Archivio degli articoli con tag: amore non corrisposto

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Di Già

Dove "sembro più io", ma ormai lo so già.
Da online.scuola.zanichelli.it

Certe cose non riaffiorano più.

Si sono perse nel pozzo da cui risalgo a poco a poco. Resta una frattura tra me e il mio corpo nudo, e l’idea di condividerlo con qualcun altro. Ma succederà di nuovo, ora lo so. Solo che non sarà più come prima.

A volte mi guardo le braccia e mi sembra che i lividi siano ancora lì. Almeno sono spariti da un pezzo alla vista. Con questo “almeno” qui, posso far pace.

Con l’anno nuovo inizio a insegnare italiano, e saluto l’Amico che non tornerà. Lui non lo sa ancora, è convinto di dover allontanarsi qualche tempo per questioni familiari. In realtà è entrato di diritto nell’esercito di indecisi che arriva a Barcellona in estate, prova svogliato ad ambientarsi, e infine approfitta delle vacanze di Natale per svignarsela di nuovo in Italia, a raccontare a chiunque come sia difficile vivere “fuori”. Però mi ha aiutato tanto nei mesi più difficili: quelli di assestamento, dopo un lutto.

Prima che se ne vada usciamo con l’Amica che mi aveva presentato Bruno, e lei si porta dietro la Divina, quella che era troppo bella perché lui la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. È sopravvalutata, sentenzia l’Amico, e allora gli mollo uno scappellotto mentre le sbircio il vestito lungo e prego che sia così alta perché si è messa i tacchi: davanti a una che piace a Bruno, entro ancora nella spirale ossessiva.

Lei a sua volta mi osserva l’abito senza fronzoli, e i capelli corti che sono tornati al loro biondo ambiguo, oscurato dal tempo.

“Stai molto meglio così” si complimenta. “Non che stessi male prima, è che adesso… come dire? Sembri più tu”.

Vorrei abbracciarla e chiedere scusa, non solo a lei: anche all’amica Occhiblù, alla Bella Stronza, alla Biondissima… A tutte quelle che ho considerato mie rivali in una gara che non esisteva. Ma riesco solo a dirle che ha ragione, adesso sembro più io.

E questa me che impara di nuovo a camminare smette pure di voler risolvere le vite altrui: lascio partire l’Amico senza fare storie, abituandomi al pensiero che non tornerà.

È appena arrivato, invece, il ragazzo alto e serio che a una conferenza dello Spazio alza la mano per fare un’osservazione antipatica: manca qualcosa, il conferenziere ha trascurato un argomento importante. Che faccia tosta! La conferenza è durata un’ora, come si fa a concentrarsi solo su “ciò che manca”? Poi lo sconosciuto si vede offrire un microfono, e a quel punto si prodiga in un ragionamento che mi sorprende. Ciò che invece mi spaventa di Giacomo, detto Già, è che leghiamo soprattutto per l’affinità di pensiero: quello lì è un mondo in cui mi perdo, e poi viene fuori che ho fame. Manca la connessione improvvisa, la notte perfetta in cui ho riso con Bruno fino alle quattro… Ed ecco che sto facendo lo stesso errore di Già alla conferenza: mi concentro anche io su ciò che manca.

Perché, stavolta, non bado un po’ a quello che c’è?

Ci rifletto su mentre contemplo una vetrina, all’uscita della scuola di lingue in cui ho ottenuto il mio primo incarico come insegnante. Nessuno sembra comprare quei quadri, eppure mi rilassano: interni domestici molto stilizzati, con vasi sul tavolo e gatti acciambellati sul divano. All’improvviso voglio abitare anch’io quella serenità, ma senza dover frequentare corsi di danza Bollywood, o bramare a tutti i costi un ascensore nel palazzo! Deve esistere una mia via alla felicità, e la troverò.

Una sera Già, ignaro di ciò che sta facendo, trascina Bruno fino a casa mia dopo una riunione allo Spazio: l’ora di cena è passata, e io ho ancora un po’ della zuppa avanzata a pranzo. Una volta che si è riempito lo stomaco, Bruno inizia a lamentarsi del lavoro che ha dovuto accettare per non rimanere in bolletta. Già e io lo ascoltiamo poco, intenti a passare in rassegna i pochi libri che ho portato nell’attico gelido: ho ancora difficoltà a leggere narrativa contemporanea, ma Già non mi sfotte per questo, anzi. Scopriamo di amare lo stesso personaggio di Trono di Spade, che è anche il più odiato dai nostri amici italiani.

“Che ossessione, con Trono di Spade!” insorge Bruno. Lui non legge “quelle robe lì”, e non guarda neanche la serie, okay? Lo lapidassimo pure!

Invece lo ignoriamo. Non ho neanche il tempo di sperare che Bruno si ingelosisca: mi interessano davvero le opinioni di Già. Sarà lui a confessarmi che uscendo da casa mia aveva chiesto: “Secondo te ho delle speranze, con lei?”. C’era dell’affinità, aveva borbottato Bruno, che si traducesse in qualcos’altro era tutto da verificare.

Lo “verifichiamo” a un concerto che si tiene allo Spazio: uno di quelli che di solito Bruno diserta, perché si balla. Nella foto che posteranno poi sul sito risulto sfocata, un faretto rossiccio mi trasforma il sorriso in uno scippo sul volto. La mia felicità è quasi oscena, ma la vita non è certo tornata con Già: è entrata solo quando ero pronta ad accoglierla di nuovo.

Alla fine Bruno è venuto al concerto, ma nelle foto non c’è mai. Rimaneva immobile accanto a noi mentre Già mi avvolgeva le spalle, poi scambiava la mia confusione per abbandono e mi cingeva la vita. Quando mi ha vista impallidire, non ha avuto bisogno di chiedermi nulla: a un mio cenno ha avvisato Bruno che andavamo a prendere “una boccata d’aria”.

Quando sono tornata a scorgere Bruno, lui usciva dal portone dello Spazio e io ero lì fuori, che baciavo Già. Era un bacio da ragazzini, così lungo che a un certo punto ho riaperto gli occhi.

Ho fatto in tempo a intravedere Bruno che indugiava un momento, come a valutare se raggiungerci o no. Era rimasto solo e forse era seccato, o un po’ geloso, o inesorabilmente contento per me, e soprattutto per il suo nuovo amico.

Poi a un certo punto non l’ho visto più.

A venerdì per l’ultimo capitolo!

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Ricambio

Nella stanza mi assale l’aria.

Mi arroventa la pelle con un odore dolciastro, e la sua immobilità mi colpisce più della stanza stessa: è rimasta uguale a quando ci dormivo e venivo svegliata dalle auto che correvano in strada. Bruno non mi ha aperto la porta coi libri già in mano, come avevo sperato, poi si è sorpreso di vedermi nei jeans che all’improvviso preferisco ai soliti abitini. Adesso si stende sul letto, gettandosi addosso la coperta che doveva avvolgerlo un istante prima. Dà per scontato che siederò alla scrivania, di fronte a lui, ma non mi osserva per sincerarsene. Con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando mi stava mollando, mi parla di una malattia che di solito è innocua, ma che a sentirlo quasi lo ammazzava.

La vera malattia è un’assenza che io non posso colmare. Posso solo agguantare i libri e trovare una scusa per filarmela, ora che sul serio mi viene l’affanno. Almeno non ho bisogno di chiedergli dove sia il bagno. Mi fa sorridere la tazza sbreccata, orfana del mio spazzolino. Poi poso gli occhi sullo specchio e soffoco un grido.

Ho delle macchie rosse sul petto. Anche il collo è picchiettato da puntini dello stesso colore. Che sia una risposta cutanea alla mia agitazione? Ma no, mi succede anche quando faccio docce troppo calde… In ogni caso, pochi minuti in quella stanza mi hanno lasciato quei segni addosso.

Tornando in camera non resisto: mi offro di aprire la finestra. Bruno non risponde subito, l’idea sembra spaventarlo un po’. Ma non si oppone, abituato com’era a me che provavo a fargli del bene. A volte ci riuscivo pure. Mentre recupero la borsa, un fruscio smorzato mi ricorda l’altra missione da compiere.

“Biancheria!” grido come un’imbonitrice, mentre la bustina cade sul letto. “Tienili pure, che non sono della mia misura…”.

Lui osserva i boxer puliti che aveva lasciato a casa mia una delle ultime volte. Non sono stata in grado di buttarli, né di restituirglieli prima di adesso. Non cambia espressione, sembra riflettere.

“Meno male” sentenzia infine. “Un ricambio mi serviva proprio”.

Adesso ho abitato il suo dolore.

Me lo sono visto addosso, e mi sono accorta che ne conoscevo ogni tratto. Tutto ciò che posso fare è lavorare il mio, di dolore: trasformarlo in noia, nell’esercizio quotidiano che ci vuole a star bene. È una routine impeccabile, interrotta solo dai nostri incontri sporadici. Tutti ridicoli.

“Dobbiamo trovare una fidanzata al nostro Bruno!” ammicca una ragazza alla festa di tesseramento dello Spazio. Lo dice come se progettasse una spedizione in Antartide. Mi limito a un sorriso e a un’alzata di spalle: in quel caso perfino lui, a evento finito, mi manda un messaggio per dirmi che gli dispiace per “l’incidente”.

Ma sono esposta di continuo a situazioni del genere. Una settimana prima, dei Morti di Figo mi avevano proposto davanti a tutti, a mo’ di sfida, di “sedurre Bruno”, che aveva gli occhi altrove. Io avevo scherzato: “Ah, no, Bru’, lo sai che con me non hai nessuna speranza!”. Non avevano riso, ero passata per una che se la tirava.

Un’altra sera lui è molto loquace, mi afferra le spalle come se ci si volesse appoggiare, e io mi irrigidisco a quel tocco ormai estraneo. Poi mi scopro a osservarmi le braccia come se quel gesto, da solo, potesse lasciarmi addosso dei lividi.

Un istante dopo, dalla piazza su cui affaccia lo Spazio ci giungono accordi che riconosco subito, e Bruno deve interrompere il suo sproloquio per osservarmi. Scusa, faccio, questa canzone mi mette un po’ d’ansia. Lui sorride all’idea: perché Mr. Brightside dovrebbe mettermi ansia? Non rispondo. In testa mi risuona il rullare monotono della cyclette, lo strusciare delle mie gambe magre, la battuta d’arresto delle ruote mentre visualizzo lui a letto con la Biondissima, a schermi unificati.

Prima o poi parleremo sul serio, ora lo so.

Il momento arriva quando meno me lo aspetto, a una serata in cui siamo complici almeno nella determinazione a sentirci esclusi. La padrona di casa se ne accorge, e ruba tempo ai suoi ospiti fighetti per parlare con noi due: forse ci tiene entrambi nel suo elenco di persone strane, e ci intrattiene come i bimbi che siamo (o eravamo), fino alla fine della festa.

La questione viene fuori all’improvviso, mentre sotto i lampioni di Gràcia dividiamo la strada per la metro. C’è subito accordo su una cosa: lui non vuole parlare della Biondissima, e io approvo in pieno la sua risoluzione.

Riusciamo lo stesso a fare le quattro, davanti alla metro ormai chiusa. A un certo punto lui alza la voce:

Dopo non sono mica tornato da te con la coda tra le gambe!”.

Lo rivendica come se quella fosse una gran prova di rigore morale. Io non gli dico che mi sono scoperta a scrutare le invitate anche alla festa di quella sera: di sicuro gliene piacevano almeno un paio, se soprassedeva sulla scarsa altezza di una. Non gli parlo dei digiuni, né dell’istante sul balcone. Inizio a indottrinarlo sulla vulgata junghiana, come farei con le “seguaci” del mio blog.

Non fare come me, gli dico, non restare con la fame. Prima o poi, la parte di te che stai ignorando si libererà dall’angolo in cui l’hai rinchiusa, e ti trascinerà nella prima esperienza insalubre che le dia l’illusione di saziarsi. Tanto vale che la nutri tu, concludo. È l’unico modo per non esserne schiavi.  

La parte più convincente della predica è quella in cui scoppio a piangere.

Un istante dopo, mi ritrovo premuta contro i bottoni della sua giacca. È un abbraccio diverso da tutti quelli che mi ha dato. È l’abbraccio di due che hanno sofferto insieme senza accorgersene.

Quest’abbraccio qui non lascia lividi.

A mercoledì per il seguito!

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I will survive

Va a finire che rimando sempre.

Non vado mai da Bruno a prendere i libri per l’esame di omologazione: ogni giorno sfido me stessa a non contattarlo, e comunque sono troppo occupata a litigare con la coordinatrice del corsetto online, che avrei dovuto iniziare quando era cominciata la crisi. A quanto pare sarei stata offensiva nei toni con cui ho criticato una delle letture obbligatorie: l’accusa non mi è arrivata in privato, ma è stata postata nel forum virtuale condiviso con gli altri alunni. La coordinatrice è una dottoranda senza titoli per insegnare. La sua professoressa, una figura carismatica nel mondo delle lettere catalane, finirà nei guai per il suo ruolo nell’organizzazione del referendum indipendentista. Intanto dalla segreteria mi fanno sapere che non riavrò neanche un centesimo, se mi ritiro ora che il corso volge al termine.

Anche l’estate sta per finire. L’Amico per eccellenza mi ha raggiunta a Barcellona, ma invece di cercare lavoro come si proponeva se ne sta perlopiù tappato in camera, spaventato all’idea di parlare male lo spagnolo. Ogni tanto perdo le staffe anche con lui.

La parte più odiosa di quando provi a cambiare vita è scoprire che questo non cancella le vite precedenti, e soprattutto le loro conseguenze, che ti accolli come se fossero minori a carico. Resta una punta di rancore verso questa te che prima te le ha affibbiate, poi si dilegua a poco a poco. D’altronde, neanche lei sparirà dalla sera alla mattina.

A un certo punto mi scrive la Divina, quella troppo bella perché Bruno la aggiungesse subito a Facebook: mi racconta di essere venuta alla festa del Poble-sec, il mio nuovo quartiere, e che tra le persone che la accompagnavano c’era Bruno. Peccato non esserci viste, credeva che lui mi avesse avvisata! Forse è stato dopo quel messaggio che ho inviato la critica “offensiva” al corso virtuale.

Ne sa qualcosa anche l’Amico, specie quando lo lascio tre minuti a governare una pasta risottata che mi sto sudando da mezz’ora, e lui la fa scuocere. Mi trattiene a stento dall’afferrare la borsa e piombare fuori, in cerca di una pizzeria da asporto. Io quella roba non la voglio, dichiaro: d’ora in avanti non manderò giù mai niente che non mi piaccia sul serio! Poi finisco per decidere che la pasta non è poi così scotta.

La rabbia è buona, mi ripeto, basta saperla usare. E poi se ce l’ho è perché non ci sto: non trovo più normali delle situazioni che, prima, mi lasciavo scorrere addosso.

Così cerco attività che mi facciano bene. Nelle pause studio sto passeggiando molto per i parchi, e prendo lezioni di lingue negli istituti comunali: in metro, mentre scappo al corso di francese, vedo dei ragazzi francesi andare in spiaggia e penso che vorrei essere loro, conoscere già la loro lingua per saltare il corso, andare a farmi un bagno… Ma non so più affidarmi alla gioia, ai piccoli piaceri imprevisti: mi fa paura l’idea che non dureranno, che all’improvviso mi si ritorceranno contro. Così risolvo prima le incombenze noiose.

La Casa degli spiriti è stata affittata con un contratto regolare, e con un forte sconto perché l’inquilino soprassedesse sulle condizioni disastrate. Non sento troppo l’esigenza di uscire, dunque rientro sempre nelle spese, anche se non arrivo a risparmiare niente. Sono così pallida che sembro anemica, studio tutto il giorno e rimando sempre il momento di sentire Bruno: i pochi contatti con lui non sono stati incoraggianti.

L’ho visto allo Spazio, a una proiezione di inizio estate: il Figo, che ormai spadroneggiava senza me a fargli concorrenza, ha buttato tutto in caciara, con tanto di DJ set finale. Io mi sono ritrovata accanto alla borsa un bigliettino anonimo, che si è rivelato un invito a ballare, e per scoprirne l’autore è partita una caccia all’uomo che ha finito per divertirmi. Bruno non partecipava: attendeva sul ciglio della pista improvvisata che finisse l’ennesimo tripudio swing, messo su a beneficio degli invitati catalani. Quando è scattata l’immancabile I will survive mi sono unita alle danze, iniziando a cantare a pieni polmoni. Ci ho messo un po’ ad accorgermi che non ero l’unica: alle mie spalle, con voce più potente della mia, Bruno masticava le parole di Gloria Gaynor con una furia che non gli conoscevo. Anche in una festicciola scema, l’unica cosa che ci univa era il dolore.

Allora ho abbandonato la pista, e mi sono accorta della coppia.

Si sarebbero sposati di lì a poco, per questo lui non frequentava lo Spazio come prima: lei lo aveva coinvolto nei corsi di danza così in voga tra le ragazze barcellonesi, e lui dichiarava ridendo che, se non ci andava, poteva dire addio alle nozze. Ma ora eccoli che danzavano insieme, trasformando I will survive in una canzone swing. La musica che ballavano, la sentivano solo loro.

Tornando a casa non ho fatto girare subito la chiave nel portone: mi sono allungata sul vicino Passeig de l’Exposició, tra gli alberi che ondeggiavano e le ultime cicale. La voglio anch’io quella danza, mi sono detta, Bruno e io siamo buoni solo a gridare schiena contro schiena, giurando a noi stessi che sopravviveremo.

Solo allora ho ripensato sul serio alla donnina in camicia da notte, che urlava al di là del cancello. L’avevo sorpresa a tentare la fuga dall’ospizio il giorno in cui la storia con Bruno doveva iniziare davvero. Avevo promesso di farle visita.

Quando trovo il numero della casa di riposo, non mi risponde nessuno.

Ci penso un intero pomeriggio prima di scrivere a Bruno: magari può bussare lui un attimo? È ridicolo estendere al di là di ogni logica la mia lotta quotidiana per non scrivergli! Un messaggino veloce mi risparmierebbe il viaggio fino alla strada di casa sua, e pure l’ansia nell’intraprenderlo dopo tanto tempo (ma questo non glielo dico). Lui risponde quasi subito, gentilissimo, e si impegna ad aiutarmi: mi assicura che non gli costa niente.

Quando svanisce nel nulla lo sollecito solo una volta, poi aspetto altri giorni. Infine scovo un numero alternativo, poi un altro, finché la figlia della donnina in camicia da notte non mi informa personalmente, e con molta diffidenza, che a giorni trasferirà la madre in un istituto migliore, appena fuori città. Meglio non destabilizzarla con la visita di una sconosciuta.

Riattacco avvilita da quella mia promessa non mantenuta, e al rimorso si unisce una rabbia improvvisa verso Bruno: perché impegnarsi ad aiutarmi, per poi farmi perdere altro tempo? Alle mie accuse in chat, lui reagisce attaccando.

“La tua era una scusa” sostiene con una sicurezza che mi manda in bestia. “Cercavi solo un pretesto per parlare con me. Lo so perché sto passando anche io per un’esperienza simile”.

Non trovo la forza per rispondere. Dopo settimane trascorse ad annegare nei libri, e a passeggiare con l’Amico, e a lottare con l’ansia pur di non chiamare lui, per una volta che faccio uno strappo alla regola e chiedo un favore (entrambe operazioni che mi costano tantissimo), scopro che non ho neanche diritto a un dolore che sia mio! Ma già, l’unico a soffrire al mondo è lui, per una che ci ha messo trenta secondi a lasciarlo perdere… Ah, beata lei! Stavolta la rabbia ci mette un po’ a trasformarsi in singhiozzi.

L’Amico si rassegna a entrare in camera senza bussare, sapendo di trovarmi rannicchiata sul tatami che già marcisce per l’umidità. Mi accarezza la fronte come se fossi una bambina malata.

“Perché ti accanisci, cazzo?”.

Non so spiegarglielo: forse voglio una prova che con Bruno non sia stato tutto vano, uno schifo che mi abbia sottratto solo tempo e salute mentale.

Ma queste prove si trovano solo in fondo a certe sabbie mobili: ti danno l’illusione di potertici aggrappare, e invece ti rendono così pesante che cadi ancora più giù.

Adesso so che facevo bene a evitare contatti, che voglio restare nel mio mondo sicuro, coi parchi vicini e l’Amico che si occupa di me.

Quando mi sarò rimessa un altro po’, andrò a prendermi i maledetti libri.

A lunedì per il seguito!

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Fiori da un’amica

Ottocento è troppo, seicento è giusto.

Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.

“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.

Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.

Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.

La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.

Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.

Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.  

È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.

Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.

***

Chi vive fuori arriva sempre tardi.

Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.

Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.

Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.

“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.

Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.

“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.

Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.  

“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.

Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.  

Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:

“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.

Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.

D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.

A mercoledì per il seguito!

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Per un momento

Da es.paperblog.com

Il corpo non sente ragioni.

Un mattino di aprile lo sento prendere forma sotto le lenzuola: rifiuta l’assenza a cui l’ho costretto, reclama il suo spazio. Affondando la mano sotto al lenzuolo riconosco i percorsi che piacevano a lui. E io, dov’ero? Dove sono ora? Devo ritrovare la strada per raggiungere me, solo me. Per un po’ ci riesco, poi succede. Mi balena davanti l’immagine di lui.

Allora balzo fuori dal letto. Non sento più il corpo, non so perché sta correndo in corridoio, a piedi nudi, vestito a metà. So solo che non ci riesco. Non riesco a tradire Bruno con me stessa, e allora mi vedo spalancare la porta del balcone. È quello su cui una notte ero rimasta intrappolata, costretta a osservare la mia vita da fuori. Tra la ringhiera e la pianta dalle radici pensili mi aspetta la strada. È l’istante peggiore. Il mio corpo è staccato da me, per un momento non so cosa sta per fare.

È in quel momento che viene lei. Non la avverto subito, ma sento di nuovo la maniglia sotto le dita e, scivolando a terra, mi ci aggrappo il tempo necessario a riconoscere quella cosa senza nome, la Forza che per salvarmi dalla strada mi butta a terra, sul pavimento.

Stavolta però è diverso. Stavolta ho visto ciò che rischio di fare quando la mia mente insegue i suoi fantasmi, e il corpo deve salvarsi da solo. Devo farli incontrare di nuovo, mente e corpo: unirli come è giusto che sia.

Se c’è un momento, è questo. Non è il crollo improvviso del mio castello di carta, non è la fuga verso il mare, o la mia voce che rompe il silenzio davanti a cento persone. Non è il terremoto, non è il giorno in cui imparo a mettere alla porta un uomo che mi vuole ingannare.

Eccolo il momento, eccomi. Per muovere quei passi in corridoio, per infrangermi contro i vetri di un balcone, ho iniziato a camminare una notte di novembre con un ragazzo che mi faceva ridere, e il mio cammino si arresta ora, davanti a queste radici pensili che si aggrappano oscene alla vita. Anche io scelgo quella, più di tutto. Più di lui.

Dio, devo fare tante cose.

Devo uscire dalla Casa degli Spiriti, dalle pareti ancora sfrangiate sotto la mano di pittura. Devo vedere quell’attico gelido, confidando nella primavera. Devo studiare cose che ho rimandato troppo a lungo.

E devo imparare a camminare: tutte le volte che servono.

Ma in quel momento non serve neanche quello. Mi basta piantare i piedi sul tappeto polveroso che lambisce la porta del balcone, e fare un ultimo appello alle gambe: ci sono. Fredde, indolenzite, ma ci sono.

Così la mia presa sulla maniglia del balcone si fa di nuovo forte, poi si allenta.

Finalmente mi sono rialzata.

A lunedì per il seguito!

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Presenze

Da cosedinapoli.com

Non mancano i volti buoni.

Nella Casa degli spiriti approdano due amici di passaggio per Barcellona, reduci entrambi da una rottura sentimentale. Uno dei due, napoletano, non fa che ripetere che “noi donne” siamo questo e quest’altro, al punto che resto zitta solo perché non ho le forze per replicare. L’altro, madrileno, l’ha presa così bene che il tempo di posare la valigia e sta già chiacchierando su Skype con l’ex. Alla fine ci tornerà insieme e avranno due bambini, ma intanto ci indottrina: si no puede ser, no puede ser. Perché noi italiani la facciamo così tragica? Tutta colpa del Vaticano! Io e l’altro napoletano dovremmo dare uno schiaffo morale al papa e coricarci insieme: almeno ci facciamo compagnia…

“Perché non ci dormi tu, con me?” lo sfotto, strizzando l’occhio al napoletano. “Voi spagnoli parlate tanto, ma poi…”.

Lo vediamo filare nella stanza degli ospiti, e ne ridiamo. Quella volta non mi sveglio alle cinque del mattino per piangere.

Viene anche mia madre, per “aiutarmi coi lavori in casa”: forse quello è il primo viaggio che fa da sola. Mi hanno sempre affascinato le donne della mia vita, coi loro gnocchi sfatti e le scelte così diverse dalle mie. Mamma mi porta tante cose da mangiare, e La Settimana enigmistica, che diventa il suo passatempo barcellonese insieme alla lettura delle notizie: al contrario di me non ama uscire, e adora la casa che io detesto.

Non saprò mai in che lingua riesca a litigare col capomastro, un giovedì che rincaso tardi per ritirare della paella da asporto. Dai monosillabi di lui capisco che mamma si è “permessa” di suggerire un colore diverso da quello concordato per tinteggiare le stanze, e lui non può prendere ordini da due clienti diverse. O da due donne? Non glielo chiedo. È ormai evidente che si era accollato la tinteggiatura solo per aggiudicarsi l’impianto elettrico (per il quale poi non mi rilascerà l’apposito bollino). Anche stavolta il mio corpo agisce prima di me, e mentre accompagno alla porta il furfante sto già chiamando un imbianchino suggerito da un altro frequentatore dello Spazio: un artista che pretenderà subito le chiavi, per poter dare priorità ad altri incarichi, e dopo un mese di tinteggiature notturne e capatine alla dispensa non mi praticherà lo sconto promesso.

Se i lavori in casa sono un inferno, quelli a Barcellona lo sono di più.

L’artista-imbianchino si farà aiutare proprio dall’amico che me l’aveva consigliato (altra coincidenza strabiliante!), e che mi saluterà ironico al mattino, quando mi vedrà uscire dalla stanza a mezzogiorno passato.

Non gli spiegherò che a volte piango fino all’alba, quindi mi addormento tardissimo, e comunque mi tengo il computer sul comodino, in caso sia abbastanza lucida per seguire il corsetto online. A tinteggiatura finita, sotto la mano di pittura fresca scorgerò ancora brandelli di parato.

Poco prima che mia madre riparta, un’attrice napoletana viene a propormi un progetto artistico che non andrà in porto, e a darmi una dritta: nel suo palazzo al Poble-sec si sta liberando un atticuccio piccolo e gelido, e a buon mercato. Aspetto che mamma prenda l’aereo per contattare il proprietario. La Casa degli spiriti sfida ogni mio tentativo di sentirmici bene.

Per qualche giorno mi fa visita pure una madre che mi sono scelta io: la professoressa che mi ha iniziata al femminismo accademico, e che tutta entusiasta farà avanti e indietro con dépliant di musei e bigiotteria da mercatino, chiedendosi perché io sia così refrattaria a divertirmi.

In suo onore invito gente dello Spazio, armata di bombolette e striscioni intonsi: parteciperemo al corteo dell’8 marzo! In mailing list ho scherzato sul fatto che stavolta non griderò lo slogan “La taglia 38 mi stringe la patata!”, e un’attivista queer si è prodigata in una filippica sull’uso dell’ironia nella lotta al patriarcato. Ho capito, replico, ma ormai la 38 non mi stringe un bel niente. Dovrei forse restare a casa?

No. Mentre prepariamo gli striscioni, qualcuno chiede notizie di Bruno: a quanto pare non frequenta lo Spazio da un po’ (come me, d’altronde), e non si trova in un periodo felice. Prima che gli altri possano replicare, scappo a preparare altro caffè.

Alla manifestazione mi diverto, grido slogan, mi commuovo. Un video dei The Jackal mi ha confermato che l’8 marzo in Italia significa ancora mimose e spogliarelli, e questa cosa a quanto pare farebbe molto ridere. A Barcellona, mentre il corteo si prende tutto il centro, la vetrina di un negozio italiano di intimo viene bombardata di scritte, con sommo scandalo della figlia di un Guardia Civil, trascinata alla manifestazione da una collega che bazzica lo Spazio. Io fisso come ipnotizzata quei reggiseni di pizzo dozzinale, imbottiti pure se vestono una terza abbondante. A seppellirli è bastato un colpo di bomboletta: “Stop alla pressione estetica!”. È la prima volta che mi imbatto in quell’espressione.

“Noi uomini pretendiamo troppo da voi” aveva ammesso Bruno una volta. La frase mi aveva infastidito anche così: qualsiasi pretesa era troppo, non importava se fosse grande o piccola…

Scaccio via il ricordo e agito di più lo striscione.

Qualsiasi cosa pretenda Bruno, non è più affar mio.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

L’unico invitato

Da Decopompoms, su Etsy

Ma sì, proviamo.

Ormai mangio almeno due pasti al giorno, e dormo più di cinque ore. E poi quand’è che ricompio gli anni di Cristo? Inoltro l’invito a tutte le mailing list, e poi chi viene viene.

Gli psicodrammi mi invadono casa prima ancora che la festa inizi. Il tipo che mesi prima mi aveva chiesto di mediare con la ex mi chiama ora per sapere se può portarsi dietro “un’amica”. Avvisata della richiesta, la ex annuncia che non parteciperà più, anche se il tipo intanto ha deciso a sua volta di rinunciare al suo “+1”. Alla fine il tipo si presenterà da solo, verificherà l’assenza della ex e telefonerà all’amica per farsi raggiungere. Continua la saga dei trentenni con vite sentimentali da scuola dell’obbligo, e io non posso fare la morale a nessuno.

Per mediare invano tra le parti in causa, arrivo un po’ in ritardo all’appuntamento con la parrucchiera: voglio rimuovermi dai capelli il biondo giallastro che mi rendeva un incrocio tra Shakira e Lady Gaga, e ritrovare il mio colore naturale, anche se tutto ciò che posso fare è avvicinarmici con un’ulteriore tinta, un’altra finzione. Tempo al tempo, mi consiglia questa latina di Miami che nella mia vita ha sostituito le catene di parrucchieri, con le apprendiste che mi facevano troppo bionda e si dileguavano in cerca di un lavoro migliore. Questa qui, invece, promette di rimanere.

A casa recupero ombretti e pennelli, ma il correttore non mi riesce a nascondere le occhiaie, e sul volto smunto il mio naso sembra enorme, la bocca larghissima. Il vestito è nero e stretto, con l’orlo di pizzo sulle coppe preformate: fasciata in quello, sembro ancora più magra.

Per l’occasione Bruno è tra i primi ad arrivare. A meno di non contattarlo apposta, mi era impossibile verificare se venisse, né sapevo cosa sperare. C’è come uno scollamento tra il pensiero costante di lui e la visione di quest’uomo coi capelli più lunghi, che come regalo mi ha portato anche quest’anno qualcosa da mangiare. È in bolletta e non trova lavoro, o così gli sento spiegare, in inglese, a una donna alle spalle del buffet. Quando mi giro a vedere chi sia la sua interlocutrice soffoco un’imprecazione: a lei non avevo pensato. Mi ero preparata alla possibilità che Bruno passasse il mio compleanno a sdilinquirsi, come l’anno scorso, davanti all’amica Occhiblù, che si è presentata subito dopo il lavoro facendomi sentire un verme, per il diradarsi dei nostri contatti.

Invece non avevo pensato a questa ex collega dell’azienda che mi aveva licenziata: è proprio il suo tipo, magra e squadrata, gli occhi verdi spalancati in un’espressiome di eterna meraviglia. E la Biondissima, allora? Non devo chiedermelo, devo badare agli altri invitati. Una ragazza che mi ha regalato una crema profumata si lamenta: e la torta? Non ci avevo neanche pensato, né a quella né alle candeline… Avrei avuto paura a esprimere il desiderio.

Il mio stato d’allarme dura poco: Bruno finisce per isolarsi da tutti, gli occhi puntati sul cellulare. Mi tocca tornare a rispondere alla gente che mi dice che sto benissimo in quel vestito, ma cavoli, tanti chili persi saranno salutari?

Verso mezzanotte, i pochi invitati rimasti si stanno organizzando per andare in un bar, a prendere il bicchiere della staffa. Incapace di accompagnarli mi piazzo sulla porta di casa, per il rituale dei saluti.

Ancora auguri, grazie per la festa. Grazie a te.

Ciao, auguri, alla prossima. A presto.

Solo Bruno mi passa davanti in silenzio, gli occhi incollati al telefonino. Riesce a scendersi mezza rampa di scale prima che qualcuno lo rimproveri: che fa, non saluta la festeggiata?

Allora alza la testa tutto confuso, come quando dormivamo abbracciati e si risvegliava troppo presto, svegliando anche me. Stavolta sembra sorpreso di trovarsi su quelle scale, e per un istante deve strizzare gli occhi per mettermi a fuoco.

“Ah, sì, ciao” mugugna, tracciando un gesto nell’aria. E torna al telefonino.

Un giorno mi accennerà che associa la Casa degli spiriti a un brutto ricordo, una brutta notizia ricevuta proprio alla mia festa. Non ho voluto approfondire finché non ho iniziato a scrivere queste pagine, e d’altronde non era necessario. La Casa degli spiriti, teatro delle mie ore più cupe, era per lui associata al ricordo di un’altra. Dell’altra.

Ma sul momento ignoro tutto questo. So soltanto che un unico invitato, tra tutti gli amici e i conoscenti e gli imbucati senza preavviso, un unico invitato se ne stava andando senza salutare, senza neanche riuscire a scorgermi mentre lo guardavo desolata.

Così concludo la serata tra il divano e il balcone, distesa a piangere su un tappeto rosso su cui qualcuno ha fatto cadere dello champagne.

A lunedì per il seguito!

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Pronto intervento

La prima riunione tocca a me.

Ho tutto pronto per la coordinazione: mi presenterò in anticipo allo Spazio, e sarò professionale. In fondo è il primo incontro dell’anno.

L’attacco di panico in palestra era impossibile da prevedere. Per rimediare ho ascoltato all’infinito Mr. Brightside: a farlo di mia volontà non ho problemi, ma una volta non ho chiuso bene YouTube, e la canzone mi è stata sparata nelle orecchie appena ho riacceso il computer. Ho dovuto trattenere un conato di vomito: gli imprevisti, anche piccoli, restano il mio tallone d’Achille.  

La sera prima della riunione sono angosciata. Non sono più abituata a vedere tante persone, tutte insieme. Spero che Bruno non venga, o che la sua presenza non mi turbi troppo. Sono in salone, rannicchiata sul divano damascato con una coperta di pile che quasi si scioglie al contatto con la stufa alogena. Per fortuna è uno schifo di stufa, buona solo a illuminare la stanza di una lucetta arancione. Mi accorgo di sfiorarla con la coperta ogni volta che sento odore di plastica bruciata. Il film che sto guardando è un drammone storico, pieno di fughe e colpi di pistola, ma l’ennesima sparatoria è coperta da grida improvvise, che sopraggiungono dalla strada. Chi si lamenta in questo modo?

Esco dal balcone più vicino: quello che Bruno fissava mentre mi diceva addio. Per paura che entri la tramontana mi chiudo la porta scorrevole alle spalle, e intanto spio al di là della pianta dalle radici pensili. Il ragazzo non urla più: piange, chiuso nell’angolo tra la strada principale e il vicolo su cui affaccia il balcone. Piange come se stesse da solo in cameretta, e invece è circondato da poliziotti, che lo tengono immobilizzato contro il muro. Una volante, porte aperte e luci accese, sbarra l’ingresso del vicolo. Il ragazzo sta chiedendo perdono a Dio per una situazione che non afferro: è un ladruncolo, un piccolo spacciatore? Sembra inconsolabile, vorrei fare qualcosa, ma… Schiacciata dall’impotenza, accenno a rientrare.

Non ci riesco.

Che succede? La mia mano spinge un po’ la maniglia, poi la scuote. Niente. Ho le dita doloranti e la porta scorrevole non si è mossa di un millimetro.

Attraverso il vetro osservo la coperta, che alzandomi ho lasciato cadere sul tappeto, e l’impronta del mio corpo sul divano. Il film va avanti anche senza che io lo guardi, intenta come sono a osservare la mia vita dalla parte sbagliata del vetro. Un lembo di collo lasciato scoperto dalla felpa rabbrividisce sotto una folata di vento. Le voci alle mie spalle sono cessate: gli sportelli della volante si chiudono tutti insieme.

Resto a lottare un altro po’, poi mi arrendo.

Il poliziotto che chiamo dal balcone soffoca una risata, come se fossi una bambina che si sporge dalla ringhiera. Anche il suo collega reprime un moto di incredulità: forse sarò io, e non il ragazzo arrestato, l’aneddoto da raccontare a fine turno.

Le risatine diventano sguardi perplessi quando esibisco uno sgabello arrugginito, scovato tra le radici pensili della pianta.

“Che faccio, provo a rompere il vetro?”.

Gli agenti si affrettano a chiamare i pompieri.

Per mezz’ora posso solo studiare il riflesso della sirena sull’altro balcone della stanza, che dà sulla facciata dell’edificio. Scorgo prima una sagoma appesa a quella ringhiera lontana, poi un elmetto illuminato da una torcia. Atterrato sul balcone, l’uomo resta accovacciato per un minuto scarso, alle prese con l’altra porta scorrevole: apriti sesamo.

L’intruso sfoggia un’abbronzatura artificiale che lo rende ancora più scuro, sotto i riflessi arancioni della stufa, ma mi sfodera un sorriso da pubblicità mentre attraversa il salone come se in quella casa ci abitasse. Sono io l’ospite a cui, bontà sua, sta procedendo ad aprire la porta. Così vengo riammessa d’ufficio nella mia vita.

Non è che i pompieri potrebbero salvarmi anche dalla riunione? A quanto pare, è già tanto se non mi fanno pagare l’intervento!

“Ti sei spaventata, eh?” scherza all’ingresso uno dei poliziotti, salito sul pianerottolo insieme ai pompieri.

Anche il mio vicino si è affacciato, in vestaglia: il pompiere che mi ha aperto la porta ha usato il suo balcone per arrivare al mio. Il vicino è rosso in viso, l’influenza lo costringeva a letto e suo marito è in viaggio per lavoro. Guardandolo capisco che stiamo pensando la stessa cosa: è raro vedere tanti uomini così belli, tutti insieme. Me ne accorgo perfino io, che ho gli ormoni in sciopero.

È una visione anche il capo dei pompieri, un uomo atletico e brizzolato che mi insegna cosa fare se mi, ehm, distraggo di nuovo nell’usare la porta scorrevole: l’anta va sollevata dal basso. La prossima volta sarò in grado di salvarmi da sola, mi incoraggia, e guarda ironico il povero sgabello che intendevo brandire contro la mia sorte. Intanto, conclude, ho fatto bene a chiedere aiuto.

La sera dopo racconto l’aneddoto all’inizio della riunione, contenta di avere qualcosa a cui aggrappare la mia ansia.

Manco a dirlo, Bruno arriva per ultimo, facendosi precedere da un attacco di tosse. Il senso che ho affinato per i suoi malesseri si attiva prima che possa frenarlo: non sta bene. Dopo il primo momento di allarme mi guizza in testa una speranza indecente.

“Dai, Bruno, scrivi tu il verbale!” applaudono intanto i Morti di Figo.

Forse la Biondissima si è già eclissata, penso cedendogli il taccuino. Una volta ridevo anch’io dei suoi verbali epici.

I primi a lasciare la riunione sono i quarantenni: hanno figli da prelevare in palestra o al conservatorio, e magari la cena da preparare, specie se la loro compagna non è italiana. Restiamo noi trentenni spiantati. Forse nei paeselli d’origine avremmo già tirato su una famiglia col nostro primo amore, o almeno con “lu secondo”, più bello ancora. Forse, dopo qualche anno di matrimonio, avremmo dato lavoro agli alberghi a ore che costeggiano le nostre strade verso il mare: le stesse che avremmo percorso poi in estate, con la station wagon sormontata da un canotto gonfiabile a forma di cigno. Invece siamo in questa città strana, a vivere telenovele idiote con gente persa nel mondo.

Intanto il mio l’ho fatto. Per andar via non mi resta che riprendermi il taccuino. Senza guardarlo in faccia, indico a Bruno la sua scrittura irregolare: strappasse pure le sue pagine, appena me le manda riassunte provvederò a inoltrare il verbale.

Devo guardarlo per forza, perché ha iniziato a sbuffare: questo “favore” me lo può fare al massimo tra una settimana, che adesso ha da fare. Sento montare una rabbia che non ricordavo: quella delle piccole cose, dei momenti di esasperazione che era in grado di regalarmi quest’uomo. Quando me ne toccava uno al giorno, quasi non li vedevo. Adesso ho perso l’abitudine, e con quella la pazienza.

“Vabbè, Bruno, al tuo buon cuore!”.

La frase esplode in tutto il suo sarcasmo prima che me ne renda conto. Ne resto turbata, mentre mi dileguo: ho una voglia improvvisa di finire l’hamburger vegetale iniziato la sera prima. Ormai termino i pasti in due giorni, invece che in tre.

Prima di coricarmi controllo per inerzia la posta elettronica: c’è una nuova mail. Non riconosco subito il nome del destinatario, non sono più abituata a leggerlo. È il verbale della riunione. Lo accompagna una frase che sottolinea la fretta con cui è stato stilato: nel linguaggio di Bruno, è la cosa più vicina a una richiesta di scuse.

Cristo. Me ne sono accorta da subito, da quando lui era solo uno che si lamentava con me su Facebook: trattarlo appena un po’ male era la soluzione migliore per fargli fare le cose.

Ed era l’unica cosa di cui non ero capace.

A venerdì per il seguito!

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Mr. Brightside

Ballatoio della palestra Can Ricart, in una foto di TimeOut

Perché no?

Dall’Italia sono partita con qualche etto in più, e con la rinnovata usanza di mangiare tre volte al giorno (anche se lascio il piatto a metà). D’altronde l’I-Ching mi dava spesso come responso l’esagramma 27, “Gli angoli della bocca”. Dovevo mangiare. Ma l’oracolo definitivo era stato mia nonna: se me lo ordinava lei, recuperare l’appetito era un obbligo!

A questo punto, perché non tornare in palestra? Se mi sento troppo debole, mollo dopo un quarto d’ora e torno a casa.

Mentre mi immergo nel riscaldamento (venti minuti di cyclette) considero che anche l’Amico per eccellenza mi ha fatto bene, con la sua presenza muta e solidale nella mia cameretta di bambina. Sta parlando di “venirmi a trovare” a Barcellona, ed è un’ottima idea: così lui si trova un lavoro decente, o migliore di quelli che becca in paese, e io mi godo il suo sostegno. L’isolamento in cui sono caduta è un problema.

Approfittando di questi passetti da formica, sto provando a rendere abitabile la mia Casa degli spiriti: c’è da rifare l’impianto elettrico, altrimenti il pericolo per me non saranno certo i fantasmi… Comincia a premermi la mia incolumità, ed era ora, dopo quattro mesi passati in quello scenario da horror. Il capomastro mi è stato consigliato all’unisono dal Figo e dai suoi Morti: che sia un loro compagno di bevute? Con una certa spavalderia, quell’uomo latino coi capelli già bianchi mi ha annunciato che, per mille euro in più, potrebbe perfino tinteggiarmi le pareti ingiallite… Ma a incarico ottenuto ha cominciato subito a pentirsi dell’azzardo.

Mentre accelero la pedalata sto scegliendo il colore da dare alle stanze, e intanto mi guardo intorno: non sono l’unica a fare progetti! Il ballatoio degli esercizi cardio è cambiato, come pure la sala attrezzi al piano di sotto. Da quanto tempo manco? Quella fabbrica riqualificata dal comune inizia a prendersi sul serio. I pannelli che ho visto esposti all’ingresso mostravano la sua trasformazione in club sportivo a vocazione multietnica. Forse era per questo che l’uomo col mastino detestava l’“ambientaccio”, e i giovani immigrati che lo popolavano. Ma l’uomo col mastino è finito chissà dove, dopo il suo sfratto senza gloria, e io sono ancora lì, a rimettermi in sesto insieme alla palestra multietnica.

Fortuna che ho scovato l’unica cyclette libera sul ballatoio. Continuo a pedalare a velocità moderata, con gli occhi rivolti ai monitor accesi lungo la parete di fronte. La tuta mi scende troppo sui fianchi e rimango subito col fiatone, ma mi perdono anche quello. Comincio a perdonarmi un bel po’ di cose.

Ho abbassato gli occhi un momento per risollevarmi i pantaloni, ma li ripianto sul monitor, ipnotizzata da un giro di chitarra che mi pare angosciante. Quello lì è il cantante dei The Killers? Sì, e la canzone dev’essere vecchiotta, ma il video sembra recente: una ragazza dalla pelle di latte è contesa tra un attore famoso e il cantante stesso, che appare angosciato sul serio mentre vede flirtare la fidanzata col rivale… Oddio, i pedali. Dove sono finiti?

But she’s touching his chest now

He takes off her dress now

Let me go…

I miei piedi rallentano senza riuscire a frenare. I raggi della bicicietta seguono un ritmo loro.

I just can’t look it’s killing me

They’re taking control

Ed eccoli, su tutti gli schermi: Bruno e la Biondissima. A reti unificate i loro capelli si confondono sullo stesso cuscino. Il mio.

Jealousy

Turning saints into the sea

Qualcuno spenga i monitor, o inizio a urlare.

But it’s just the price I pay

Destiny is calling me

I miei piedi si devono riabituare al suolo prima che mi giri troppo la testa. Tanto la mia pedalata non portava in nessun posto. E poi la Petulante me lo raccomanda sempre.

Open up my eager eyes

Quando sono imprigionata nella mia testa, dice la Petulante, devo premere i piedi sul pavimento…

Cause I’m Mr. Brightside.

Così me lo ricordo subito.

I never… I never…

Così ricordo subito che il mio presente è qui.

A mercoledì per il seguito!

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Risonanze

La bara è lunga e fa un rumore strano.

Lì dentro ho tutto il tempo di ripensare alla sera dell’evento di beneficenza, e a quando poi sono riuscita a mangiare.

L’ho fatto a casa, lontano da Bruno che ho lasciato a lamentarsi con una delle fumatrici sotto il palazzo: una che non gli piaceva, ho valutato odiandomi. Lui spiegava alla fumatrice che per poco non si perdeva l’evento, con tutte le cose che aveva da fare, e nel vetro della porta illuminato da un lampione l’avevo sorpreso a scrutarmi le calze. O magari me l’ero sognato. Magari aveva notato anche stavolta qualche smagliatura nella trama.

Papà invece mi ha squadrato le gambette ossute nei leggings, mentre metteva la mia valigia nel portabagagli, e mi ha subito annunciato che detestava i tarocchi: era un uomo di scienza, lui! “Santa Madre scienza”, l’ho sfottuto.

Da allora lui storpia il nome dell’I-Ching, e conia massime in napoletano contro Jung. Soprattutto detesta il mio corpo, com’è adesso: alla vigilia ho mangiato solo broccoli e lui ha paura, è convinto che io abbia qualche male fisico. Le analisi mediche che mi ha subito inflitto sembrano confermare la sua teoria.

Così sono finita in questa bara oblunga e buia, ad ascoltare rumori strani. I miei livelli di prolattina sono molto alti: da che avevo il ciclo ritardato, adesso potrei addirittura star producendo latte! Interpellata a distanza per gli auguri di Natale, la psicologa junghiana si è premurata di annunciarmi che “mi sto partorendo”.

E invece mio padre mi ha seppellita qui dentro: giorni fa, andando in cucina, ho capito dai sorrisi dei miei familiari che quella era un’imboscata. Avevano già prenotato in clinica, tutto quello che dovevo fare io era sottopormi alla risonanza, e ricordarmi che l’avevano fatto per me. Una volta in clinica, quel distratto cronico di mio padre pretendeva pure che trovassi io il reparto, con la solita notte insonne alle spalle. A quel punto gli ho soffiato in faccia: “Guarda che possiamo aiutare solo chi lo desidera”.

Nel sarcofago divento cintura nera di meditazione: trascorro i venti minuti della risonanza in un viaggio astrale, o qualcosa del genere. Tanto il mio stomaco è talmente vacante che potrei pure vedere la Madonna.

Ovvio che la risonanza non rileva niente di irregolare. In compenso, mi rivela una volta per tutte che ne ho abbastanza. Cristo, sono diventata una lagna! Dai bassifondi della mia mente riaffiora un briciolo di ironia.

Una sera di quelle anonime tra Natale e Capodanno, gioco con due amici su Facebook a storpiare i nomi dei quartieri di Barcellona, associandoli a libri e film famosi: vince a man bassa “Il diario di Hostafrancs”. Rido come una scema, poi me ne accorgo. È questo che voglio per me.

Voglio divertirmi come sto facendo con questi scherzi idioti, e come facevo con Bruno la prima notte passata a ridere, a dirci scemenze fino alle quattro. Quelle risate le ho pagate abbastanza, le rivoglio.

Anche quest’anno mi capita di riascoltare quella canzone napoletana che tradotta si chiama “Uccidimi“, e non andava mica presa alla lettera, ma ormai è andata così.

Prima di capodanno, arriva il terremoto. Il mio istinto di sopravvivenza funziona abbastanza da catapultarmi fuori dal bagno senza scaricare.

In corridoio trovo mia madre appoggiata allo stipite della cucina, come se in quel gesto reggesse tutta la casa. Allora mi appoggio anch’io a una porta a vetri troppo fragile per non tremare tutta. È come se quella fragilità fosse l’unica cosa da salvare.

Ci guardiamo, mamma e io, come vestali assorte in un rito strano, finché le oscillazioni non si fermano. Allora fanno capolino anche gli uomini di casa, che erano rimasti chiusi nelle stanze ad aspettare. Mio padre si mette a cercare su Google, in tutte le lingue, come si dice “È passato il terremoto”.

A quel punto me ne rendo conto: la prima cosa che ho pensato, subito dopo la mia fuga dal bagno, è stata che mi toccava sprofondare in un vortice di detriti senza salutare Bruno. Senza dirgli che lo amavo, e che in fin dei conti non mi dispiaceva, pensarlo felice.

Adesso, però, voglio esserlo anch’io.

A lunedì per il seguito!

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