
Giuro che non è la stessa foto dell’altro post!
“Semplice, no?”.
L’idea non mi faceva troppa impressione finché lo dicevo scherzando e senza troppi rimorsi, pensando a un onesto do ut des (vedi coparenting).
Poi ieri un ragazzo caruccio, nel quartiere marsigliese che mi ospita, mi ha prima chiesto una sigaretta, poi una moneta, poi dieci minuti per prendersi un caffè insieme. Allora il pensiero è rimasto lì troppo a lungo perché fingessi di non accorgermene: “Semplice, no?”. Il mio famoso problema come-divento-madre-a-38-anni-da-single, risolto così. Ovvio che mi sono allontanata senza accettare il caffè, ma mi sono fatta schifo da sola comunque, per due motivi: l’immenso potere che aveva lui, quello ancora maggiore che avevo io. Lui aveva quel solo, grande potere: seguirmi senza che sembrasse troppo strano, “Che cosa romantica, anzi!”. E poi farla franca se mi violentava, visto che non credo che la mia resistenza vada al di là della sola vista di un temperino, o del primo cazzotto. Dopo vai a spiegare alla polizia “che ci facevi da sola”, come sei sopravvissuta e perché non hai venduto caro l’onore.
Anzi, sapete che? Se una cosa poteva lasciarmi ben sperare, sul fatto che l’avrebbero creduto colpevole, era quella sbagliata: il ragazzo era arabo. Se sono loro, rubano le nostre donne. Se no… “Esistono anche le denunce falzzze”.
E niente, me ne sono andata verso il porto meditando su tutti i poteri che invece avevo io, che ero quella bianca, di classe media, ancora per un po’ sotto i quaranta, che conosceva le lingue “che contavano” e poteva permettersi di decidere a chi fare l’elemosina e a chi no.
Una volta sul molo ho risposto fiduciosa al saluto di un altro ragazzo, nerissimo, che mi si è seduto accanto: come immaginavo, dopo quella gentilezza si è immerso nella sua musica e si è fatto i fatti suoi. Nella mia esperienza francese, “assediare donne” è un privilegio per uomini bianchi, o appena un po’ scuri.
La cosa sarebbe andata liscia se non fosse stato per Nonna Abelarda, qui coi capelli velati, che cercava la foto perfetta in cui immortalare un Soldino armato di spada al neon blu. Per riprendere bene il porto, l’indomita signora prima ha fatto spostare me, poi mi ha fatto chiedere lo stesso al ragazzo che ascoltava musica, infine mi ha sbolognato il cellulare e si è messa in posa col nipote, salvo poi obbligarmi a ripetere lo scatto: il tempo che l’importuno battello si allontanasse sullo sfondo, lasciandola al suo Pulitzer per la fotografia.
Risultato: io e l’altro poveretto importunato ci siamo messi a scherzare in inglese (lui non riteneva il mio francese abbastanza buono…) sul surrealismo di tutta quella scena, e tra una chiacchiera e l’altra siamo passati a parlare di Marsiglia e Barcellona, della mia famiglia, e della sua: tre sorelle, che per vivere intrecciano i capelli delle turiste al porto di Marsiglia. Di fronte alla necessità, si diceva, l’appropriazione culturale passa in secondo piano.
Il ragazzo si lamentava del fatto che avesse degli amici ipocriti, anche con le fidanzate: sparavano un sacco di palle e andavano con chi volevano. Lui cercava una persona seria, a Dio piacendo, e non gli piaceva mentire. Vi confesso una mia colpa tremenda: decido spesso di concedermi il lusso della fiducia nell’umanità. Con tutte le diffidenze e precauzioni del caso, ma me lo concedo. Gli ho dunque spiegato che, per quanto mi riguarda, sto benissimo da sola, e al massimo lascerei la solitudine per una prospettiva di famiglia. Qualsiasi “via di mezzo” non m’interessa, per quanto amici più o meno filo-femministi o comunisti mi diano il consiglio, comune in realtà ai peggio maschi alfa, di non rivelarlo subito a eventuali uomini che mi piacciano. Il “Se no scappano” è il messaggio sottinteso di questi benintenzionati, che non capiscono una cosa: è proprio dagli uomini che scappano – che scappano dai miei desideri, almeno – che preservo la mia sacra solitudine.
Il mio interlocutore, in ogni caso, non aveva nessuna intenzione di squagliarsela: ascoltato tutto questo, si è offerto come aspirante compagno di vita, posto che la nostra conoscenza ci avesse portato a scoprire di “andare d’accordo” e, soprattutto, “trattarci bene”, che era un po’ la sua massima aspirazione: mi sono ricordata quando, a vent’anni, prendevo in giro i testi scarni di certa musica nera del ‘900, che si risolvevano in una trafila di “He treats me kind“, “I’ll treat you right“. E che era, il “buonasera” come fine ultimo nella vita?!
Scherzi a parte, con Romeo lì già cominciavo a cadere in preda al nervosismo, e a pensare a un modo di tagliare la corda io, stavolta! Per la verità temevo l’inseguimento, visto che sulla strada per il porto avevo incrociato per ben tre volte un garzone di fruttivendolo che mi aveva provato a parlare fuori al suo negozio, qualche incrocio più su. Confidando ancora in un commiato tranquillo, ho spiegato al ragazzo del porto che in tre giorni me ne sarei andata pure, e non m’interessavano i rapporti a distanza.
Ci credereste? Aveva la soluzione anche per questo: veniva a vivere a casa mia a Barcellona! Si spostava lui, “per me”, perché chi non risica… E lui era disposto a “rischiare la vita”. In che senso, ho chiesto. Mi è sembrato esitare un po’: nel senso, ovviamente, che lasciava la sua vita marsigliese per vedere se con me avrebbe funzionato… Lo ammetto: da borghese cinica e dotata del passaporto “giusto” ho cominciato a chiedermi come stesse messo lui a documenti, memore com’ero dell’unica, ormai celebre, dichiarazione di matrimonio che abbia mai avuto: “Vuoi sposarmi? Ti do cinquemila euro” (era il mio ex pako, sempre in difficoltà con il visto spagnolo). Il marsigliese, comunque, era disposto a portarmi in quello stesso istante dalla sorella “parrucchiera” – quella delle trecce – perché mi sincerassi delle sue intenzioni.
No, mi spiace, l’inizio di una relazione non lo vedo così, gli ho risposto, e mi sono alzata. Dopo il legittimo sospetto sulla disperazione di chi facesse una proposta simile, mi sono chiesta quanta ne dovessero avere quelle che accettavano, e se corressi mai il rischio di raggiungere quel livello, man mano che la prospettiva di una famiglia da libro Cuore si allontanasse sempre di più.
Come temevo, l’aspirante compagno di vita mi ha seguita, ma solo per dirmi “un’ultima cosa”: magari, a parlarci su Instagram avremmo almeno approfondito la conoscenza… Ok, ho pensato, se il mio Instagram mi salva da questa situazione sgradevole, e sia.
Adesso, credetemi, la spiegazione cinica non basta. Siamo d’accordo sul fatto che attrazione e desiderio c’entrassero poco con le profferte che ho ricevuto, ma ho letto abbastanza sul rapporto tra amore e cultura, e soprattutto ho conosciuto abbastanza persone di mezzo mondo, da sapere che il mero calcolo non spiega tutto tutto. In Crítica del pensamiento amoroso, Mari Luz Esteban parla di una coppia mista che, a quanto pare, si è messa insieme per motivi pratici, e l’amore era solo un accessorio che è spuntato dopo, con criteri molto diversi da quelli che vediamo in un film di Hollywood. Esteban cita anche l’autrice di noir Ingrid Noll: parlando con un’europea, una donna cinese di umilissime origini spiega che è sul punto di sposare un tedesco “per amore della sua vasca da bagno”. Traduco la fine della lunga citazione:
E tu parli d’amore! Di noi due, una ama un uomo, e un’altra, una vasca da bagno. In Cina, i matrimoni sono sempre stati unioni di convenienza. Nel mio caso, lui ottiene sesso esotico e io, la vasca da bagno: è uno scambio equo. Però tu poni la questione al tuo compagno in modo molto diverso: tu ottieni tutto il sesso che vuoi… E lui, per giunta, ti pulisce la vasca da bagno.
Adesso, come intuirete se seguite il blog da un po’, scatta l’aneddoto personale. Un ragazzo ivoriano che ho conosciuto secoli fa, e mi voleva semplicemente portare a letto, mi ha sgamata sui social anni dopo, a documenti ottenuti, in preda a non so che crisi nostalgica che gli portava a rimpiangere quando, a comportarsi meglio, avrebbe potuto avermi (cioè, mai?). Così, senza promesse di raggiungermi né niente. No, il cinismo non sempre spiega tutto.
Resta da chiedersi chi, tra me e questo ragazzo del porto, sia più malato di romanticismo: lui, che trova che “lasciare tutto per seguire una tizia conosciuta una sera” sia un’ipotesi possibile, e magari in realtà non aveva niente da perdere. Oppure io, che penso ancora che per “costruire qualcosa” ci voglia chissà che slancio, che premessa solida, rispetto a un semplice accordo estemporaneo tra individui senzienti.
Ma, come sospettavo fin dall’incontro iniziale col mendicante-provolone – quello che voleva prima una sigaretta, poi un caffè da prendere insieme – l’idealizzazione amorosa è costruita apposta per edulcorare uno scambio d’interessi, che Virginie Despentes, nel consigliatissimo King Kong Théorie, smaschera e rinnega in due righe che pure traduco: “Ho sempre saputo che avrei lavorato, che non sarei stata obbligata a sopportare la compagnia di un uomo che pagasse il mio affitto”.
Quando uno schema così semplice si rompe, quando, tra crisi economiche e non, diventa poco chiaro chi paghi l’affitto di chi, non sai neanche tu qual è la vittima, e quale il carnefice, e in quali momenti siamo entrambe le cose.
Il capitolo da cui ho preso la citazione di Despentes s’intitola: “Je t’encule ou tu m’encules?”.
Coincidenza? A questo punto, io non credo proprio.