Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Pronto intervento

La prima riunione tocca a me.

Ho tutto pronto per la coordinazione: mi presenterò in anticipo allo Spazio, e sarò professionale. In fondo è il primo incontro dell’anno.

L’attacco di panico in palestra era impossibile da prevedere. Per rimediare ho ascoltato all’infinito Mr. Brightside: a farlo di mia volontà non ho problemi, ma una volta non ho chiuso bene YouTube, e la canzone mi è stata sparata nelle orecchie appena ho riacceso il computer. Ho dovuto trattenere un conato di vomito: gli imprevisti, anche piccoli, restano il mio tallone d’Achille.  

La sera prima della riunione sono angosciata. Non sono più abituata a vedere tante persone, tutte insieme. Spero che Bruno non venga, o che la sua presenza non mi turbi troppo. Sono in salone, rannicchiata sul divano damascato con una coperta di pile che quasi si scioglie al contatto con la stufa alogena. Per fortuna è uno schifo di stufa, buona solo a illuminare la stanza di una lucetta arancione. Mi accorgo di sfiorarla con la coperta ogni volta che sento odore di plastica bruciata. Il film che sto guardando è un drammone storico, pieno di fughe e colpi di pistola, ma l’ennesima sparatoria è coperta da grida improvvise, che sopraggiungono dalla strada. Chi si lamenta in questo modo?

Esco dal balcone più vicino: quello che Bruno fissava mentre mi diceva addio. Per paura che entri la tramontana mi chiudo la porta scorrevole alle spalle, e intanto spio al di là della pianta dalle radici pensili. Il ragazzo non urla più: piange, chiuso nell’angolo tra la strada principale e il vicolo su cui affaccia il balcone. Piange come se stesse da solo in cameretta, e invece è circondato da poliziotti, che lo tengono immobilizzato contro il muro. Una volante, porte aperte e luci accese, sbarra l’ingresso del vicolo. Il ragazzo sta chiedendo perdono a Dio per una situazione che non afferro: è un ladruncolo, un piccolo spacciatore? Sembra inconsolabile, vorrei fare qualcosa, ma… Schiacciata dall’impotenza, accenno a rientrare.

Non ci riesco.

Che succede? La mia mano spinge un po’ la maniglia, poi la scuote. Niente. Ho le dita doloranti e la porta scorrevole non si è mossa di un millimetro.

Attraverso il vetro osservo la coperta, che alzandomi ho lasciato cadere sul tappeto, e l’impronta del mio corpo sul divano. Il film va avanti anche senza che io lo guardi, intenta come sono a osservare la mia vita dalla parte sbagliata del vetro. Un lembo di collo lasciato scoperto dalla felpa rabbrividisce sotto una folata di vento. Le voci alle mie spalle sono cessate: gli sportelli della volante si chiudono tutti insieme.

Resto a lottare un altro po’, poi mi arrendo.

Il poliziotto che chiamo dal balcone soffoca una risata, come se fossi una bambina che si sporge dalla ringhiera. Anche il suo collega reprime un moto di incredulità: forse sarò io, e non il ragazzo arrestato, l’aneddoto da raccontare a fine turno.

Le risatine diventano sguardi perplessi quando esibisco uno sgabello arrugginito, scovato tra le radici pensili della pianta.

“Che faccio, provo a rompere il vetro?”.

Gli agenti si affrettano a chiamare i pompieri.

Per mezz’ora posso solo studiare il riflesso della sirena sull’altro balcone della stanza, che dà sulla facciata dell’edificio. Scorgo prima una sagoma appesa a quella ringhiera lontana, poi un elmetto illuminato da una torcia. Atterrato sul balcone, l’uomo resta accovacciato per un minuto scarso, alle prese con l’altra porta scorrevole: apriti sesamo.

L’intruso sfoggia un’abbronzatura artificiale che lo rende ancora più scuro, sotto i riflessi arancioni della stufa, ma mi sfodera un sorriso da pubblicità mentre attraversa il salone come se in quella casa ci abitasse. Sono io l’ospite a cui, bontà sua, sta procedendo ad aprire la porta. Così vengo riammessa d’ufficio nella mia vita.

Non è che i pompieri potrebbero salvarmi anche dalla riunione? A quanto pare, è già tanto se non mi fanno pagare l’intervento!

“Ti sei spaventata, eh?” scherza all’ingresso uno dei poliziotti, salito sul pianerottolo insieme ai pompieri.

Anche il mio vicino si è affacciato, in vestaglia: il pompiere che mi ha aperto la porta ha usato il suo balcone per arrivare al mio. Il vicino è rosso in viso, l’influenza lo costringeva a letto e suo marito è in viaggio per lavoro. Guardandolo capisco che stiamo pensando la stessa cosa: è raro vedere tanti uomini così belli, tutti insieme. Me ne accorgo perfino io, che ho gli ormoni in sciopero.

È una visione anche il capo dei pompieri, un uomo atletico e brizzolato che mi insegna cosa fare se mi, ehm, distraggo di nuovo nell’usare la porta scorrevole: l’anta va sollevata dal basso. La prossima volta sarò in grado di salvarmi da sola, mi incoraggia, e guarda ironico il povero sgabello che intendevo brandire contro la mia sorte. Intanto, conclude, ho fatto bene a chiedere aiuto.

La sera dopo racconto l’aneddoto all’inizio della riunione, contenta di avere qualcosa a cui aggrappare la mia ansia.

Manco a dirlo, Bruno arriva per ultimo, facendosi precedere da un attacco di tosse. Il senso che ho affinato per i suoi malesseri si attiva prima che possa frenarlo: non sta bene. Dopo il primo momento di allarme mi guizza in testa una speranza indecente.

“Dai, Bruno, scrivi tu il verbale!” applaudono intanto i Morti di Figo.

Forse la Biondissima si è già eclissata, penso cedendogli il taccuino. Una volta ridevo anch’io dei suoi verbali epici.

I primi a lasciare la riunione sono i quarantenni: hanno figli da prelevare in palestra o al conservatorio, e magari la cena da preparare, specie se la loro compagna non è italiana. Restiamo noi trentenni spiantati. Forse nei paeselli d’origine avremmo già tirato su una famiglia col nostro primo amore, o almeno con “lu secondo”, più bello ancora. Forse, dopo qualche anno di matrimonio, avremmo dato lavoro agli alberghi a ore che costeggiano le nostre strade verso il mare: le stesse che avremmo percorso poi in estate, con la station wagon sormontata da un canotto gonfiabile a forma di cigno. Invece siamo in questa città strana, a vivere telenovele idiote con gente persa nel mondo.

Intanto il mio l’ho fatto. Per andar via non mi resta che riprendermi il taccuino. Senza guardarlo in faccia, indico a Bruno la sua scrittura irregolare: strappasse pure le sue pagine, appena me le manda riassunte provvederò a inoltrare il verbale.

Devo guardarlo per forza, perché ha iniziato a sbuffare: questo “favore” me lo può fare al massimo tra una settimana, che adesso ha da fare. Sento montare una rabbia che non ricordavo: quella delle piccole cose, dei momenti di esasperazione che era in grado di regalarmi quest’uomo. Quando me ne toccava uno al giorno, quasi non li vedevo. Adesso ho perso l’abitudine, e con quella la pazienza.

“Vabbè, Bruno, al tuo buon cuore!”.

La frase esplode in tutto il suo sarcasmo prima che me ne renda conto. Ne resto turbata, mentre mi dileguo: ho una voglia improvvisa di finire l’hamburger vegetale iniziato la sera prima. Ormai termino i pasti in due giorni, invece che in tre.

Prima di coricarmi controllo per inerzia la posta elettronica: c’è una nuova mail. Non riconosco subito il nome del destinatario, non sono più abituata a leggerlo. È il verbale della riunione. Lo accompagna una frase che sottolinea la fretta con cui è stato stilato: nel linguaggio di Bruno, è la cosa più vicina a una richiesta di scuse.

Cristo. Me ne sono accorta da subito, da quando lui era solo uno che si lamentava con me su Facebook: trattarlo appena un po’ male era la soluzione migliore per fargli fare le cose.

Ed era l’unica cosa di cui non ero capace.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.