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Traduco (male, come sempre) questo breve articolo d’opinione della scrittrice Nuria Labari, pubblicato su El País otto giorni prima che Pepe Rubiales si dimettesse, questa domenica 10 settembre, come presidente della Federazione spagnola di calcio. Nonostante le criticità rilevate anche da osservatrici italiane, la legge di libertà sessuale, detta legge del solo sì è sì, ha provato a definire i termini del consenso e a mettere al centro le intenzioni dell’accusato, invece di limitarsi a far ricadere sulla presunta vittima l’onere di dimostrare la violenza.

Il consenso (e il solo sì è sì) dopo Rubiales

Da Flashcore.es

A volte le leggi non sono importanti solo per ciò che sanzionano, ma anche per ciò che comunicano. E questa comunicazione è imprescindibile per la vita civile e per convivere civilmente. Dunque la missione di una legge non è solo penale e coercitiva, ma ha anche una funzione comunicativa e pedagogica. In questo senso, quando giudichiamo la legge del solo sì è sì per i risultati coercitivi, dimentichiamo l’altra questione fondamentale di qualsiasi legge, che era ciò che comunicava e dove situava il suolo morale delle violenze commesse contro le donne. E questo, alla luce di quanto accaduto con l’abuso di Rubiales, è qualcosa che è cambiato in questo paese.

Finalmente abbiamo messo al centro il consenso.

È vero che il Codice penale del 1995 puniva già qualsiasi atto sessuale realizzato senza il libero consenso della vittima, ma la legge del solo sì è sì ha stabilito, per la prima volta, che ci sarà consenso solo “quando sia stato manifestato liberamente mediante azioni che, in considerazione delle circostanze del caso, esprimano in modo chiaro la volontà della persona”. Questa definizione del consenso è parsa a molte persone innecessaria, poiché poneva un problema probatorio: è difficile distinguere quando esiste o meno consenso in campo sessuale. E in effetti, in una società che non fosse profondamente maschilista, la linea del consenso potrebbe incrociare molte zone grigie. Tuttavia, la legge ha costituito un grande avanzamento in questo senso, perché il problema per molte donne spagnole è che vivevamo in una società così profondamente maschilista che era capace di tollerare e consentire l’esistenza di tipi come Luis Rubiales, fino a trasformarli in una specie di psicopatici socialmente accettati, cioè in uomini che aggrediscono le donne e abusano di loro, e sono, allo stesso tempo, incapaci di riconoscere il danno arrecato alle loro vittime. Il genere di uomo che bacia senza chiedere. E dopo, nel caso venisse biasimato, risponde tutto abbattuto che si è trattato solo di un bacio a stampo. E qui la parola bacio si può facilmente sostituire con la parola penetrazione nella mente del maschilista o dell’aggressore, se si dà il caso.

Perché il Rubiales di turno mette sempre al centro le sue intenzioni, il suo desiderio, la sua volontà, la sua euforia, i suoi interessi. La novità questa volta è che Luis Rubiales ha affrontato una società che da quasi un anno riflette e dialoga sul concetto di consenso, e questo dialogo, che spesso è un dibattito acceso, sebbene non ci abbia fatto trovare un accordo su tutto, ci ha aiutato però ad arrivare in buona forma teorica, in materia di consenso sessuale, al Mondiale di calcio femminile. È vero che prima del caso Rubiales le definizioni di consenso spaziavano tra quelle teoriche, giuridiche, politiche, civili. Ma questo caso è stato una sorta di esame pratico che abbiamo superato a pieni voti.

Esigere legalmente il consenso esplicito in campo sessuale può risultare confuso ed esagerato, ma diventa chiaramente necessario quando è un uomo maschilista a interpretare i limiti di tale consenso. In tal senso, Rubiales ci ha aiutato a chiarire l’opinone della maggioranza: la Spagna non tollera uomini che non collocano il consenso al centro delle loro relazioni sessuoaffettive. Il consenso deve occupare dunque il posto che gli è dovuto nella convivenza civile, e solo così i “maschilisti arroganti” occuperanno definitivamente il loro.

Da El País

Ecco da dove venivano i meme!

Dovete sapere che, mentre ero immersa in faccende che avrei romanzato qui, e giorni prima che iniziasse il confinamiento (lockdown) in Spagna, cominciavo a vedere sul web dei cartelli retti da donne che rivendicavano il diritto di ubriacarsi senza che la cosa pregiudicasse, sapete, questo vizio che abbiamo di voler comunque tornare a casa sane e salve, checché ne dica Giambruno (che manco conoscevo)… Perché anche qui, nella terra del botellón, l’idea prevalente era ancora: la violenza maschile è inevitabile, stai attenta tu a non esportici. Figuratevi da noi! Un amico, ricercatore italiano a Londra, postava il caso dei due ragazzi italiani che avevano violentato una ragazza ubriaca in un locale di Soho, e una commentatrice italiana coglieva l’occasione per far notare che “questi [gli inglesi], hanno un problema di alcol davvero serio”. Sì, replicavo, ma sono inglesi anche espressioni come victim blaming e slut shaming, che per qualche arcano motivo sono difficili da rendere in italiano. Lei poteva forse illuminarmi sul perché?

E invece, qui in terre iberiche, daje coi cartelli che tradurremo come “sola e ubriaca, voglio arrivare a casa” o quello che dopo vent’anni da girovaga ci ho proprio tatuato nell’anima: “Quando torno a casa voglio essere libera, non coraggiosa” (anche se di solito mi si diceva che “avevo avuto fortuna”).

Da Nueva Tribuna

La ministra spagnola delle Pari Opportunità, Irene Montero, aveva citato il primo slogan nel corso di interviste TV in cui difendeva la legge sulla libertà sessuale, detta anche “legge del ‘solo sì è sì'”, che nonostante il persistente fuoco amico della coalizione veniva presentata come “pioniera in tutto il mondo”. Si prefiggeva infatti di cambiare sia il codice penale che la mentalità che accompagnava certe scelte giuridiche: stavolta al centro della questione c’era il consenso, esplicito, in assenza del quale si parlava di aggressione sessuale, eliminando così anche la differenza tra abuso e aggressione. Era inoltre necessaria una riforma in ambito educativo, sanitario, giudiziario, per fomentare la prevenzione di casi di violenza e promuovere l’accompagnamento delle vittime, impedendo il solito copione per cui queste ultime o non venivano credute (e Montero citava il famoso “Sorella, io ti credo” sorto in seguito alla violenza de La Manada*) o subiscono una seconda vittimizzazione in cui viene loro chiesto “cosa stessero facendo” per cadere vittima di un’aggressione sessuale. In realtà un aggressore, puntualizzava la ministra, ti colpisce a prescindere da dove tu vada, da come tu vada vestita, da se ballassi o meno…**

Lo slogan “sola e ubriaca” compariva in una campagna ministeriale, che voleva trasformarlo “in una realtà per smettere di vivere nella paura”, e chiosava: “I diritti delle donne non si perderanno mai in vicoli oscuri”.

Prima che facciate il biglietto sul sito della Vueling: l’opposizione si è fatta sentire subito, con le argomentazioni che immaginerete. Pablo Casado, del PP, parlava di istigazione all’alcolismo e ricordava che la OMS suggeriva di bere con moderazione, mentre i mai troppo rimpianti (scherzo) Ciudadanos, nella persona di Inés Arrimadas (nostalgia canaglia!), parlavano di un “settarismo” del governo Sánchez che ostacolava la “vera” lotta per i diritti delle donne. Anche Pepe Rubiales, come accennavo qui, parlava di femminismo buono e cattivo, oltre ad aggiungersi alla tradizione di uomini che spiegano come si debba reagire a un abuso. Il mio preferito resta Santiago Abascal (l’amico di Giorgia Meloni) che vedete qui nella sua foto che preferisco, quando incitava alla reconquista di Spagna che manco i Re Cattolici:

Scusate, dovevo mostrarvela, ma torniamo a noi, anche perché il leader di Vox è l’autore della dichiarazione più pittoresca: “È una cosa tra il comico e l’aberrante. L’obiettivo del ministero delle pari opportunità è che le donne vadano sole e ubriache per strada? Qualcuno può spiegare a questo governo che un ministero non è un pigiama party, e che coi soldi degli spagnoli non si promuovono idiozie?”.

Ebbene sì, anche qui, anche all’interno della stessa sinistra, le critiche possono riguardare il modo in cui vengono spesi “i soldi dei contribuenti”, con l’accusa in stile Arrimadas di alimentare settarismi, piuttosto che occuparsi di questioni che interessino “todos los epañoles” (scusate, traduco subito: “tutti gli spagnoli cis etero di classe media”***). Capirete però, e lo dico nonostante le mie critiche a Sánchez sulla questione catalana e repubblicana, e soprattutto sulle politiche migratorie, che il benaltrismo è un’obiezione più difficile da muovere a una sinistra che, invece di trascurare i diritti sociali per fingere di portare avanti quelli civili (scusate l’immaginario fantascientifico!), taglia l’iva sui beni di prima necessità, prova a regolarizzare i contratti di lavoro, e riesce con una manovra in cui non credevo neanche io a salvarsi a rotta di collo dal (re)conquistador di cui sopra.

Per la cronaca, Montero ha replicato alle accuse con questo tweet: “Quando le donne gridano per le strade ‘Sola e ubriaca, voglio arrivare a casa’ dicono qualcosa di fondamentale: né il tuo modo di vestire, né il fatto che tu abbia bevuto, NIENTE, giustifica o attenua un’aggressione sessuale. Questo ministero lavora perché la Spagna sia un paese libero dalla violenza maschilista”.

Mica solo il ministero.

*Come spiega questo articolo, non si tratta di attentare alla presunzione di innocenza, ma di contestare la linea di difesa degli aggressori per cui la vittima “se l’è cercata”. Dunque, l’imputato è sempre innocente fino a prova contraria, ma non può più costituire una prova di innocenza il fatto che la presunta vittima, come nel caso de La Manada o di alcune vicende italiane, non avesse reagito alla violenza nel modo che si aspettavano i giudici, o i legali, o certa stampa.

**Io mi sento solo di confermare le statistiche, perché dall’età adulta sono sempre andata dove volevo a qualsiasi ora, e le mani sul sedere o sui genitali le ho avute mentre ero vestita di tutto punto, davanti ad altre persone che magari mi volevano bene – un saluto al vecchio rattuso del supermercato sotto i portici, che mi diede una pacca sul sedere davanti a mia madre – e quasi sempre in pieno giorno, di sicuro mai in strada da sola. Quindi mi diverte ricordare l’amico molisano che diceva: “Ah, già, tu devi essere di quelle che non si fanno riaccompagnare a casa la sera”. No, è che non ci ho mai pensato: la mano sulla patana a 14 anni l’ho avuta alle quattro del pomeriggio a Napoli, sul famigerato e affollatissimo autobus R2! E poi, attenzione a chi si offre di accompagnarti: una sera del lontano 2004, in Inghilterra, ero io ad accompagnare un ragazzo austriaco ai cancelli del mio studentato, che si aprivano solo con un chip in dotazione di noi residenti. Il tipo provò a baciarmi nonostante le mie resistenze, in presenza di un ubriacone che passava di lì e gridava: “Pure io!” (cioè, per colmo di ironia, “Me too!”), per poi farmi sapere che mi rifiutavo solo perché ero “a chick”, ‘na zoccoletta. Poi mi chiese scusa (l’austriaco, non l’ubriacone).

*** Scusate, mi ricorda troppo l’intellettuale italiano che si chiedeva: a una lesbica precaria interessa di più il linguaggio inclusivo o trovare lavoro? E quando nei commenti Facebook si provava a dire “Why not both?”, peraltro in toni piuttosto pacati, un sostenitore del filosofo qui sopra (che non linko per compassione) si lamentava perché “non si può più parlare di niente senza manifestare rabbia”. E non ve la prendete se stavolta vi traduco questa, che è una frase italiana, con l’ennesima, efficacissima espressione inglese.

Traduco, come sempre “a sentimento”, questo articolo di opinione del giurista Octavio Salazar, comparso sull’edizione online di Público il 27/08/23.

Da infobae. Scusate se in foto voglio mettere lei.

In questi giorni il caso Rubiales ci sta dimostrando che la società spagnola è cambiata molto, e in meglio. L’azione instancabile delle femministe e l’impulso politico che ha individuato determinate questioni nel dibattito pubblico – come, per esempio, la centralità del consenso nell’approccio giuridico alle violenze sessuali – hanno contribuito al fatto che azioni e comportamenti che fino a pochissimo tempo fa erano irrilevanti diventino ora intollerabili.

È il dato più positivo che possiamo ricavare da eventi che ci stanno dimostrando, come se fosse la lezione base di un manuale di studi di genere, come la mascolinità è stata e continua a essere uno strumento di potere, un artefatto culturale e politico sempre più eroso e messo in discussione, il che sta provocando reazioni da parte di uomini offesi e furibondi. Si tratta di una contestazione che è parte centrale del discorso dell’estrema destra che avanza in tutto il mondo, e che incontra terreno fertile sui social, dove assistiamo alla crescita pericolosa di ciò che le esperte chiamano ‘manosphere’: un termine con cui oggi nominiamo la misoginia di sempre, che però ora viene proiettata sugli schermi, a loro volta in mano a poteri maschili.

Le reazioni di Luis Rubiales, e in particolare il modo in cui ha articolato il suo discorso nell’Assemblea della Federación Española de Fútbol, rispondono fedelmente alle esigenze di un mandato che è costruito sull’idea di dominio, e sulla negazione della soggettività e autonomia femminili. Allo stesso tempo, questo mandato è bisognoso del sostegno dei “confratelli” [fratría], in una specie di performance riaffermativa e celebratoria.

È così che, nella lunghissima storia del patriarcato, è venuto fuori con insistenza ciò che Celia Amorós denominava “patti giurati tra maschi”, dei quali fanno parte, come abbiamo potuto ben vedere in questi giorni, le complicità silenziose e le comodità dietro le quali noi uomini ci siamo abitualmente trincerati, beneficiando sempre, benché in modi diversi, dei rapporti asimmetrici con le donne. Il desiderio di dominio, che è anche desiderio di possesso, si proietta singolarmente sui corpi e la sessualità delle donne. È da lì che sussiste ancora oggi una delle frontiere che definiscono il polso di un regime, quello patriarcale, che non vuole saperne di sparire.

Il problema che abbiamo dunque con la mascolinità, intesa come ‘megastruttura’ culturale e politica che ci definisce in maniera personale e collettiva, è un problema politico. E lo è perché ha a che vedere col potere, coi (dis)valori associati alla mascolinità stessa, e coi meccanismi che per secoli hanno mantenuto noi uomini come la metà privilegiata dell’umanità: coloro che definiscono l’umanità e gli amministratori dei beni e delle opportunità, i re della casa e i principi della città, coloro che di solito non hanno avuto nessuno scrupolo a usare vilmente le donne come scudo, o coloro che hanno usato con frequenza la strategia di trasformare le vittime dei loro abusi nelle “femmes fatales” che avrebbero distrutto le loro vite.

Non ci bastano le soluzioni individuali o la buona volontà dei singoli, ma è urgente una trasformazione sociale che metta il dito nelle piaghe dei poteri – inclusi, non lo dimentichiamo, quelli economici, che sono quelli che dettano legge – e che costruisca una cultura di emancipazione: niente di più e niente di meno di ciò che da secoli cerca di fare il femminismo, non quello “buono” o “cattivo”, ma l’unico*, che a sua volta si proietta in centinaia di ramificazioni che partono dallo stesso tronco. È un orizzonte che sarà possibile solo se, insisto, cominciamo a rompere questi patti che ci sostengono e fomentano: un compito che tocca singolarmente a noi che in maggior o minor misura beneficiamo di tali patti. Dobbiamo svolgerlo intanto che impariamo a riconoscere il valore e l’autorità delle donne, in quanto soggetti che ci equivalgono in qualsiasi ambito umano, e per i quali non dobbiamo continuare a essere il punto di riferimento a cui aspirare.

Oltre a quanto detto in precedenza, il caso Rubiales dovrebbe farci riflettere anche sulla necessità di non aspettarsi troppo dalle soluzioni che possano venire dal Diritto Penale. Va da sé che, se le azioni del personaggio in questione hanno gli estremi per una denuncia, e si agisce per vie legali, la legge dovrà essere applicata con tutte le sue garanzie e conseguenze. Tuttavia, quando parliamo di questioni relative alla cultura che abitiamo e che ci abita, la risposta dovrebbe provenire dalla comunità, dalla reazione della società e dagli effetti pedagogici che possano tenere i limiti e i freni posti a partire dall’esercizio delle responsabilità pubbliche. Pertanto le possibili sanzioni, come ad esempio il ritiro del sostegno economico, devono avere più valore per le conseguenze negli immaginari collettivi, che per il livello di punizione che costituiscono. Ricordiamoci una volta di più che il Diritto Penale non ha mai contribuito a una maggiore uguaglianza, e nemmeno a una maggiore giustizia sociale.

Il caso Rubiales ci sta insegnando, inoltre, che noi uomini abbiamo davanti un lungo processo di apprendimento, però anche di dis-apprendimento di tutto ciò che il maschilismo ha convertito per noi in punti di riferimento e aspettative. È un processo che dev’essere accompagnato da un impegno militante e pubblico che, come minimo, ci faccia prendere le distanze, come finalmente hanno iniziato a fare alcuni calciatori, da coloro che ancora si prodigano a imporre la legge del più forte. A patto che, ovviamente, questo impegno non obbedisca alla necessità di ricoprirci con la gloria del politicamente corretto o delle “nuove mascolinità”**, ma che risponda alla necessaria cooperazione che le donne reclamano da noi per rendere questo mondo più giusto ed egualitario. E questo passa, per forza di cose, per il coraggio di guardarci allo specchio e iniziare a smontare il Rubiales che tutti, in maggiore o minor misura, portiamo dentro di noi.

*Anche a queste latitudini, molti benaltristi e lo stesso Rubiales distinguono tra un femminismo buono, come quello che esigerebbe “la parità” (che per questi uomini spesso significa ignorare il lavoro di cura gratuito e risparmiarsi l’assegno di mantenimento), e uno cattivo, costituito da ragazzine capricciose che pretendono addirittura un’adeguata legislazione sul consenso, o la distribuzione paritaria del lavoro di cura. Che tempi.

**Per me il politicamente corretto è uno spauracchio delle destre, e quanto alla critica delle nuove mascolinità… Público è un po’ tankie, e i contributi femministi mi fanno spesso cadere le braccia. Ma abituata agli standard italiani trovo facile continuarlo a leggere.

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Da terrablava.es

Il tipo del buffet take away all you can eat auannasgheps entra apposta dietro di noi, dimenticandosi di distribuire bigliettini ai turisti di altre nazionalità.

Prima che prendiamo i vassoi ci indica il disinfettante per le mani, che chiameremo Amuquinas: capisco che ci ha sentiti parlare italiano.

“Non sono offesa, avrei paura anch’io” dichiara mia madre.

Il signore che entra dopo di noi ha la pelle più scura della sua, e chiede con accento indiano se nell’insalata di pasta c’è del pesce. A lui non viene richiesto di lavarsi le mani.

Questa scena è di ieri sera: l’avevo presente insieme all’aneddoto della tizia lasciata a piedi da un tassista perché italiana, quando ho chiesto ai miei di parlare solo napoletano, davanti ai taxi in attesa a mezzanotte in Plaça Catalunya. Scrupolo inutile, magari, ma i contrattempi erano l’ultima cosa di cui avevano bisogno, alla vigilia di una partenza rimediata a stento. Il mio accento appreso da studentessa a Forcella faceva a pugni con quello loro di paese, che si erano sforzati di non “contagiarmi” (ah ah ah). Alla fine il tassista a stento capiva lo spagnolo, mentre gli chiedevo di condurli al porto.

Mentre scrivo, loro sono letteralmente in alto mare. Hanno preso la nave anche se partiva alle due e mezza di notte, invece che alla mezza come previsto. Oggi sarebbe partita all’una e mezza, invece che alle undici: mare mosso, a quanto pare. Dopo la cancellazione del volo, però, si sentivano intrappolati qua (il prossimo disponibile era previsto per il primo aprile, ma chissà che la Vueling non cancellasse pure quello). Combattuti fino all’ultimo, hanno preso la decisione quasi all’improvviso, dopo aver saputo che la compagnia di navigazione non chiude i battenti: l’avevano comunicato anche consolato e ambasciata. Le cabine a uso privato erano ancora libere. Basta pagare, e non sei costretto a mescolarti alla gente.

A quanto pare, è una questione di classe su tanti fronti. Per questo, a prescindere dagli aiuti spagnoli a chi deve restare in casa coi figli, e dalle misure che piano piano si adottano anche qua, traduco queste preoccupazioni del sindacato delle collaboratrici domestiche, Sindhogar Sindillar:

I padroni catalani, approfittando dell’epidemia del coronavirus, vogliono buttare per strada i lavoratori e le lavoratrici [suppongo si riferiscano a quelli indesiderati, che le leggi in materia di lavoro non permettevano di licenziare in uno schiocco].

Per le lavoratrici domestiche che sono in contatto diretto con le persone di cui si occupano non ci sono orientamenti chiari su come debbano proteggersi nella quotidianità.

Chi pagherà le lavoratrici domestiche, che guadagnano in base alle ore di lavoro svolte?

Che significa dover restare confinate in casa, quando condividi un appartamento con altre persone e con famiglie? [In alcune case, intere famiglie, perlopiù straniere, vivono in una stanza sola.] 

Che succederà ai lavoratori che non potranno realizzare il telelavoro?

Per non concludere solo con delle domande, faccio presenti le richieste del Sindicat de Llogater(e)s, che riunisce molte persone che vivono in affitto. Fino a tre ore fa, scrivevano qualcosa che in Italia forse sarebbe accolto, con qualche eccezione, come irresponsabile: “i rischi economici e sociali del Coronavirus sono in questo momento più grandi del rischio sanitario”. Questo è il loro “pla de xoc” (sic):

Intervenire sulla totalità delle risorse sanitarie private e metterle al servizio dell’interesse generale.

Apertura dei reparti degli ospedali pubblici chiusi per i tagli alla sanità.

Moratoria del pagamento degli affitti.

Moratoria dei mutui.

Paralisi degli sfratti.

Copertura del 100% dei salari.

Copertura economica delle cure.

Interrompere tutti gli ERE [procedura di sospensione o licenziamento del personale].

Piano di supporto a chi lavora con partita IVA.

Programma per un’informazione corretta della popolazione.

L’idea è quella di proteggere sia la salute, che i diritti.

(Non voglio affatto mettere a paragone, ma… Adda passa’ ‘a nuttata.)

 

 

 

 

Ancora con la storia dei fiori nei cannoni? Antichi!

Nel mio vicolo, coi fiori, ci facciamo direttamente le barricate!

Infatti sabato, a manifestazione finita, mi sono ritrovata davanti tre fioriere, schivate da sedicenni che cominciavano a mettersi il bavaglio, mentre i poliziotti uscivano in massa dal vicolo adiacente: quello dietro la Policía Nacional. Sì, erano in tenuta da Darth Vader, e se non è stato uno scherzo della mia immaginazione uscivano davvero a culo indietro, tipo gamberi. In ogni caso, mi è come scesa dal cielo la voce di Fabrizio Frizzi: “Maria, per te la manifestazione… finisce qui!”.

Il tempo di avvisare dei turisti giapponesi con bimbo al seguito che non era una buona idea passare per i Darth Vader, solo perché il loro albergo era “dall’altra parte della strada”: meglio allungare il cammino oggi, che finire all’Hospital del Mar fino a domani! Non c’è stato bisogno di spiegazioni, invece, per le ragazze che passavano sgarzole in cerca dei localini su via Laietana, che supponevo chiusi, sprangati, e arrivederci a mai più.

Devo dire che la manifestazione di sabato (circa 380.000 persone) si è svolta davvero tranquilla e partecipata quasi fino alla fine: quindi, se allo sciopero generale è stata la polizia a caricare, stavolta mi sa che i giovanissimi di turno avevano messo le fioriere per conto loro. Non sono servite invece le transennine di questo bar a fermare la furia degli agenti che hanno scassato un po’ tutto, perché un avventore li sfotteva.

Insomma, anche questa è andata: gli unionisti del giorno dopo erano “manifestanti della domenica”, in tutti i sensi. Gente che parlava di soldi e di vacanze quando non sventolava la bandiera spagnola e cantava canzoni che io associo al franchismo, e loro, semplicemente, all’infanzia. I pochi col braccio alzato e il bavaglio, che cantavano Cara al sol, sono stati ripresi invano da vecchietti con bandiera spagnola, che l’inno della Falange lo dovevano intonare sul serio ogni giorno, a scuola. Io facevo amicizia con i venditori ambulanti di bandiere (stavolta spagnole) che si lamentavano dei magri affari, e mi chiedevano se fossi “spagnola o catalana”, per poi ridere: “Napoli! Mafia!”. Al mio ex, loro compaesano, rispondevo simulando un’esplosione, ma adesso mi scocciavo di riaprire anche questo fronte qui.

Anche perché la Policía Nacional, intanto, altro che assetto antisommossa: veniva coccolata da cori stile “A por ellos”, in pratica un invito a menare gli indipendentisti, che pure hanno adottato, ironicamente, lo slogan (e chiedono subito dopo “dove sta il lampione” contro cui si è impigliato il paracadutista il Día de la Hispanidad). Si limitavano a sbarrare il passo alla vittima, come potete vedere, anche i mossos presenti quando una che andava sulla Rambla con la bandiera catalana ha ricevuto un ceffone da una “patriota”.

A parte questo, tutto bene.

La questione è che queste cose non cancellano la vita di ogni giorno, per fortuna o purtroppo. Devi fare quello e quello: nel mio caso, stare attenta alle fioriere a centro strada e capire come farmi una visita medica due volte all’anno senza che mi spennino, o mi diano appuntamento tra sei mesi. Oppure, capire se Leroy Merlin taglia il legno su misura, o mi devo trascinare fin dal carrer d’Aragó il mensolone che farà da scrivania alla stanza piccola: quella che, in mancanza di soluzioni più ampie, doveva ospitare un bambino, e invece ospiterà me ora che vengono i miei per la Castanyada (coraggiosi!).

Tutto come prima, niente come prima.

Continuo ad avere la sensazione che la mia vita, da un po’, sia come la megafesta a cui ti prepari comprando chili di palloncini e passando ore in cucina, e poi si presentano giusto tuo cugino, la collega più simpatica e magari la vicina di sotto, se mettete la musica troppo alta: insomma, molto sbattimento, per risultati modesti.

(Tra l’altro ho capito perché la vicina di sotto si lamenta degli schiamazzi, e aspetta sempre pacchi di Amazon: ci ha l’AirBnb clandestino!)

“Sei felice?” mi è stato chiesto. Contenta, ho risposto: difficile fare il botto in un momento di scelte e rinunce, e in un’epoca da definire.

Però mi è stato detto di nuovo, stavolta da una giovane donna di belle speranze, che “le ho cambiato la vita”, e questo mi ha ringalluzzita peggio di una pubblicazione inaspettata della Penguin (che se vuole sto qua, eh). Perché ho ricordato che questo momento sospeso che vivo è il seguito di tempi molto più bui, da cui sono uscita benone. Figurarsi se non succederà anche adesso!

E no, non è vero che cambio le persone: sono loro che a volte vengono da me, attirate da qualcosa che ho detto nel gruppo di scrittura, o da una battuta che ho fatto sulle case editrici truffaldine. Mi lasciano intravedere le loro vite che cercano solo una spintarella per trasformarsi: la motivazione per scrivere più racconti (e magari ne esce un progetto artistico), o per andare a vivere da sole (e all’improvviso spunta la casa giusta). Allora consiglio libri – di solito con le mie artiste funziona Julia Cameron , consigliatami da una vera scrittrice – e spiego cose di quello che è successo a me: il miglior aiuto per cambiare è mostrare come l’hai fatto tu.

Questo è alla portata mia, e vostra, e di chiunque.

Dal Twitter di Lola con la venia @DolorsBoatella

Visto che va tanto di moda, adesso faccio un po’ di benaltrismo anch’io.

La cosa più negativa che mi è successa in questi giorni (che tutto sommato sono scivolati via niente male) è stata la sensazione d’impotenza simile a quella che mi comunicava, sulla pagina di Gad Lerner, una signora spagnola che vive da trent’anni in Italia, e non ha potuto fare il suo contro l’avanzata di Salvini: pure io, con Vox, ho avuto un bel gridare “no pasarán“, ma chi votava erano gli altri, che gridavano con accento migliore del mio.

È una questione europea, non dico di no: chi è residente e paga le tasse ecc., al massimo vota alle amministrative. Ma perché dover richiedere la cittadinanza – il che in qualche caso, non quello italiano, significa anche dover scegliere – se in un posto abbiamo passato un terzo o la metà della nostra vita, e a volte ci è capitato perfino di mettere al mondo cittadini di quel paese? Già, in effetti a volte dobbiamo pure giustificarci con quelli del paese d’origine (di solito i fasci) perché lì votiamo ancora alle politiche (e quasi mai votiamo come vorrebbero i fasci).

Qua si consolano perché non è andata così male, e vabbuo’, io di certo non rimpiangerò quelli che… il buonsenso, nuova grande foglia di fico del razzismo e di tutti gli “ismi” che non mi piacciono (perché no, gli ismi non sono tutti uguali, come sostengono i malati di qualunquismo).

A questo punto, peggio di tutto il bordello che è successo prima non può andare.

Visto? Mi sono scocciata di mangiare pane e veleno e, col tempo, sto imparando anche a “scegliermi le battaglie”. A volte mi contattano, che so, da un gruppo WhatsApp per chiedermi chi sia quel membro che vomita rabbia a ogni intervento, e mi rendo conto di capire subito di chi si tratta, ma di non sapere nient’altro: quando lo leggo disattivo le notifiche.

Oppure ho perso amicizie problematiche per incidenti stupidi, e mi piacerebbe reagire come le nuove conoscenze che mi dicono: “Ua’, hai capito che affare? Te ne sei liberata gratis!”. Ma mi accontento di seguire il mio protocollo sugli “sregolati col tempo degli altri“, e di godermi nuovi rapporti orizzontali, in cui tutti sono in grado di dare e ricevere (o non fingono altrimenti).

Il brutto dei momenti di serenità è che non tanto ce ne accorgiamo, i problemi si notano sempre un po’ di più. Prima o poi, però, dovremmo fermarci un momento e accorgerci che, per una volta, stiamo respirando aria pura: quella che circola quando ci ingegniamo a fare, circostanze permettendo, quello che sentiamo davvero nostro.

Aria così circola perfino se vivete a un passo dal traffico di Via Laietana!

Stavolta ci ho le prove.

 

 

 

 

 

L'immagine può contenere: una o più persone, folla e spazio al chiuso

Foto presa dall’evento che nomino (e linko) nel testo

Dieci giorni dopo la presentazione di Airport Tales, siamo passati letteralmente all’Airport Party, che è davvero il nome del veglione notturno organizzato all’Aeroport del Prat da chi, come me, di tutti i giorni per tornare a casa ha scelto proprio questo 21 dicembre, con in giro cosucce tipo: Pedro Sánchez che la sera prima conferiva con Quim Torra e oggi tiene il Consiglio dei Ministri dello Stato spagnolo; i compagni dell’indepe di casa che si sono già beccati qualche manganellata nelle numerose manifestazioni previste; i più mattinieri, o nottambuli, di loro che bloccano da ore alcune delle arterie fondamentali per la viabilità.

A mia difesa devo dire che ero convinta di partire il 22, e domani mi sarei recata all’aeroporto senza sospettare nulla, se la Vueling non mi avesse illuminato sulla situazione – e sul suo bisogno urgente di traduttori madrelingua:

Gentile cliente,

Dovuto allo sciopero convocato in Catalogna per venerdí 21 Dicembre, e sempre con l’obbiettivo di offrirle il migliore servizio, le consigliamo di recarsi in aereoporto con piú anticipo rispetto a lo abituale per poter realizzare il check-in e imbarco con piú tempo.

Ringraziamo la Sua fiducia e ci scusi per i possibili problemi creati da fattori totalmente estranei alla compagnia.

Distinti saluti

Team Vueling

 

“Rispetto a lo abituale”, dunque, mi sono avviata alle 3.50 del mattino in cerca della mia compagna designata di sventure, anche lei in partenza per Napoli, che ahimè si è vista rubare al volo il cellulare da un ragazzetto che, trovandosi lei nel mio amato Raval, deve aver fatto casa e puteca.

Che dire: l’importante per me è che siamo atterrate sane e salve, benché in ritardo, e che io, mentre scrivo queste brevi parole, abbia già all’attivo due cestini alle scarole del panificio Javarone.

Volevo solo informarvi che nel gruppo continuano gli aggiornamenti, anche utili, che la festa c’è stata sul serio, e che è vero anche che mentre loro festeggiavano, dei loro coetanei sono stati manganellati dalla polizia per il difetto di essere repubblicani.

Questi ultimi forse considereranno quelli del “party” nel seguente modo: guiris, capitalisti, gentrificatori, parassiti e, stando a dei manifesti che ho letto nel Raval, anche assassini e fills de puta (se, oltre al reato di ascoltare pessima musica, attribuiamo loro lo spopolamento progressivo del centro a beneficio di stranieri con soldi che fanno vita a sé).

Lo so perché, specie adesso che ho comprato casa, mi sono vista attribuire tra il serio e il faceto quasi tutti gli aggettivi di cui sopra, e adesso mi dichiaro anche colpevole di aver apprezzato questi ragazzi che hanno fatto buon viso a cattivo gioco, accampandosi in aeroporto, e socializzando nella “Lingua dell’Impero” (anche se spulciando trovate ragazze catalane che si rammaricano di non essere andate).

Mettiamola così: si vede che ognuno ha le battaglie che si merita.

Per fortuna ne abbiamo qualcuna in comune. Penso a quelle. E un po’ anche al pane cafone che divoro adesso.

 

 

ChiaraFamiglia Mala tempora currunt, e allora ho chiesto a Chiara, 37 anni, futura mamma italiana residente a Barcellona, di parlarmi della famiglia che sta costruendo con sua moglie Sara, il nascituro Noah, ed Ebony, la gatta fantastica che vedete in foto col resto della truppa. Mi hanno regalato anche un messaggio per Noah adulto, che potrete leggere a fine intervista, e una canzone da dedicargli. Fossi in voi, diffonderei :p .

1) Innanzitutto, auguri! Un amico, nel tentativo di… curarmi dalla “follia” di avere figli, mi ha chiesto: “Perché ne vuoi?”. Gli ho risposto: “Perché ne voglio!”. Tu e tua moglie avete una risposta migliore? Come avete preso la decisione?

Io ho desiderio di essere madre da ben più di un decennio (ora di anni ne ho 37). Le cose della vita non me lo hanno permesso. Poi un giorno ho conosciuto Sara, a cui mai ho nascosto questo mio pensiero, ma sulla quale non ho mai voluto esercitare alcuna pressione, anche perché la nostra condizione finanziaria era a dir poco precaria. Dopo due matrimoni, tanta strada e fatica (sotto ogni punto di vista possibile) e quasi cinque anni dopo, un giorno lei mi ha guardato e mi ha detto: “Desidero un figlio insieme a te” e da lì sono io che mi sono messa in moto. Circa un anno dopo, tra screening, controlli e quant’altro con lei sempre al mio fianco, stiamo realizzando questo desiderio di entrambe.
Credo ogni gravidanza sia un atto di egoismo, MA al di sopra e al di là di questo, un progetto di vita e di amore davvero immenso.

2) Per il nuovo Ministro della Famiglia e disabilità (sic), non esistete. In realtà ha detto che le cosiddette famiglie arcobaleno “per la legge in questo momento non esistono”. Secondo te, perché è così?

Il diverso incute sempre timore nelle menti chiuse. Lo vediamo tutti i giorni: un diverso colore, un diverso orientamento sessuale o religione… Tutto viene guardato con sospetto, nel migliore dei casi.
Quando, parlando di famiglie omogenitoriali, non riescono ad appellarsi alla religione, perché si obietta che lo Stato italiano è o dovrebbe essere laico, allora ecco che interpellano la natura, come se, a tutti gli effetti, la famiglia come oggi è intesa in parte del mondo occidentale (visto che di fatto con “famiglia” in altre parti del mondo si intendono insiemi di persone differenti da “mamma, papà, bambino”) non fosse in realtà un costrutto sociale, quindi per definizione artificiale e mutabile (e già grandemente peraltro mutato rispetto al recente passato).
Quindi tradizione, timore di ciò che non si conosce e religione stanno alla base di tutto e entrano nei luoghi in cui l’uguaglianza e i pari diritti dei cittadini dovrebbero avere precedenza sulle proprie e personali ideologie.
Tralasciamo poi l’ipocrisia di chi difende la “famiglia naturale” avendone di fatto più d’una, e dei tanti omofobi di mestiere che, da una parte, lucrano sull’odio che sono in grado di diffondere (e che importa se a farne le spese siano anche giovani ragazzi senza gli strumenti adatti per difendersi), e dall’altra, molto più spesso di quanto si immagini, finiscono per subire outing (quindi, in realtà dimostrano che il rifiuto più che dell’altro fosse proprio verso sé stessi)…
Famiglia è progettualità, responsabilità e amore. Il resto sono baggianate che di cristiano hanno davvero poco: prima lo capiranno, prima l’Italia progredirà.

3) Il fatto che viviate nello Stato spagnolo complica delle cose (una sola parola: “Consolato”!) e ne avvantaggia altre: per esempio, nessuno dalle istituzioni viene a dirvi che “non esistete”! Quali sono gli aspetti burocratici più complicati del lieto evento?

Il più complicato in assoluto? La trascrizione dell’atto di nascita, dove, di fatto le istituzioni italiane entreranno eccome. Ad oggi vari sindaci hanno con coraggio preso la decisione autonoma e non supportata da una legge statale, di accogliere le trascrizioni dei bimbi nati da coppie dello stesso sesso, ma dal nuovo Governo arrivano le voci di chi già pensa di sanzionarli. Quanti avranno ancora il coraggio di remare contro? Quando quest’onda positiva potrà ancora continuare? Ci sono mamme che hanno atteso ANNI prima di avere un documento per il proprio figlio, apolide fino ad allora, e solo con avvocati, spese ingenti (immagino) e tanto lottare ce l’hanno fatta. Quello che so è che non mi piegherò mai a dichiararmi madre single per poter ottenere l’agognato passaporto: Noah ha due mamme, e questo è e sarà un dato di fatto immutabile e irrinunciabile.
Quindi è questo il mio più grande timore: non poter avere ciò che a nostro figlio spetta di diritto (una trascrizione su cui compaiano i nomi di entrambi i suoi genitori e un passaporto italiano con il suo nome completo) senza lotte, estrema fatica e, chissà, coinvolgimenti dell’UE. E solo perché c’è chi dichiara di voler “difendere i bambini”, quando in realtà desidera solo difenderne alcuni, lasciandone migliaia di altri in un limbo burocratico.
4) Vostro figlio vivrà a Barcellona, che (per fortuna) è un crocevia di culture diverse. Cosa gli racconterete del vostro paese? Pensi che, un po’, sarà anche il suo?

Abbiamo deciso di non nascondergli mai nulla (compatibilmente con la sua età e le tappe della sua vita). Gli racconteremo il bene e il male del nostro malandato Paese per come lo vediamo noi, sperando però di riuscire a dargli gli strumenti per crearsi una sua visione dell’Italia (come del mondo) che sarà anche il suo Paese, solo se lo vorrà. Lì avrà parte della sua famiglia: i suoi nonni e una marea di zii, zie e cugini che lo amano tantissimo fin da ora, ed è questa la cosa più importante di tutte.

5) Domanda da un milione di dollari: secondo te, in che modo si potrebbero instaurare, in Italia, gli stessi diritti che lo Stato spagnolo riconosce a tutti i tipi di famiglie?

Tempo fa pensavo (o mi illudevo) che certe chiusure fossero appannaggio di una minoranza rumorosa. Dopo gli ultimi risultati elettorali devo dire che ho seriamente iniziato a pensare che l’Italia sia in realtà in balia di una maggioranza di persone che, pur di difendere il proprio orticello e non essere obbligate a guardare al di là del proprio naso, sono disposte a tutto.
Credo davvero che la nostra salvezza possa arrivare solo dall’Europa e dai suoi solleciti e sanzioni (se non decideranno improvvidamente di voltarle le spalle prima).

6) In Catalogna c’è una grandissima attenzione all’infanzia, e a quello che in Italia bollano come “GENDER!1!1”: anche l’educazione infantile porta allo sviluppo di una personalità senza pregiudizi e costrizioni, dalla scelta dei giocattoli a quella delle future professioni. Hai già pensato a che educazione vorresti per tuo figlio?

Mi sono guardata attorno e ho indagato e letto tanto sui vari metodi di insegnamento disponibili nelle scuole di Barcellona (molte di esse private), ma più per curiosità che altro. Non siamo una famiglia abbiente, e nostro figlio frequenterà la scuola pubblica. Quello che desidero è che possa inserirsi in un ambiente accogliente, in cui ci sia rispetto verso le necessità diverse di ogni bambino e dove le attitudini possano essere valorizzate, senza troppe pressioni o aspettative logoranti.
In casa speriamo di riuscire a passargli serenità, rispetto per ogni tipo di diversità (che è sempre ricchezza) e senso di umiltà, fra le altre cose.  Desideriamo tanto che possa essere un bambino indipendente e felice e che possa seguire la sua natura, qualsiasi essa sia, senza stigmi. Crescere un bambino “gender neutral” anche qui credo sia abbastanza complicato, ma penso anche non sia fondamentale: credo che fintanto che saremo in suo profondo ascolto tutto verrà comunque da sé.

7) Qualcuno in Italia sdrammatizza: un bambino con due mamme avrà “due lasagne!” (Casa Surace). E la sua dolce metà avrà “due suocere”… Ho visto qualche coppia di mamme che sta al gioco. A te l’hanno già detto? È un umorismo che aiuta o che rafforza stereotipi?

Ancora non è capitato 🙂 .
Credo però che un po’ di sano umorismo non guasti e che la distinzione tra questa ironia e le battute sgradevoli, offensive e gli stereotipi che feriscono sia sempre piuttosto chiara. Guai a farsi portare via anche l’ironia! Sarebbe un vero disastro.

8) Domanda aperta: scrivi (o scrivete!) un messaggio per tuo figlio, qualcosa che vorresti leggergli quando compirà 18 anni.

Proprio in questi giorni, mentre nuoti ancora beato nella mia pancia, hai iniziato a farti sentire forte e chiaro sia da me che dalla tua mamma Sara. La tua determinazione e la tua volontà di esistere ci sono state incredibilmente evidenti dal primo istante in cui abbiamo scoperto che eri in arrivo, quell’istante in cui, con il test di gravidanza ancora in mano, non smettevamo più di sorridere per la gioia immensa che ci aveva investito.
Ora sei grande. Spero che l’adolescenza non ti abbia lasciato segni troppo profondi e mi auguro di non essere stata troppo pesante o apprensiva (Sara è molto più brava di me in questo).
Figlio mio, per il tuo futuro ti auguro prima di tutto serenità, quella serenità che arriva dalla coerenza verso sé stessi e verso ciò in cui si crede, quella serenità che ti dona sonni tranquilli e ti permette, anche nelle difficoltà che purtroppo la vita sempre riserva, di guardare al domani con speranza.
Spero che i valori che ti abbiamo insegnato siano il timone che ti aiuterà a solcare i giorni a venire.
Continua a non tacere mai di fronte alle ingiustizie e a seguire i tuoi sogni con forza e determinazione. Ricorda che avrai in noi sempre due alleate, a volte severe, ma il cui cuore batte solo per vederti felice.
Mi auguro, se sarà quello che vorrai, che tu possa trovare qualcuno che possa amarti come si amano le tue mamme, che si prenda cura del tuo grande cuore, e che ti rispetti e ti accompagni nel tuo futuro, dovunque esso ti porti. Mi auguro che tu faccia altrettanto e che non smetta mai di lasciare che chi ti è accanto scorga la meraviglia che sei e che nulla ti impedisca di esprimere sempre ciò che provi, perché, come mille volte ci hai sentito dire, la libertà di poter esprimere ciò che si prova non è mai e poi mai una debolezza.
Nessuno ci insegna come fare i genitori. Tanti provano a farlo, come se ci fosse una formula universale, applicabile uguale per ogni esperienza e ogni nuova famiglia, ma non funziona così. Spero entrambe le tue mamme siano riuscite a fare un buon lavoro, e spero che tu possa perdonare le nostre eventuali mancanze, leggerezze e incomprensioni: mai, in nessun momento, con nessuno dei nostri “no” abbiamo avuto intenzione di ostacolarti o ferirti. Tutto ciò che fino ad oggi e che in futuro faremo è e sarà guidato dall’infinito amore che abbiamo per te, Noah, nostro figlio, il regalo più grande che la vita ci abbia offerto. Buon compleanno, piccolo grande uomo! Le tue mamme Chiara e Sara ti amano tantissimo.

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Dalla pagina di Abbatto i muri

Come ultimo post sulla tristissima pagina di storia italiana (e umana) che è stata la vicenda Aquarius, condivido il comunicato dell’associazione che da cinque anni è parte integrante della mia vita barcellonese. Se vi va, condividete:

NON CI RAPPRESENTANO

L’Associazione Altraitalia Barcelona, costituita da italiane e italiani residenti in Catalogna, esprime la propria approvazione rispetto alle scelte del governo spagnolo e della Generalitat valenciana sulla questione Aquarius. Siamo felici di vivere in una città che non ci fa sentire “immigrati”, e che per volontà della sindaca Ada Colau ha aperto fin dall’inizio del suo mandato le porte ai rifugiati. Siamo orgogliosi di toccare con mano il fatto che tutti quei valori che, a detta della destra italiana, porterebbero alla disgregazione dell’identità, sono invece il fondamento di una città aperta e inclusiva, dove persone di ogni provenienza e credo hanno potuto trovare una nuova casa.

Non possiamo che guardare con preoccupazione agli ultimi sviluppi della politica italiana, caratterizzati dall’allarmante centralità di un discorso identitario che ha creato le premesse per le desolanti prese di posizione razziste del ministro dell’interno Salvini. Ci preoccupa che queste posizioni sembrino essere condivise da buona parte di questo governo, e da una porzione significativa della popolazione.

La Spagna e la Catalogna non sono un paradiso libertario, contrariamente a quello che vorrebbe far credere una certa lettura superficiale della realtà. Ma crediamo che Barcellona in particolare, pur con tutti i suoi problemi, rappresenta la realizzazione dei peggiori incubi di Salvini e dei suoi sodali: famiglie LGBTI numerose e attive, lotte femministe che sono diventate coscienza collettiva, il razzismo populista che, persino in un contesto identitario come quello catalano, è inesistente.

È per questo che, forti della nostra esperienza, possiamo dire, ora più che mai: restiamo umani.

Barcellona, 18 giugno 2018.

Associació AltraItalia Barcelona

info@altraitaliabcn.org

Nota
L’associazione Altraitalia Barcelona è nata nel 2009 da un gruppo di italiane e italiani residenti in Catalogna appartenenti a diverse tradizioni della sinistra nostrana. L’intenzione, da subito, fu quella di interagire con il contesto politico della nostra patria d’adozione: da qui derivano le molteplici iniziative attraverso le quali, nel corso degli anni, abbiamo cercato di lavorare alla costruzione di una memoria storica condivisa tra Italia e Catalogna.

 

Risultati immagini per barcelona 25 marzo 2018

Da ElDiario.mx

Ieri sera l’indepe di casa mi ha raccontato che un autobus si era messo di traverso tra Passeig de Gràcia e Diagonal, per aiutare i manifestanti che protestavano per la cattura di Puigdemont.

Io avevo in corpo la birra vinta al pub quiz, dolce ripiego per quella domenica in solitaria, e lui tornava incolume dalla manifestazione.

“Un atto d’insurrezione dell’autista, spontaneo” ha commentato poi, dandomi la buonanotte.

Prima di chiudere gli occhi, però, mi ha chiesto:

“Ma se vengono ad arrestare anche me, tu davvero gli dici ‘Portatevillo’?”.

“Ovvio”.

Non l’ho manco chiamato subito, ieri pomeriggio, per vedere se fosse tutto intero. Ci è voluto il solito WhatsApp di mia madre: ci sono disturbi a Barcellona, voi tutto bene, vero? Sì: ormai so che almeno è una personcina prudente.

E poi funziona così da ottobre: io che non sono indipendentista impreco e mi dedico alle mie cose, lui va a queste manifestazioni che finiscono su Repubblica con la parola “Scontri” nel titolo.

Ho un amico genovese, sindacalista, che fa questo da trent’anni: ha moglie e figli catalani “indepe”, e ci litiga bonariamente ogni giorno.

I miei amici sotto i quaranta sono meno sportivi, specie quelli che stanno proprio con catalani indipendentisti, eventualità che io ho sempre troncato sul nascere.

L’agguato me l’ha fatto il tempo: tanti italiani di sinistra arrivano a Barcellona convinti che gli indipendentisti siano la Lega. Poi si accorgono che l’indipendenza la vogliono tutti i nuovi compagni dei movimenti, e anche le persone che si porterebbero a letto. Tempo qualche mese, hanno cambiato idea anche loro. L’indepe di casa non ha fatto eccezione, convinto che rispetto a questa Spagna sarebbe meglio anche la Repubblica di Mordor. Su questo, mi sa, non ha tutti i torti.

A me restano gli aneddoti, come quello dell’autista che ha messo l’autobus di traverso per bloccare la polizia. O del poliziotto arrestato perché manifestava.

Fatto sta che, ogni volta che spengo il lume sul comodino, mi chiedo cos’altro succederà domani.

E so che io me la cavo sicuro, ma gli altri boh.