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caracolas de hojaldre con pasas

Magari capita anche a voi che un mendicante o artista di strada vi chieda un caffè.

Specie nelle sere d’inverno, e adesso che le monetine scarseggiano perché i negozi preferiscono la carta di credito.

A me, però, capita proprio quello che mi vede e decide: “Si mangia!”. Da pischella ho ordinato menù completi da Burger King in Italia (cioè, li ha ordinati il bambino con gli occhioni dolci che mi ha chiesto se potevo “offrirgli qualcosina da mangiare”). Adesso me la cavo con un menù panino + coca cola da 365, per il ragazzetto rumeno che dice di essere laureato in psicologia, e poi cerca di vendermi delle pinne da sub.

L’altra sera, uscendo dal Triangle di Plaça Catalunya, sembrava che me la potessi cavare con un caffè, anzi due: uno per il ragazzo sulla sedia a rotelle che suonava la canzone del Padrino (e mi stavo commuovendo da quanto era bravo, ma avevo solo otto centesimi!), e un altro per sua madre, che lo attendeva in panchina circondata da coperte. Peccato, però, che il bar più vicino fosse Farggi: una roba che se vuoi il gelato ti devi fare un mutuo trentennale, e per il resto te la cavi con un rene.

Vabbè, ma io sono nata con la camicia, no? È solo caffè, no? Quando Sam dormiva nei boschi non aveva neanche il coraggio di chiedere una caramellina, no?

Insomma, sono andata a fare la fila da Farggi… E che ci ho trovato? La caracola! Un dolce a forma di lumaca che mia madre adora, e che mio padre al mattino le comprava da Rodilla su via Laietana, quando i due erano in visita. Poi è venuta la pandemia, Rodilla ha chiuso, e mamma ha schifato la caracola artigianale e vegana del forno in carrer Princesa. Da allora è una caccia continua, tamponata con robe raffazzonate oppure tristi.

E invece oh, una caracola di Farggi che non costi neanche un trapianto di fegato (la davano a 1.95) se po’ fa’. Prima di dare la notizia a mia madre, sono andata a consegnare i caffè, lo zucchero e le caramelline omaggio (perché Farggi si sa vendere).

“Ci dovrebbe essere più amore nel mondo” ha sentenziato il violinista tra un sorso e l’altro. “Nella mia terra c’è più amore.”

La sua terra era la Bosnia: non proprio il posto più hippie e flower power che mi venisse in mente. In effetti, il tipo ha proseguito: “Qui a Barcellona la guerra è stata tanti anni fa: la gente ha dimenticato cosa si prova. Io dalla guerra ci sono scappato nel 1994: siamo gitani“. E, quando ha capito che ero italiana, ha tradotto: “Zingari”. Io ormai parlo itañol, quindi mi è venuto spontaneo ribadire “gitani”, ed è iniziato un infelice balletto linguistico in cui sembrava volessi insegnare a questo poveraccio il nome da dare alla sua gente.

In ogni caso, la scoperta della caracola e la canzone del Padrino valevano bene due caffè di Farggi. Dovreste pensarci anche voi, quando fate qualcosa sentendovi la quintessenza della fessaggine, e magari, come me, ignorate i lati positivi! Se non mi ci avesse mandata il virtuoso del violino, io da Farggi col cavolo che mettevo piede, e scoprivo la caracola.

Dal mio privilegio stellare mi dico solo: se almeno quelle caramelline omaggio fossero senza latte.

(La mia versione preferita di Speak Softly, Love, dalla colonna sonora del Padrino)

Il mio portamonete gigante. Sono troppo fashion.

Questa storia è a metà tra la figura di merda epocale e il mio solito pippone sull’intersezionalità tra genere e classe sociale.

Perché l’altro giorno ero in metro ed è entrato in vagone questo mendicante: un anziano corpulento con una gran barba, e con una malattia alla pelle che mostrava a tutti attraverso gli abiti, estivi per l’occasione.

Per la verità si è presentato anche con un pezzo di pane in bocca, che masticava prima di riprendere la questua. La mia impressione è stata che dicesse: la mia pelle parla per me, che aspettate a darmi qualcosa? In effetti, la sua pelle parlava per lui.

La sua tattica, ammesso che fosse programmata, era puntare qualcuno fisso, e avvicinargli con insistenza il bicchierino con le monete, come se l’altra persona gliele dovesse – il che, a livello più sociale che individuale, non era del tutto campato in aria.

Indovinate a chi è toccato.

Ebbene sì: alla biondina con la borsa a forma di portamonete gigante (che ho comprato da Humana, quando ci ho accompagnato un’amica, contravvenendo alla mia abituale politica di boicottaggio).

Il questuante era un uomo davvero grosso, si reggeva su una stampella. Mi guardava severo, assentiva come per incoraggiarmi: apri questo borsellino gigante e dammi qualcosa.

Ho avuto la sensazione che quest’uomo fosse convinto di potermi dare ordini: di essere in diritto di farlo. E pure quella che mi separavano da lui vari abissi di privilegio.

Ho fatto cenno di no con la testa, mantenendo un’espressione ferma, e un accenno di sorriso che era più una smorfia.

Anni fa ho passato diverse domeniche pomeriggio a preparare panini per i senzatetto: una ventina alla volta, e solo formaggio e insalata, perché quasi tutti in strada potessero mangiarne. Li accettavano e ringraziavano, ma sospiravano anche un poco. Qualcuno si faceva coraggio e chiedeva: “Non è che avete un po’ di riso? Questa roba la mangio ogni giorno!”. Le mie compagne dell’associazione tornavano a casa soddisfatte e convinte di essere brave persone.

Io pensavo che qualcuno, in un ufficio con fuori uno stemma istituzionale, non si preoccupava proprio di questa parte della popolazione: tanto c’era il volontariato, e poi i mendicanti mica votano. Ci pensava la polizia a scacciare questa gente dal centro, almeno dai Bancomat al chiuso, dove loro avrebbero potuto dormire al caldo, ma poi i turisti non prelevavano.

Per questo sono diventata critica verso la beneficenza, dagli abissi, si diceva, del mio privilegio.

Tendo a dare un euro o due per volta, ogni tanto. Ho sempre la sensazione di star facendo poco e niente per chi me li chiede, e la mia sfiga cronica mi ha messo in situazioni in cui quelle monete mi avrebbero risparmiato bei grattacapi: una volta, a Roma, stavo perdendo il treno perché il giorno prima avevo dato dei soldi a un tipo che mi stava seguendo, e non trovavo più il biglietto della metro che mi aveva regalato mio fratello. Avevo cinquanta euro, e letteralmente un minuto per cambiarli. Alla fine avevo comprato una borsa da mare rosa shocking in un bazar cinese – “Può darmi qualche moneta, col resto?” – e avevo preso il treno per un pelo.

Questa e altre cose mi hanno fatto pensare a quanto poco possiamo fare con la nostra elemosina – il che non significa che dobbiamo smettere di farne – e quanto siano complicate le miserie umane che nessuno vuole sanare davvero.

Il metodo del tipo con la malattia alla pelle funzionava: mentre mi guardava severo, e io ricambiavo serena, la gente intorno a lui gli dava monete. Ora ero io la cattiva che non ubbidiva alla sua richiesta.

Alla fine, il mio avversario in quella battaglia di sguardi se n’è andato dedicandomi un insulto sdegnato, in una lingua che non conoscevo. Potevo, però, immaginarne la natura.

“Gracias” gli ho risposto, a bassa voce.

Lì per lì non ci ho pensato molto su, è solo una storia che mi è capitata.

Le persone in metro, ammesso che si siano prese il disturbo di pensare qualcosa di me, mi avranno considerata un’egoista, ingrata con la vita. Disumana, magari. E loro saranno i buoni.

Che vi devo dire.

Fare la buona a comando è da un po’ che mi riesce male.

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