
La vita è un carcadè (mod. con VSCO)
Ho comprato delle verdure dalla parrucchiera cinese, per poterla pagare un po’ di più.
Verdure liofilizzate intendo, in una bustina da sciogliere in acqua bollente (e la mia imbonitrice cinese mi ha fatto vedere gli ideogrammi che indicavano l’acqua bollente). Servono a fare colazione e “avere una pelle come la sua” (quella della parrucchiera, dico, e se mai dovessi arrivare a cinquantacinque anni non mi dispiacerebbe proprio, avere l’incarnato così).
Devo anche capire perché io, in quanto donna, per tagliarmi i capelli paghi automaticamente di più di un tizio che magari ha la capa a samurai, come la chiamo io, con la chioma più fluente della mia. Mettessero un sovrapprezzo sulla lunghezza e non sul genere, magari. Qualcuno già lo fa.
In ogni caso, la parrucchiera cinese si prende l’esatta metà della mitica hair stylist ‘mericana, per fare comunque un ottimo lavoro e a soli dieci minuti da casa mia, senza necessità di prendere appuntamento come avviene per la collega del Far West californiano: certo, la stilista cinese non avrà un pc come la ‘mericana, da cui cercare su Google Images l’attrice a cui vorrei rassomigliare almeno nel taglio (campa cavallo!), ma “fa questo lavoro da venticinque anni”, come dichiara orgogliosa, e si vede. All’inizio della pandemia, quando si credeva che gli untori venissero dalla Cina, ogni volta che le veniva da tossire la poveretta correva sul retro del negozio. Poi la sua saracinesca restò abbassata all’improvviso, intorno al 12 marzo: comunque, lo stesso giorno di tutti gli altri locali cinesi in zona. Fu lì che capii che i miei, che erano in visita, avrebbero sudato sette camicie per ritornare in Italia.
Temevo che a non ritornare al lavoro sarebbe stata proprio lei, la parrucchiera cinese: e invece eccola lì tre mesi dopo, con le sue chiacchiere sulla figlia che studia all’università di Barcellona. Sono molti anni di sacrifici, signora mia.
In ogni caso, la signora è tra le poche persone che non sembrano preoccuparsi troppo di come andranno le cose. All’inizio della crisi ho dovuto tradurre in catalano, a beneficio di un nuovo arrivato napoletano che non ci capiva niente, il messaggio con cui l’azienda lo spediva in cassa integrazione.
Più internazionale per antonomasia, la mia vecchia agenzia interinale per insegnanti ha mandato al suo personale una mail in due lingue: faremo tagli, preparatevi.
C’è questa sospensione generale da recessione, qui, che si riflette forse nell’aggressività che circola tra disoccupati presenti e/o futuri. Allora è rissa sfiorata tra il quarantenne locale che va a correre con i compagni d’azienda e l’immigrato africano stanziato al Parc de la Ciutadella (“La gente litiga per le scemenze” mi spiega serafico un collega di quest’ultimo). Ma è aumentata anche l’eterna tensione che percepisco in certe zone del quartiere di Sant Pere: parchetti dove, domenica scorsa, un papà catalano e una mamma latina insultavano la ciclista che sfrecciava troppo vicina ai loro figli (lei per tutta risposta aveva accelerato, mandando baci volanti ai due aggressori verbali). In questi campetti o spazi per giostrine, alcuni ragazzi di seconda generazione fanno gruppo, si squadrano tra capannelli, e a volte… “Non andate da quella parte” ci annunciava ieri un marocchino seduto tranquillo a una panchina individuale “si stanno picchiando”. Nel mio amato Raval vabbè, ci sono i narcopisos, quindi le risse fanno parte del passaggio.
Episodi isolati, magari, ma forse è vero che c’è un’elettricità nell’aria.
Le attese uccidono: specie se sono attese di una sentenza (sul nostro lavoro, sulla nostra vita) che non pronunceremo noi, e che non possiamo cambiare. Non nell’immediato.
Qualcosa si muove anche negli annunci di case in affitto: tra gli speculatori, c’è chi sta in modalità “prendi i soldi e scappa”, e tenta il colpaccio aumentando i prezzi invece di diminuirli (oppure la cifra è esagerata proprio perché si è già pronti a trattare). C’è invece l’amica che ancora non spiccica una parola di spagnolo e si è precipitata ad affittarsi un buco che all’improvviso vale meno di 1000 euro, rimanendo poi senza soldi per comprarsi i mobili (“Devo ancora restituirti la sedia!”): nel suo palazzo di loculi per turisti riconvertiti in tutta fretta sono tutti nelle stesse condizioni. Poi l’amica trasecola quando le spiego che gli appartamenti turistici del Poble-Sec si stanno riconvertendo in abitazioni per soggiorni a medio termine: prezzi “affabili” e contratti di massimo undici mesi, hai visto mai che si risolve il pasticcio e si possa lucrare come prima. “Solo novecento euro per due stanze?” l’amica quando lo sente fa gli occhi a cuoricino: al che mi devo chiedere quanto stia spendendo lei per quest’imperdibile offerta senza mobili per cui, tra l’agenzia immobiliare strozzina e una caparra ai limiti dell’illegalità, ha dovuto prendere in ostaggio la mia sedia, o avrebbe mangiato per terra.
Ah, ma se la può tenere, la sedia: io passo le mie giornate sul letto. Ho preso due vassoi IKEA di quelli per la colazione. Su uno sistemo il pc, che sto lavorando a tre manoscritti da sistemare, mentre sull’altro, quando davvero non me ne terrà di alzarmi, piazzerò una di quelle colazioni che, tra una sorsata di carcadè fatto in casa e un assaggino di cuzzetiello, mi durano tutta la giornata (e salutatemi la prova costume).
Qua aspettiamo. L’estate c’è, c’è il sole, e la possibilità di un mare da viversi senza mascherina. Ma cos’altro c’è all’orizzonte, oltre la linea di ombrelloni fittati da chiringuitos privati sulla spiaggia pubblica?
Mi sa che lo scopriremo insieme, gente. Mi ripeterò, ma solo insieme si combina qualcosa di buono.
Tipo resistere.