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“Scusa, mi faresti da albero di Natale?”.

Il tipo di TEDx mi guarda speranzoso, prima di cominciare a spiegarci come si faccia il perfetto discorso motivazionale. Rassegnata mi alzo, e succede questo:

  • il mio corpo (il fusto) diventa il messaggio del discorso;
  • le braccia (i rami e le decorazioni) diventano lo stile, gli aneddoti e gli esempi con cui lo veicolo;
  • i piedi (le basi/radici) diventano il contatto col pubblico;
  • il puntale (ebbene sì, sono finita con una stella di carta in testa) diventa lo spunto finale di riflessione.

Cicerone da qualche parte sorride, anche se non aveva un albero di Natale. Dopo mi fanno anche i complimenti per come sia stata al gioco, e qualcuno da allora mi chiama “Christmas Tree”. È in questi momenti che ripenso agli amici che mi chiedono chi me lo fa fare, ad andare a incontri del genere.

Potrei rispondere: la curiosità, che fa figo ed è vero, anche ora che ho più o meno tolto dalla mia vita le indigestioni d’irrazionalità che mi sono concessa negli anni passati. Ormai sono persuasa che, se c’è un disegno “dietro tutto questo”, somiglierà a uno di quelli che facevo da piccola, con la gente che aveva le spade al posto delle mani perché le dita mi sembravano “antiestetiche”.

Però ho imparato che la logica comunemente intesa non sempre risolve tutto, che l’intuizione è solo la sua figlia “frettolosa”, e che la glorificazione del pessimismo fa tanto vecchio qualunquista in cerca di… piccole fans (lo spagnolo ha la definizione perfetta: pollavieja).

Quindi mi sono divertita a fare l’albero, e mi sono goduta i complimenti del tipo carino che era seduto troppo lontano da me per interagirci. Peccato che se ne andasse prima del gioco finale, che è quello che mi è piaciuto di più.

Il pubblico era diviso in due cerchi concentrici, fatti in modo che ci guardassimo negli occhi, e noi della circonferenza esterna dovevamo spiegare al compagno di fronte quale fosse la nostra miglior qualità. L’altro, a sua volta, doveva spiegarci come questa qualità potesse “cambiare il mondo” (ma andava bene anche la palazzina).

Io sono andata per: “Credo di essere brava a risolvere i problemi pratici della gente, quando me li confida”.

È semplice: sto qui da undici anni, se qualcuno cerca casa conosco spesso altri che la offrono, se cercano lavoro magari mi hanno proposto qualcosa di recente, se vanno a Napoli conosco B&B autorizzati, ecc. A volte ti sbatti tanto per aiutare qualcuno nei suoi problemi esistenziali, e poi ti accorgi che la cosa migliore che potessi fare era trovargli un lavoro.

I “cerchi umani” ruotavano, così ho ricevuto ben tre commenti entusiasti su come potessi cambiare il mondo (o la palazzina). Un avvocato sottolineava che risolvere problemi pratici era di per sé complicato, un ecologista poliglotta mi nominava addirittura “presidentessa del mondo”, perché il solo fatto di ascoltare le persone è un gran pregio.

Ma quella che mi ha veramente stupito è stata l’olandese venuta al seguito dei TEDx – la più alta della stanza, quindi dovevamo sembrare davvero una coppia fantastica. Lei ha ribaltato la questione: risolvere i problemi non è la fine, è l’inizio. È una volta risolti i problemi che la gente comincia a vivere sul serio. La mia qualità, quindi, aiuta la gente a (ri)cominciare.

Adesso no, non illudetevi che vi sappia risolvere la vita, ma il resto è vero. Di solito abbiamo tanti di quei problemi, o “pochi ma buoni”, che crediamo sul serio che senza quelli sarebbe il paradiso. E invece no: senza quelli restiamo noi con la nostra vita in mano, e spesso, parlo per esperienza, la sensazione di non sapere più che farcene. Come chi va in pensione dopo un lavoro usurante. O le donne che si sanno pensare solo come ausiliatrici e quando, per motivi luttuosi o anche allegri (come il matrimonio dei figli), si trovano la vita davanti, e vivono una vera e propria crisi d’identità.

Quindi brava, signora olandese: ci identifichiamo nei nostri problemi, e ci sembra così complicato risolverli che lo vediamo come un traguardo.

E invece è solo il “via”.

 

Quadrinapoletano

Da Se i quadri parlassero napoletano, su facebook

 

Dovete sapere che da un po’, per il master, studio arte contemporanea, materia della quale non ho mai capito una ceppa. Sono tra quelli che, guardando un quadro, fanno pensieri simili a quelli del signore qui sopra. Anzi, a essere onesta capisco anche l’assassinio della pittura predicato da Miró, o l’impossibilità di essere naturalisti esemplificata da Klein, ma di fronte a tanto struggimento, e alle interpretazioni lacaniane del prof, confesso di reagire desiderando intensamente la pausa caffè.

Mi ha colpito, però, questo pittore realista spagnolo che si chiama Antonio Lopez, che oltre a dipingere bellissimi cessi espone quadri inacabados, incompiuti. Eccone uno.

01-Antonio-López-.-China-y-Japón-Yannan-y-Tamio-.-2014

Il prof, udite udite, lo trova retorico. Dice che è retorica anche la tendenza a lasciare l’opera incompiuta.

E allora, senza che abbia nulla a che vedere con l’arte contemporanea, né con le intenzioni del pittore, mi è partita questa pippa mentale che ora vi appioppo, assicurandovi che è comunque più digeribile dei saggi proposti al corso:

  • La retorica dell’incompiuto è una caratteristica della nostra epoca.
  • È il sotterfugio per non esporci troppo agli scherzi della sorte.
  • A me, ultimamente, sembra fantastica nello studio di un pittore, ma non nella mia vita.

Ci conviene rimanere sempre sospesi, il pennello a mezz’aria? A me no. Ci conviene lasciare a metà gli studi, per paura di NON trovare un lavoro che ci piaccia? A me no. Ci conviene perderci appresso a storie che non vadano mai oltre l’entusiasmo iniziale? A me no.

In questo momento i vantaggi di vivere “incompiuta” mi sembrano meno di quelli di finire quello che comincio.

Perché capisco che l’incompiuto/infinito a qualcuno venga spontaneo*.  E non è detto affatto, su questo vi do ragione, che l’unica via possibile sia essere “realisti”, qualsiasi cosa sia per noi la realtà, e chiamare soluzione quello che è sempre stato spacciato per tale: il posto fisso, la famiglia tradizionale, tutto quello che in altri tempi stava nel quadro e lo chiudeva bene.

No, quello che io chiamo bozza potrebbe essere, per voi, un quadro perfettamente completo, un capolavoro, e va bene così.

Ma mettiamo che abbiamo un’idea su come completare il quadro della nostra vita (almeno quello), che il nostro tratto deciso si diriga verso una possibile conclusione. Che succede, se ci viene improvvisamente questa voglia di portare a termine quello che abbiamo cominciato?

Desistiamo perché abbiamo sempre fatto così? Perché non so se l’ho capita, questa retorica dell’incompiuto, ma credo diventi retorica solo quando non sia più “spontanea” e si trasformi in affettazione, una dichiarazione d’intenti dell’artista, che magari (ho sospettato anche questo) non sappia come concludere il quadro senza risultare banale.

In quel caso, forse dobbiamo rischiare di risultarlo. Banali, dico. Forse dobbiamo avere il coraggio di completarlo, il quadro. A modo nostro, ovviamente, non seguendo le tecniche altrui. Dobbiamo avere il coraggio metterci una famiglia, tradizionale o meno, se in fondo vogliamo quello. O di scegliere una volta per tutte di non mettercela, senza dissanguarci in giro in rapporti a distanza di 5, 6 anni, trascinati non per amore, ma per pigrizia.

Se volete “completare” il quadro (e solo in quel caso), meglio farlo che fingere che ci piaccia così, abbozzato, anche stavolta.

Meglio ancora uscirci, dal quadro, e decidere che per una volta l’opera d’arte, fosse anche un Picasso sotto LSD, siamo noi. Completa, completissima.

Ma senza retorica. E dai. Stavolta senza retorica.

 

 

* Se è tornato in arte contemporanea in un mondo d’immagini digitali, un motivo ci sarà. Siamo schiavi di scienza e tecnica, avrà ragione Heidegger, siamo schiavi della pretesa obiettività della fotografia, specie da quando avete comprato tutti la Canon e mi siete diventati il Doisneau d’ ‘a palazzina.

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