Sociale dell’Università di Granada, sostiene che prima “non c’era la possibilità di dare risposte a certi comportamenti maschilisti, era parte del ‘mandato di genere’; la donna era chiamata a mantenere il decoro, a mostrarsi sottomessa. Ora tutto questo è stato spazzato via e la società è più consapevole di come si sentano le donne”.

Da qui l’idea che il Me Too si prefiggesse di denunciare e il Se Acabó di trasformare.

Questo salto da un passaggio all’altro ha molto a che vedere col contesto concreto da cui è uscito il secondo movimento: una squadra di giocatrici ignorate, controllate e sottomesse da diversi allenatori e presidenti della federazione, da 30 anni a questa parte. Questa situazione, all’interno dell’ambito sportivo, è stata per molte donne – e molti uomini che pure hanno dato il giusto nome a quel gesto [di Rubiales] in modo quasi istantaneo – equiparabile a quella che hanno attraversato e attraversano nei propri ambiti di riferimento.

Per questo, nel corso dell’ultima settimana, l’hashtag #seacabó ha iniziato due processi che si sono estesi sia tra le donne che tra gli uomini. Il primo è un processo di revisione. Molti uomini sono stati spinti a “ricordare” e “riflettere” sul passato, dice Daniel González, un uomo di 34 anni che “si è messo a pensare se qualche volta fosse successo qualcosa del genere” nella sua vita. Victor López, 36 anni, afferma che non è stato tanto “questo caso in particolare”, ma “come è cambiata la società”, ed è stato “negli ultimi anni” che ha iniziato a fare questa riflessione.

Nel caso delle donne, non ha provocato solo questa riflessione, ma ha anche risvegliato dei ricordi che adesso inquadrano in un altro modo. Questo ha fatto sì che donne di età e origini geografiche diverse iniziassero a tirar fuori storie nelle quali sono state vittime di abuso di potere in luoghi pubblici, davanti agli occhi di terze persone, come ad esempio in casi di abuso di potere da parte dei loro superiori nel bel mezzo di un posto di lavoro.

Qualche giorno fa, la giornalista Cristina Fallarás – che nel 2018 diede origine all’hastag #cuéntalo, raccontalo, invitando le donne a raccontare le aggressioni subite per evidenziare la veridicità delle denunce e la dimensione del conflitto (ormai si è arrivate alla somma di 40.000 storie narrate in prima persona) – ha pubblicato un articolo in un giornale digitale nel quale raccontava la “carognata” che subì da parte di alcuni colleghi della cronaca sportiva in un giornale nazionale nel quale aveva lavorato. La sua intenzione era quella di unire il calcio alle questioni lavorative, visto che, a quanto racconta, si chiedeva quante donne avessero ricordato le aggressioni subite, dopo aver ascoltato le parole di Luis Rubiales. Decine di donne hanno iniziato a mandarle i loro racconti e lei ne ha pubblicati alcuni sul suo profilo Instagram.

Ispirata da questo appello, una giornalista ha pubblicato nelle sue reti sociali il suo racconto personale del #seacabó. Ha raccontato come il suo capo, un noto giornalista che si occupa di cultura, dopo una serie di incontri sessuali consenzienti, la maltrattò per anni con grida e umiliazioni davanti ai suoi colleghi di redazione, che fingevano di non vedere. “Durò per anni, minò la mia autostima e mi distrusse i nervi” raccontava. La giovane giornalista si mise in congedo volontario, infilò la porta e corse via. Nel suo post denunciava che questo giornalista continuava a lavorare e a firmare reportage sul femminismo, con “un’ipocrisia” che le “ritorceva le budella”.

Una delle sue ex colleghe del giornale pubblicava poche ore dopo un tweet con la storia, e il giudizio pubblico in rete fece il resto: più di 2,2 milioni di visualizzazioni, e in meno di 24 ore la testata in cui collaborava il giornalista accusato lo ha mandato via. Senza denuncia davanti ai tribunali né sentenza. È bastata la testimonianza di questa donna.

Barbet, la politologa, avverte che c’è il rischio che questa nuova ondata di denunce pubbliche si trasformi in una guerra dei sessi sui social, e segnalare e perseguitare un solo uomo e porre fine alla sua carriera può pregiudicare l’obiettivo di fondo: rivedere i motivi per cui, nell’ambiente lavorativo, le persone abbassano la testa, e incentivare le imprese ad approvare protocolli per individuare abusi e accertare responsabilità. “Non si tratta di distruggere carriere, ma di generare contesti in cui questi atteggiamenti smettano di essere impuni. Non bisogna presentarla come una questione di cattive persone all’interno di un sistema, ma di riconfigurare le strutture che la rendono possibile” segnala. Barbet considera inutile proiettare una visione manichea e dicotomica di comportamenti corretti e scorretti, visto che in questo modo cesserebbero solo i comportamenti più evidenti e non la cultura che sottendono. “Bisogna favorire una riflessione di fondo”.

Dopo il caso Rubiales, su Twitter sono circolate addirittura liste coi nomi e cognomi di coloro che potrebbero essere i prossimi a cadere: comici, giornalisti, opinionisti… “È un comportamento assolutamente tossico che alimenta la retorica per cui ‘nessun uomo è a salvo'” sostiene Barbet. La politologa crede che in questo modo gli uomini si sentono puntare il dito contro, e perciò collaboreranno di meno a questo cambiamento di modello. “Generare dubbi e ombre su di loro non è la strada giusta” dichiara Barbet.

La risposta immediata che si sta verificando col movimento #seacabó è dovuta secondo Rosa Cobo, professoressa di Sociologia di genere dell’Università de La Coruña, al fatto che questa quarta ondata femminista ha trovato un terreno “molto fertile”. “Una volta che le donne hanno ottenuto di essere credute, adesso cercano cambiamenti drastici, e cercano di evidenziare i tantissimi micromaschilismi normalizzati dalla società, ai quali dicono basta”.

Come si spiega il silenzio, complice o meno, di terze persone davanti a un abuso di potere, per esempio in un posto di lavoro? È una questione di valori che “fortunatamente” evolvono, spiega Patricia Gabaldón, rettrice del corso di Economia all’IE University. “Per decenni il leader più stimato è stato il più aggressivo, si creavano livelli diversi di paura in contesti differenti, in ufficio o in famiglia, e davanti a questa minaccia era più facile concentrarsi sulla vittima e credere che avesse fatto qualcosa per meritarsi questa situazione”. Adesso il cambiamento di paradigma sta aprendo la porta a comportamenti più empatici, nei quali la gerarchia della paura non la fa più da padrona.

A differenza del Me Too, nel Se Acabó non tutto ciò che viene denunciato, e la condanna sociale che genera, costituisce un reato dal punto di vista legale. La professoressa di Diritto penale dell’Università di Cadice, Maria Acale, crede che, a differenza degli abusi denunciati col Me Too, con il Se Acabó la risposta penale non è sempre quella più idonea. Interpellata sul caso Rubiales, la docente spiega che non bisogna analizzare i fatti come se l’unica caratteristica che li contraddistingue fosse l’aggressione sessuale. Ad esempio, “C’è un nuovo reato di trattamento degradante, l’articolo 173.4 della legge organica 10/2022, che contempla comportamenti che attentano contro l’integrità morale”.

Se c’è una cosa su cui Acale si trova d’accordo con il resto delle esperte, dopo due settimane di analisi di quanto accaduto, è il fatto che la società “è passata da una timida denuncia da parte di molte donne nel #metoo a un movimento che ha sbattuto i pugni sul tavolo. È un punto e basta alle situazioni indegne che affrontano le donne”. Per lei, “in questi anni si è prodotta una riflessione sociale sul consenso e su fin dove possa arrivare l’autonomia della persona”.

Anche così, può ancora succedere che l’ambiente di lavoro possa ignorare le vessazioni in modo inconsapevole, per il fatto di non disporre degli strumenti necessari per emettere un giudizio di condanna, oppure può farlo in modo consapevole e deliberato. È ciò che Clara Vall, avvocata penalista e criminologa, definisce come una “roccaforte di popolazione estremamente reazionaria” che nega questi abusi. “Coloro che sostengono Rubiales si rifiutano di accettare che noi donne abbiamo guadagnato tutto questo terreno a livello di egemonia culturale, e ricorrono a vecchi cliché di trent’anni fa, come quello di analizzare il comportamento della vittima, e addirittura diffondere video di Jennifer Hermoso nell’autobus durante la celebrazione. È un segno ridicolo e inequivocabile dell’agonia di alcuni uomini davanti alla fine del patriarcato”.

Tuttavia, tra entrambi i movimenti c’è una differenza che riflette il cambiamento, lento ma solido, su cui hanno lavorato il femminismo, e la società, in questi sei anni. Il Me Too è iniziato con la denuncia diretta di Milano, mentre il Se Acabó, anche se creato come tale da Putellas nel suo tweet, cinque giorni dopo gli eventi, lo ha fatto in modo immediato, attraverso post di cittadine e cittadini che stavano vedendo tutto in televisione, e che hanno filtrato tutto ciò che significa quel bacio senza consenso attraverso la coscienza femminista che ha preso terreno nell’ultimo decennio. Col Me Too c’è voluta una voce individuale per iniziare: quella di chi denunciava. Col Se Acabó, la società era già preparata per farlo da sola, in modo autonomo e istantaneo.

Traduco (male, come sempre) questo breve articolo d’opinione della scrittrice Nuria Labari, pubblicato su El País otto giorni prima che Pepe Rubiales si dimettesse, questa domenica 10 settembre, come presidente della Federazione spagnola di calcio. Nonostante le criticità rilevate anche da osservatrici italiane, la legge di libertà sessuale, detta legge del solo sì è sì, ha provato a definire i termini del consenso e a mettere al centro le intenzioni dell’accusato, invece di limitarsi a far ricadere sulla presunta vittima l’onere di dimostrare la violenza.

Il consenso (e il solo sì è sì) dopo Rubiales

Da Flashcore.es

A volte le leggi non sono importanti solo per ciò che sanzionano, ma anche per ciò che comunicano. E questa comunicazione è imprescindibile per la vita civile e per convivere civilmente. Dunque la missione di una legge non è solo penale e coercitiva, ma ha anche una funzione comunicativa e pedagogica. In questo senso, quando giudichiamo la legge del solo sì è sì per i risultati coercitivi, dimentichiamo l’altra questione fondamentale di qualsiasi legge, che era ciò che comunicava e dove situava il suolo morale delle violenze commesse contro le donne. E questo, alla luce di quanto accaduto con l’abuso di Rubiales, è qualcosa che è cambiato in questo paese.

Finalmente abbiamo messo al centro il consenso.

È vero che il Codice penale del 1995 puniva già qualsiasi atto sessuale realizzato senza il libero consenso della vittima, ma la legge del solo sì è sì ha stabilito, per la prima volta, che ci sarà consenso solo “quando sia stato manifestato liberamente mediante azioni che, in considerazione delle circostanze del caso, esprimano in modo chiaro la volontà della persona”. Questa definizione del consenso è parsa a molte persone innecessaria, poiché poneva un problema probatorio: è difficile distinguere quando esiste o meno consenso in campo sessuale. E in effetti, in una società che non fosse profondamente maschilista, la linea del consenso potrebbe incrociare molte zone grigie. Tuttavia, la legge ha costituito un grande avanzamento in questo senso, perché il problema per molte donne spagnole è che vivevamo in una società così profondamente maschilista che era capace di tollerare e consentire l’esistenza di tipi come Luis Rubiales, fino a trasformarli in una specie di psicopatici socialmente accettati, cioè in uomini che aggrediscono le donne e abusano di loro, e sono, allo stesso tempo, incapaci di riconoscere il danno arrecato alle loro vittime. Il genere di uomo che bacia senza chiedere. E dopo, nel caso venisse biasimato, risponde tutto abbattuto che si è trattato solo di un bacio a stampo. E qui la parola bacio si può facilmente sostituire con la parola penetrazione nella mente del maschilista o dell’aggressore, se si dà il caso.

Perché il Rubiales di turno mette sempre al centro le sue intenzioni, il suo desiderio, la sua volontà, la sua euforia, i suoi interessi. La novità questa volta è che Luis Rubiales ha affrontato una società che da quasi un anno riflette e dialoga sul concetto di consenso, e questo dialogo, che spesso è un dibattito acceso, sebbene non ci abbia fatto trovare un accordo su tutto, ci ha aiutato però ad arrivare in buona forma teorica, in materia di consenso sessuale, al Mondiale di calcio femminile. È vero che prima del caso Rubiales le definizioni di consenso spaziavano tra quelle teoriche, giuridiche, politiche, civili. Ma questo caso è stato una sorta di esame pratico che abbiamo superato a pieni voti.

Esigere legalmente il consenso esplicito in campo sessuale può risultare confuso ed esagerato, ma diventa chiaramente necessario quando è un uomo maschilista a interpretare i limiti di tale consenso. In tal senso, Rubiales ci ha aiutato a chiarire l’opinone della maggioranza: la Spagna non tollera uomini che non collocano il consenso al centro delle loro relazioni sessuoaffettive. Il consenso deve occupare dunque il posto che gli è dovuto nella convivenza civile, e solo così i “maschilisti arroganti” occuperanno definitivamente il loro.