Archivio degli articoli con tag: disoccupazione
Warrior of the Week: Baloo – LIBA Football and Leadership

Mi arrivano notizie dal paese.

“Sai, ho trovato un lavoro! Nella rivista per cui ho pubblicato gratis da studente. Ancora non possono pagarmi, ma hanno cambiato format e di sicuro i soldi arriveranno. Poi mi faccio contatti, mi hanno fatto intravedere un lavoretto…”

Intanto che leggo, il vicino del piano di sotto tiene una vera e propria conferenza sui suoi principi morali, e lo fa nel mio salotto: la sua connessione gli sta dando problemi e mi ha chiesto il favore di usare la mia per la terza parte del suo ultimo colloquio di lavoro. Per la verità non capisco bene di cosa parli agli esaminatori (tre uomini e una donna, l’assonanza col film non mi sembra un caso), ma ad aspirare a quel lavoro d’ufficio sono rimasti in quattro. Il vicino insegnava italiano fino a qualche mese fa, ora si è accorto che le scuole di lingue che non hanno chiuso per il virus non hanno certo troppe ore di italiano da offrire agli insegnanti: quando si deve tirare la cinghia, si imparano solo le lingue necessarie a produrre. Spoiler: l’italiano raramente si trova nel novero.

Il colloquio del vicino finisce in tempo per ora di pranzo, così apparecchio nella “sala colloqui”, ritornata salotto. Il vicino rifiuta l’invito a restare, non fidandosi forse della mia pasta ammescata, e mi confessa che non è soddisfatto di come lui abbia svolto la prova di lingue. Già perché, in queste selezioni che non finiscono più, è prevista pure quella, oltre a una prova di informatica. E meno male che non c’è il test psico-attitudinale, come quello che hanno dovuto sostenere svariati amici per Amazon!

Mi accorgo solo dopo mangiato di un altro messaggio, non dal paesello ma dal capoluogo: l’amica traduttrice. È su di giri: ha trovato una casa editrice che le fa addirittura il contratto! Cioè, il contratto, ho presente? Avevo ragione io, duecento euro per un part-time non si può sentire. Finora però ci si era sempre pagata l’affitto: certo, a patto di accettare tre o quattro lavori alla volta… Questo editore invece è uno onesto: addirittura si parla di seicento euro! Sempre part-time, ovvio. Certo, quando c’è qualche traduzione urgente da fare, lei non sta tanto a guardare l’ora…

Anche al vicino di giù (quello del colloquio nel mio salotto) era stata chiesta flessibilità. Su questo argomento spinoso, alcuni amici hanno avuto la bella pensata di essere onesti, col loro test psico-attitudinale di Amazon, e confessare che no, sulla flessibilità sono “poco d’accordo” (crocetta virtuale sulla casella apposita). Il vicino, invece, ha contattato tutti gli italiani che lavorano nell’azienda in cui vorrebbe entrare, ha scoperto che sono perlopiù milanesi imbruttiti stile figa-fatturato (lui è toscano, poteva andargli peggio…) e si è sentito dire: “Qui il lavoro finisce quando finisce il lavoro!”. Se insegnasse ancora italiano, assegnerebbe la frase agli alunni chiedendo di spiegargliela. Credo che la risposta non gli piacerebbe. Ma gli va bene lo stesso: lavorando da casa, si può almeno esercitare a suonare la chitarra, in previsione di quando potrà tornare a esibirsi col suo gruppo. Perché prima o poi succederà, vero?

Torniamo al paese. Mesi fa avevo applaudito la scelta di un amico, fresco di esame di abilitazione nel suo campo, di lasciare la piccola azienda a conduzione familiare in cui si faceva sfruttare con un patto non scritto: al momento mi sobbarco, per uno stipendio medio-basso, turni che vanno ben al di là delle otto ore. Poi, una volta abilitato, non rompete e mi date quello che mi spetta. A me sembrava un pozzo senza fondo. Anni di ore regalate, e stress, per un salto nel vuoto che, a dirla tutta, si fonda su un assioma interessante: puntare le speranze di fare carriera su datori di lavoro che, finora, ti hanno schiavizzato. Il problema, come sapete, è che da noi è la prassi.

Ultimo viaggio nel magico mondo del lavoro a Barcellona: ricordate il mio compagno di quarantena? Era a vagabondare per la Galizia, è tornato ieri. Comunque, prima del lockdown, al ritorno dal colloquio per il call center di Disney+, era tutto rammaricato perché non aveva saputo imitare Baloo. Sì, proprio quello del Libro della giungla. Ve lo giuro. Lì i colloqui d’ingresso erano più “dinamici” e “proattivi”, come amavano ripetere gli esaminatori, e tra le prove c’era “Imita il tuo personaggio Disney preferito”.

Lui era convinto di non essere passato. Quando gli è arrivata la telefonata, io c’ero. O meglio, ero in un’altra stanza. Gli sentivo balbettare, ancora assonnato, che “dell’azienda gli erano piaciuti i valori, lo spirito…”. Imparavo così la versione inglese della fuffa che si racconta a chi decide se assumerti, per non dire: “Mi è piaciuto l’ammontare dello stipendio”. Tanto, il suo piano diabolico era portarsi il taccuino al lavoro, e scrivere i suoi appunti per il blog personale, mentre rispondeva a genitori disperati perché non sapevano come proiettare i contenuti dell’app sulla smart TV (e la parola app gli era sconosciuta quasi quanto smart TV).

Insomma, da questo magico excursus nei “mondi del lavoro” (quelli delle mie due terre) potremmo ricavare due questioni e una premessa. La premessa: si parla di gente laureata tra i trenta e i quarant’anni, che viene da un contesto familiare più o meno simile. Non oso neanche immaginare cosa succeda a chi debba fare la fila per gli alimenti fuori alla parrocchia di Santa Ana: anche se le Sindy rebels, le lavoratrici sessuali e Top Manta mi tengono aggiornata.

Il problema che vedo di più in questa mia capitale del Mediterraneo settentrionale (come la chiamano dei conoscenti marocchini) è: la fuffa, a Barcellona, regna sovrana. Avete presente la casa sulla sabbia di biblica memoria? Ecco, chiamerei così un posto che fonda la propria economia sulla fama che ha tra i turisti e sulle multinazionali che vengono a risparmiare in forza lavoro, con stipendi un po’ al di sopra dei mille euro: stipendi niente male a queste latitudini, che una persona straniera si può aggiudicare per il solo fatto di parlare la lingua che parla, e di mettere piede nell’ufficio al momento giusto. Ho già parlato dei risultati della gentrificazione, qui mi limito a ricordare: Barcellona dà, Barcellona toglie.

Un mese e vivi in un appartamentino piccolo ma grazioso in zona “centrale ma non troppo”, mentre lavori in un call center con un contratto a servizio (o anche a tempo indeterminato, per quello che vale qui), e il mese dopo perdi il lavoro, o la padrona di casa ti spiega che le serve urgentemente l’appartamento per la figlia (scorciatoia per rompere contratti d’affitto molto vincolanti). Allora viene da chiedersi se la figlia della signora non sia in realtà una turista svedese che le pagherà in una settimana quello che le dai tu in un mese: tanto gli altri del condominio sono immigrati o a loro volta turisti di passaggio, che non si mettono a chiamare la polizia, e la Marieta del primo andava a scuola con la madre della padrona di casa! Quindi c’è l’illusione di stabilità: che “è già qualcosa” (ci torneremo tra poco), ma diventa pericolosa quando smetti di avere un’età appetibile per le aziende che cercano, e gli agenti immobiliari a cui ti rivolgi per un appartamento cominciano a dirti che il proprietario vorrebbe solo spagnoli, e a giudicare dal tuo cognome non sembra essere il caso…

Veniamo alla mia terra d’origine: qui il problema principale, oltre alla cronica mancanza di lavoro, sembra essere una questione di percezione, proprio. L’idea che lo sfruttamento è un male necessario, ed “è già tanto” che si lavora. La mia amica traduttrice è una bomba, risolve problemi semantici che io non vedo nemmeno. Per lei, una volta accantonato il progetto di trasferirsi all’estero era scontato che il mondo del lavoro fosse questa merda, e si credeva pragmatica nel dirmi: “L’importante è che io riesca a pagarmi l’affitto”. Finché il padrone di casa ha fatto la stessa pensata della “collega” catalana che aveva bisogno dell’appartamento per la figlia: dunque, nel caos totale che al momento governa AirBnb in Italia, ha cacciato studenti e lavoratori precari per mettersi in casa i turisti.

Adesso si pongono domande interessanti: il lavoro a distanza aiuterà a colmare questo gap, una volta epurato dei suoi incredibili problemi? C’è gente che ha risolto con la workation (oh yeah!), cioè la “vacanza di lavoro”: guadagni 900 euro al mese con le piattaforme interinali, ma per camparci ti trasferisci tipo in Thailandia. Pratico, no?

Intanto io, che ho avuto il privilegio di potermi dedicare a quello che voglio nonostante lo sfruttamento del settore, continuo a pensare la stessa cosa di sempre: facciamo ponti.

Sì, noi che viviamo tra mondi diversi. Mettiamo in contatto persone con problemi simili, raccontiamo esperienze di questa terra e di quell’altra, e soprattutto facciamo il nostro, che sia prestare il salotto a un vicino con la connessione che non va, o ricordare a un’amica precaria quanto valga il suo lavoro, visto che chi dovrebbe pagarglielo “si dimentica”, o caccia solo spiccioli.

E sì, sto per concludere come faccio da un po’ a questa parte: ne usciremo fuori soltanto insieme. All’inizio non sembra, ma è così. I diritti altrui non tolgono nulla ai nostri, e migliorano il quadro della situazione.

E un posto al sole non scalda poi tanto, se tutt’intorno si gela.

Processed with VSCO with  preset

La vita è un carcadè (mod. con VSCO)

Ho comprato delle verdure dalla parrucchiera cinese, per poterla pagare un po’ di più.

Verdure liofilizzate intendo, in una bustina da sciogliere in acqua bollente (e la mia imbonitrice cinese mi ha fatto vedere gli ideogrammi che indicavano l’acqua bollente). Servono a fare colazione e “avere una pelle come la sua” (quella della parrucchiera, dico, e se mai dovessi arrivare a cinquantacinque anni non mi dispiacerebbe proprio, avere l’incarnato così).

Devo anche capire perché io, in quanto donna, per tagliarmi i capelli paghi automaticamente di più di un tizio che magari ha la capa a samurai, come la chiamo io, con la chioma più fluente della mia. Mettessero un sovrapprezzo sulla lunghezza e non sul genere, magari. Qualcuno già lo fa.

In ogni caso, la parrucchiera cinese si prende l’esatta metà della mitica hair stylist ‘mericana, per fare comunque un ottimo lavoro e a soli dieci minuti da casa mia, senza necessità di prendere appuntamento come avviene per la collega del Far West californiano: certo, la stilista cinese non avrà un pc come la ‘mericana, da cui cercare su Google Images l’attrice a cui vorrei rassomigliare almeno nel taglio (campa cavallo!), ma “fa questo lavoro da venticinque anni”, come dichiara orgogliosa, e si vede. All’inizio della pandemia, quando si credeva che gli untori venissero dalla Cina, ogni volta che le veniva da tossire la poveretta correva sul retro del negozio. Poi la sua saracinesca restò abbassata all’improvviso, intorno al 12 marzo: comunque, lo stesso giorno di tutti gli altri locali cinesi in zona. Fu lì che capii che i miei, che erano in visita, avrebbero sudato sette camicie per ritornare in Italia.

Temevo che a non ritornare al lavoro sarebbe stata proprio lei, la parrucchiera cinese: e invece eccola lì tre mesi dopo, con le sue chiacchiere sulla figlia che studia all’università di Barcellona. Sono molti anni di sacrifici, signora mia.

In ogni caso, la signora è tra le poche persone che non sembrano preoccuparsi troppo di come andranno le cose. All’inizio della crisi ho dovuto tradurre in catalano,  a beneficio di un nuovo arrivato napoletano che non ci capiva niente, il messaggio con cui l’azienda lo spediva in cassa integrazione.

Più internazionale per antonomasia, la mia vecchia agenzia interinale per insegnanti ha mandato al suo personale una mail in due lingue: faremo tagli, preparatevi.

C’è questa sospensione generale da recessione, qui, che si riflette forse nell’aggressività che circola tra disoccupati presenti e/o futuri. Allora è rissa sfiorata tra il quarantenne locale che va a correre con i compagni d’azienda e l’immigrato africano stanziato al Parc de la Ciutadella (“La gente litiga per le scemenze” mi spiega serafico un collega di quest’ultimo). Ma è aumentata anche l’eterna tensione che percepisco in certe zone del quartiere di Sant Pere: parchetti dove, domenica scorsa, un papà catalano e una mamma latina insultavano la ciclista che sfrecciava troppo vicina ai loro figli (lei per tutta risposta aveva accelerato, mandando baci volanti ai due aggressori verbali). In questi campetti o spazi per giostrine, alcuni ragazzi di seconda generazione fanno gruppo, si squadrano tra capannelli, e a volte… “Non andate da quella parte” ci annunciava ieri un marocchino seduto tranquillo a una panchina individuale “si stanno picchiando”. Nel mio amato Raval vabbè, ci sono i narcopisos, quindi le risse fanno parte del passaggio.

Episodi isolati, magari, ma forse è vero che c’è un’elettricità nell’aria.

Le attese uccidono: specie se sono attese di una sentenza (sul nostro lavoro, sulla nostra vita) che non pronunceremo noi, e che non possiamo cambiare. Non nell’immediato.

Qualcosa si muove anche negli annunci di case in affitto: tra gli speculatori, c’è chi sta in modalità “prendi i soldi e scappa”, e tenta il colpaccio aumentando i prezzi invece di diminuirli (oppure la cifra è esagerata proprio perché si è già pronti a trattare). C’è invece l’amica che ancora non spiccica una parola di spagnolo e si è precipitata ad affittarsi un buco che all’improvviso vale meno di 1000 euro, rimanendo poi senza soldi per comprarsi i mobili (“Devo ancora restituirti la sedia!”): nel suo palazzo di loculi per turisti riconvertiti in tutta fretta sono tutti nelle stesse condizioni. Poi l’amica trasecola quando le spiego che gli appartamenti turistici del Poble-Sec si stanno riconvertendo in abitazioni per soggiorni a medio termine: prezzi “affabili” e contratti di massimo undici mesi, hai visto mai che si risolve il pasticcio e si possa lucrare come prima. “Solo novecento euro per due stanze?” l’amica quando lo sente fa gli occhi a cuoricino: al che mi devo chiedere quanto stia spendendo lei per quest’imperdibile offerta senza mobili per cui, tra l’agenzia immobiliare strozzina e una caparra ai limiti dell’illegalità, ha dovuto prendere in ostaggio la mia sedia, o avrebbe mangiato per terra.

Ah, ma se la può tenere, la sedia: io passo le mie giornate sul letto. Ho preso due vassoi IKEA di quelli per la colazione. Su uno sistemo il pc, che sto lavorando a tre manoscritti da sistemare, mentre sull’altro, quando davvero non me ne terrà di alzarmi, piazzerò una di quelle colazioni che, tra una sorsata di carcadè fatto in casa e un assaggino di cuzzetiello, mi durano tutta la giornata (e salutatemi la prova costume).

Qua aspettiamo. L’estate c’è, c’è il sole, e la possibilità di un mare da viversi senza mascherina. Ma cos’altro c’è all’orizzonte, oltre la linea di ombrelloni fittati da chiringuitos privati sulla spiaggia pubblica?

Mi sa che lo scopriremo insieme, gente. Mi ripeterò, ma solo insieme si combina qualcosa di buono.

Tipo resistere.

 

 

 

Risultati immagini per casa nostra casa vostra

Ho scritto a Repubblica. C’era questa poesia di Junqueras, e allora ho scritto. Oh, l’ha postata Repubblica, e allora ho scritto a loro. A Concita De Gregorio, che un po’ catalana ci è, e infatti parlava di Catalogna dopo che in pochi, ormai, se la filano. Specie adesso che c’è Sánchez che risolve tutto con una mano sola…

Oriol Junqueras. Su di lui si sprecavano aneddoti, prima del referendum. Su quella volta che si era messo a piangere pensando alla Catalogna unita, e sul numero di salsicce che, giurava qualche collega d’università, fosse in grado di mangiarsi a una scampagnata.

Dopo la sua incarcerazione per aver votato sì all’indipendenza, è diventato quello che doveva ricevere un presepe a Natale, ma gliel’hanno scassato e ci hanno scritto sopra “Viva España“.

Povero il paese che ha bisogno di eroi. E un paese che risolve con la repressione i suoi problemi politici mi sembra due volte povero.

Ho scritto per questo: vengo da qualche mese in più di tensioni, rispetto a chi vive in Italia, e volevo dire che è inutile trincerarsi e insultarsi mentre qualcuno divide e comanda. Dopo l’ottobre che ho passato, il giugno trascorso in Italia non mi ha rinfrancato. Immagino che anche voi, o almeno tanti di voi, vi confrontiate una volta al giorno con qualcuno che dica “affondiamo i barconi”. Oppure, più sottilmente, respinga i migranti “per il loro bene”.

Beh, anche Sánchez aveva commissariato la Catalogna “per il suo bene” (capolavoro!). E io, una società schierata in due fazioni che si schifano l’ho prima studiata, con le mie ricerche fallite sulla Grande Guerra, e poi vissuta, per fortuna in scala minore, a Barcellona e a Napoli.

Anche a Barcellona mi è stata appioppata una fazione (sarei “unionista” e “podemita”, io che non amo Pablo Iglesias e non ho mai avuto la sensazione di vivere in Spagna).

Non schierarsi, comunque, è quasi impossibile. Pure le pacifiste della Grande Guerra erano spesso “schierate”, cioè trovavano alcuni paesi più democratici di altri. Ma rifiutavano una logica binaria che trasformava i loro uomini in carne da cannone.

Allora, ho scritto a Repubblica perché dopo un ottobre a litigare, e un giugno a litigare, forse è il caso di ascoltare un’amica su Facebook:

Non voglio fare l’errore di amplificare e dare spazio a ciò che è negativo e divisivo. È esattamente ciò che si aspetta chi vuole creare il caos. Un commento indignato in più non cambierà la situazione. Voglio provare a parlare con toni diversi e a dare voce a quelle storie che possono ispirare me e gli altri ad essere persone migliori.

Qua a Barcellona, alcuni dei problemi sociali sono la disoccupazione, il carovita gonfiato dalla gentrificazione (che da noi, dopo Venezia, attacca Napoli e Torino), i tagli alla spesa pubblica, la criminalità organizzata… Le soluzioni ci sono. Poche, ma ci sono.

E in Italia?

Cominciamo a trovarle.

Se ci ispirano pure, tanto meglio.

 

 

Risultati immagini per ossigeno Ho mandato a monte la riunione di condominio.

Si vedevano solo per parlare di un soffitto crollato. Il mio. Ho già detto che sono venuti due furgoncini di pompieri a puntellare le travi?

Eppure è saltata la riunione, perché non sapevo si tenesse. Mi era arrivata la mail, in uno di questi giorni in cui non so se, tra l’indipendenza mancata e un pestaggio della Policía Nacional, mi torna a casa il “coinquilino”: l’avevo presa per una comunicazione di routine, l’ennesimo preventivo del tecnico, e cestinata. Assente io, i miei vicini non avevano niente di cui discutere.

Ma non posso lamentarmi, sapete perché?

Perché intanto mi ha contattato Tina. Che vive a Pavia in una casa non sua, fa lavoretti da niente per mantenere due figli e, se le muoiono i padroni di casa, finisce in mezzo a una via. Perché mi ha scritto? Per la solita richiesta: “Mi puoi aiutare a trovare lavoro a Barcellona? Non ne posso più di questa vita”.

Essere scambiata per San Gennaro (o meglio, per la Madonna di Montserrat) è divertente quando mi succede col ventenne indeciso tra Barcellona e Berlino: quello vuole vitto e alloggio e un lavoro ben remunerato, magari senza sapere un’acca di spagnolo. Qualcuno particolarmente attraente mi ha dato a intendere che sarebbe stato disposto a immolarsi, chiedendomi un appuntamento “per parlare”. È un mondo difficile.

Il discorso cambia se a contattarmi è Marika, che deve trasferirsi con due bimbe mentre il marito non le potrà raggiungere subito. O Angela, napoletana “emigrante” che si è vista il negozio devastato dal terremoto, uno degli ultimi che hanno martoriato il centro Italia: “è stanca di essere un peso per i figli”, e a cinquant’anni passati cerca col marito un posto da cameriera, senza parlare nient’altro che l’italiano. O il siciliano di cinquantasei anni, “ma come vedete sono giovanile”, che in un post sulla pagina che modero si dichiara disposto a fare qualsiasi cosa pur di trasferirsi, e dalle foto capisci che è per mantenere una moglie un po’ più giovane e un bimbo avuto sulla quarantina inoltrata.

Solo che adesso non posso aiutare nessuno, neanche con quel poco di consigli e contatti che possiedo, se sto così rincoglionita da scambiare la convocazione di una riunione per un preventivo di lavori. Se dimentico per la prima volta in cinque anni di pubblicare sul blog nei giorni previsti, cosa che non ho omesso di fare neanche prima di un funerale. Se mi scervello sul soffitto crollato e il coinquilino spericolato e il Primer Ministro idiota e il re inqualificabile, e il President che lasciamo sta’, come se fossero questioni che io possa controllare.

E invece tutto ciò che sono in grado di gestire è la mia calma, e quelle due cose che posso fare per Tina, Marika, Angela, il signore giovanile.

Ma è come le istruzioni di sicurezza in aereo: mai mettere la mascherina dell’ossigeno agli altri prima di averla infilata noi.

Se no, oltre a finire male, non possiamo aiutare nessuno.

 

Risultati immagini per millennials

Esticazzi? 🙂

Io noto una cosa: soddisfare le aspettative sociali non basta. Dobbiamo anche volerlo fare. Amare il Grande Fratello, insomma.

È il meccanismo perverso presentato a una mia amica che nei primi anni 2000 voleva andare in vacanza col ragazzo. Secondo il responso che ricevette in famiglia, non era sufficiente che sua madre glielo proibisse, non “doveva” desiderarlo lei.

Così come i rampolli di ceto medio dovrebbero essere entusiasti fin da piccoli di andare al liceo, nel mio caso un laboratorio fantastico di quello che mi sarebbe toccato se fossi rimasta nel mio paese: raccomandazioni, competizioni per il voto più alto, frustrazioni di alcuni insegnanti scaricate sugli alunni e l’eterno refrain “Se sei martello, batti, se sei incudine, statti”.

Abbiamo visto ultimamente che, una volta venute meno le condizioni per realizzare la missione sacra assegnataci fin dall’infanzia, non tutti ci stanno a continuare.

Circola molto la lettera di un trentenne suicida che i genitori propongono come spunto di riflessione su un modello di società che non funziona.

Sarà che in questi giorni tutti i miei amici italiani su facebook parlano di Sanremo, ma a me è venuto da pensare al meno articolato biglietto di un ventottenne, Luigi Tenco, in cui leggevo una delusione e una rabbia simile, e per una questione che può sembrarci molto triviale, come le scelte della giuria sanremese.

Perché accosto lettere così diverse di due giovani uomini, vissuti in epoche differenti? Perché, avendo superato da un po’ anche la loro età, mi rendo conto che la mia generazione, tra le altre cose, soffre di ansia di riconoscimento. Ci hanno detto che avremmo avuto lavori decenti e famiglie del Mulino Bianco, come i nostri genitori, e pare proprio che non sia così, o non nelle stesse condizioni.

Un paio di passaggi della lettera del trentenne mi ricordano anche l’idea che il mondo “dovesse esserci consegnato” in un certo modo, e “avrebbe dovuto accoglierci, invece che respingerci”. Sono d’accordo sulla seconda frase, ma la prima non sarà stata un’illusione collettiva?

Diciamo che per tutta un’epoca ci hanno fatto credere che il mondo sarebbe stato uguale a quello che imparavamo a conoscere mentre bevevamo latte e Nesquik, davanti allo stupidario televisivo quotidiano. Che gli uomini avrebbero avuto a disposizione una bella compagna disposta ad allevare i loro bambini, mentre loro portavano a casa il grosso dei soldi, e le donne avrebbero coronato, conciliando brillantemente “casa e lavoro”, il sogno più bello: quello della maternità.

Non sentite anche voi il classico rumore da disco graffiato, come nei flashback dei film? Eppure vari amici miei hanno avuto difficoltà a dichiararsi gay: a sentire mia madre “non c’erano gay nella sua scuola”, e la risatina con cui noi figli accogliamo quest’affermazione la dice lunga sui mondi diversi che abitiamo. In tanti se ne sono dovuti (nel mio caso, voluti) andare via dal posto in cui sono nati e, quando pensano ai figli, possono trincerarsi dietro all’affermazione di “non potere ancora”, per le difficoltà economiche, così da non porsi nemmeno il problema se li vogliano o no.

Alcuni uomini, non solo in Italia, continuano a pretendere che, lavorando sodo, avranno automaticamente la bonazza di turno ai loro piedi, e troppo spesso, ma veramente troppo, si arrabbiano se non è così. D’altronde tante donne etero continuano ad avere un’idea della mascolinità come rifugio e protezione che personalmente trovo squalificante per loro e avvilente per gli uomini stessi, e che si estrinseca in pagine come questa, che mi provocano quella che in Spagna si chiama vergüenza ajena (quando ci vergogniamo noi per qualcun altro).

Io, come ho già scritto qua, campo felice con 1000 euro al mese: quando è stato che mi sono posta il problema che non fossero abbastanza? Quando, tornando in Italia per le vacanze, mi sono sentita dire che fossero pochi, magari da quasi-pensionati con oltre 30 anni di lavoro fisso alle spalle. Che pretendono di scalare dal calcolo delle mie entrate quello che pago di affitto (allora a Barcellona chi arriva ai 500 è un nababbo!), e che vedono la pensione come unica alternativa a una vecchiaia di fame e di freddo.

Finché il mio migliore amico, dopo l’ennesima mia sfogata, mi ha detto: “Se non sono sereni con quello che rende serena te, è un loro problema”.

Minchia, sì! E dovrebbero ricordarselo tutte le trentenni a cui chiedono “A quando un bimbo?”, tutti i diciottenni a cui i genitori impongono Ingegneria anche se loro vogliono fare Lettere, tutti quelli che non tanto ci stanno ad attaccarsi allo stesso giogo delle generazioni precedenti: l’idea che ci sia un solo modo di vivere, e se deviano da quello arrivederci.

Il “diritto” alla felicità, personalmente, non lo concepisco. Pretendo il diritto al lavoro, il diritto alle condizioni economiche giuste per avere una famiglia, se voglio. Non importa, come obietta ogni tanto qualche  bomber “che si è fatto da solo”, che possa crearmeli io. Lo faccio già. Intanto un sistema politico che si suppone mi rappresenti dovrebbe garantirmeli o non sta lavorando bene. Ma i diritti finiscono qua.

Per una volta devo dare ragione a chi credeva che quella per la felicità fosse una ricerca.

E quella, purtroppo per una società che insegue una ricchezza inesauribile da contendersi come un osso, quella possiamo cercarcela unicamente da soli, con le nostre forze, e coi mezzi che abbiamo a disposizione nell’epoca in cui siamo nati.

Sono fermamente convinta che, superato l’eterno scoglio delle aspettative, ce la possiamo fare.

 

 

Risultati immagini per indignados barcelona  No, che non siamo sconfitti. Certo non lo siamo perché, secondo qualcuno, sarebbero stati sconfitti i nostri genitori.

È come se il cordone ombelicale che alcuni dei nostri “padri” non vogliono spezzare passasse anche per questo, per credere che tutto quanto facciamo oggi dipenda da ciò che hanno vinto o perso loro.

Parlo di chi pensa che noi ventenni, trentenni di oggi siamo smidollati, troppo viziati, mammoni, bamboccioni, precari anche sentimentalmente. Ovviamente, secondo alcuni, siamo tutto questo perché loro non ci hanno saputo insegnare a essere altro.

Curioso pensare che anche loro abbiano alle spalle una generazione che gli ha rimproverato di non sapere niente della guerra. Ripenso (citazione colta in arrivo!) al fantastico dialogo sui fascisti tra Silvio Muccino e suo padre in Come te nessuno mai. Al figlio alla prima occupazione, il padre diceva che i fascisti dei suoi tempi erano più fascisti dei suoi. E il figlio, mirabilmente, rispondeva: “E i fascisti del nonno, allora? Avevano pure la camicia nera!”.

Il Puig Antich per cui manifestava mio padre invano, è adesso invocato alle manifestazioni a cui vado io. A Barcellona.

Già, perché intanto ce ne andiamo altrove. Nell’Europa che ci rovina pensando più agli scambi di merci che di persone, ma intanto ci ha scambiati come figurine di paese in paese, per i 3, 6, 9 mesi che, se non ci hanno cambiato la vita, non ci hanno lasciati mai uguali a prima: l’Erasmus. O l’Interrail, se è per questo. O qualsiasi viaggio ci sia stato reso disponibile dal crollo dei prezzi degli aerei dopo un terribile 11 settembre, che in un mondo globalizzato diventa un 9/11, in inglese americano. Così cominciamo a parlare “mericano” pure noi, e non come Alberto Sordi.

Non mi sento sconfitta perché ho scoperto cosa significasse manifestare con migliaia di nonne coi nipotini in carrozzina, e adolescenti di ogni origine, insieme a quegli indignados che, per un’Italia sempre diffidente, erano solo “manovrados”, o addirittura la versione spagnola dei 5 Stelle. E ovviamente, secondo chi non c’era, non sarebbero serviti a niente. Anche Podemos, la Pah (qui la gente quando la sfratti si organizza, non se la prende coi migranti), l’assemblearismo che ha generato queste e altre realtà ancora più a sinistra, non servirebbero a niente. Credeteci.

Non mi sento sconfitta finché ripeto a certe intellettuali nostrane che hanno fatto il ’68 o l’equivalente di 10, 20 anni dopo, che è contraddittorio pensare di “liberare le donne dal velo” come se fossero poveri esseri indifesi, dopo una vita passata a denunciare quanto non fossero libere loro. Ma delle femministe di paesi non europei o più multietnici del nostro stanno a sentire, guarda un po’, solo quelle che la pensano come loro.

E no, non mi sento sconfitta finché imparo che, se aumentano vertiginosamente affitti e mutui, la soluzione non è il “si salvi chi può” che adotta il mio paese. No. L’assemblearismo di qua mi ha insegnato a fer xarxa, fare rete, in modi diversi e paralleli ai connazionali, o ai concittadini napoletani, che imparano a fare altrettanto, e me lo spiegano sia dal vivo, quando torno a Natale, sia online.

Soprattutto, non mi sento sconfitta finché capisco che la possibilità di comunicare in ogni momento non è solo una perdita di tempo, o una gara a chi posta più gattini o foto create per stuzzicare l’ego. Finché utilizzo la mia nuova identità mezza di carne e mezza virtuale, e ne capisco le contraddizioni e le ingiustizie, finché so fare questo non mi sento sconfitta.

E non credo che i figli debbano uccidere i padri.

Non capisco, però, perché abbiamo smesso di unirci e provare insieme a uscire dai guai, invece di difendere come cani arrabbiati le due ossarelle di dignità che ci rimangono.

Questa sì che è una sconfitta.

– Allora la protagonista del libro, la zia Tula, fa sposare il tizio che le va appresso con sua sorella. Perché a lei fanno schifo gli uomini, ma i figli li vuole. In una lettera Unamuno raccontava la storia a un amico e gli diceva in pratica che le donne cercano il sesso solo per fare figli. Se una in qualche modo già li tiene, chi glielo fa fare?
– E Unamuno credeva sta cosa?!
– A quanto pare sì.
– Veramente?

L’amica ascolta senza mangiare. Come sempre ha lasciato metà piatto, e come sempre io ho spazzolato tutto. Siamo andate da Bismillah, sotto casa mia, perché questo curry a 4,50 è più buono che in un “vero” ristorante, e perché lei vuole parlare un po’. Non le hanno rinnovato il contratto e, nonostante la gioventù e la famiglia in loco, ha provato anche lei il brivido dell’abisso. Cosa faccio dopo? E allora ci siamo prese questo pomeriggio per noi, senza PC, dizionario e curriculum da inviare.

– Io conosco un ebreo ortodosso – m’informa ora – che sostiene che dai 30 in poi le donne perdono interesse nel sesso perché le loro capacità di procreazione diminuiscono.
– Dovresti leggerti la discussione in un forum di cristiani americani – le dico. – Direttamente dalla Bible Belt. In una discussione sono quasi tutti uomini e sostengono che l’orgasmo femminile non esiste.
– No, vabbe’.
– Ti giuro. E a una tizia che provava a riportarli sulla Terra uno spiegava “senti, zoccola, mia moglie non ha mai sperimentato niente del genere, nonostante una volta abbia dovuto penetrarla per ben 3 minuti, prima di riuscire a inseminarla”.
– Porelli. Loro e Unamuno. Passeggiata? C’è un tempo bellissimo, oggi.

Infatti. Che giornata incredibile. Ero stanca di stare in casa tutto il tempo, ora che ho finito la prima infornata di traduzioni e mi dedico soprattutto al libro.

A Bismillah ci sono affezionata, spiego all’amica uscendo, perché il mio ex smise proprio qui fuori il patetico tentativo di vedermi di nascosto, per evitare chiacchiere tra i suoi connazionali. Attraversava con un cartoccio di samosas calde, da dividere col suo padrone di casa, quando mi vide chiacchierare con un suo amico. Allora davanti a tutti, pure al padrone di casa che non voleva mi parlasse, tornò indietro e me ne offrì una.

– Abbiamo fatto bene a venire qua – conviene l’amica.

Anche se parlare di tía Tula, ovviamente, non aiuta la mia autostima di aspirante scrittrice. Il climax del romanzo è lei che muore lasciando i nipoti liberi di chiamarla di nuovo zia. Quello del mio è un’escalation di sfiga autobiografica che a inventarla non ci sarei riuscita.
Mi ci vuole qualcosa di bello.

– Senti, c’è un pakistano che è diventato il mito della comunità italiana, perché ha prodotti italiani a prezzi buoni. Andiamo a cercarlo? Dice che è al c. del Parlament.

Trovarlo è una mezza Odissea. Lato mare, mi aveva spiegato l’ultimo a parlarmene, che ha una compagna di Barcellona e ormai divide tutta la città tra “lato mare” e “lato montagna”.

– Perché, tu non ci riesci? – mi chiede l’amica, curiosa.

Ebbene… no. Non ci riesco. Toponomastica e indicazioni mi sono ostili in italiano, figurarsi in catalano: qui non dicono è una traversa, ma fa angolo con. Ma, lasciando perdere il concetto creativo che questi hanno di angolo, metti che ti perdi nei meandri di questi labirintici barrios (pardon, barris) del centro… Che ne sai più di dove sia il mare e dove la montagna?
Ok, sono impedita.
Ma per fortuna, quando finalmente ingarriamo la traversa, azzecco pure il negozio.

Sembra il solito minimarket pakistano con le cassette di frutta fuori, poi…

Visione mistica.

Di quelle che devono divertire gli autoctoni quando escono con un italiano.

– Respira, che ti viene un infarto! – scherza l’amica.
– Non puoi capire. Pure la Faella!
È come l’angolo di un supermercato italiano. Solo che c’è perfino la pasta artigianale. E vedere questo a Barcellona, tutto insieme e su un’intera parete, è come James Senese la prima volta che lo vedi sul palco e poi lo senti parlare . Come il tuo ex che si mette con la tua amica che schifava. È impossibile, eppure succede.

– Ok, Maria, ora sei tu a dover tornare sulla Terra. Allora è questo, il formaggio ricotta?
– Sì. E questa è la mozzarella non disidratata, come si vende da noi. Non è artigianale ma già è qualcosa.
– E questo cos’è? “Kinder… Brioss”?
– È la mia infanzia. E tu è la prima volta che lo vedi. Il mondo è strano.

Chiedo al ragazzo alto, con la faccia da bambino, come abbia tutto questo.
– Mi piaceva cercare le cose che mi dicevano. Ho cominciato con la De Cecco. Poi mi hanno detto prendi la Voiello, e ho preso la Voiello. Poi Faella, Mulino Bianco…
– Te ne dico una anch’io. I paccheri, di Gragnano.
– Eh, mi devi dire la marca.
– Una qualsiasi. Ma che siano paccheri.

Intanto compro un pacco di Pan di Stelle, che offrirò alle altre due che ci aspettano per la prima cioccolata di stagione, da Mistral. Anche loro baciate dalla crisi: una ha appena finito il sussidio di disoccupazione, un’altra ha studiato comunicazioni audiovisive e vende macchine fotografiche al Corte Inglés. Per la serie, restiamo nel settore.

Prima però passiamo per il cortile del CCCB. È l’ultimo omaggio a questo sole di novembre che mi permette ancora le parigine. Anche se la catalana mi guarda perplessa, non ci crede che dopo Manchester non senta più freddo alle gambe.

E passando vediamo l’albero. Piccolo, rami corti, tanti messaggi di carta che pendono tipo l’albero di Natale alla stazione e al corso Umberto a Napoli. C’è scritto Albero dei desideri.

Allora stacco un pezzettino di carta da un foglietto appena preso al cinema, di quelli con la sinossi dei film. L’amica mi cede il souvenir dell’ultimo giorno di lavoro. Una penna di quelle con l’acqua in superficie. Ci galleggiano 3-4 sagome di ovuli pronti per l’impianto.

Mentre scrivo il mio desiderio, appoggiata alla panchina, si ferma una macchina della guardia urbana. Ne scendono due poliziotti, si avvicinano a un ragazzo seduto a terra. Ci guardano ripetutamente, ricambiati, gli dicono due parole, poi se ne vanno.

Appendo il desiderio improvvisato a uno dei fili di lana che avvolgono l’albero. È una parola sola. Per fare proprio l’idiota ho disegnato una faccina sorridente nella O finale.

– Perché hai scritto questo nome? – chiede l’amica. Non le dice quasi niente, segno che sto migliorando. È uno dei pochi nomi che si pronunciano uguale in spagnolo e in italiano. E a pronunciarli ormai con accento spagnolo t’illudi che siano lontani, lontani nel tempo.
– Non so. Forse perché finalmente sto scrivendo, sono sana ed è una bella giornata. Magari l’unica cosa che mi è mancata, nella vita, è scritta qui sopra.

Mi allontano ripensando alla frase attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo.

Il pericolo è il mio mestiere.

Allora, la situazione è questa:

– le ballerine marroni le ho forate ieri col ditone, ma visto il prezzo hanno resistito anche troppo;

– la tunica grigia è pulita, ma le due t-shirt che ci metto sotto no;

– il vestito bianco chiattillo sarebbe il colmo, va bene che è un sito per matrimoni, ma andare vestita da sposa non mi sembra il caso;

– la gonna nera stile sangallo è ancora reduce dalla notte di San Juan.

Scosto la minigonna per vedere se mi è sfuggito qualcosa. Niente. Uff, che mi metto?

Riciclo un vestito di mezza stagione, di quelli a bretelline che paghi un po’ di più perché “lo metti tutto l’anno”.
Poi mentre corro sulle espadrillas, le uniche scarpe possibili a questo punto, mi rendo conto che il 60% di acrilico mi farà sudare a più non posso.

Come se non bastassero i Ferrocarrils de la Generalitat. Manco un tabellone con gli orari dei treni.

Devo dirglielo, ai miei amici catalani, hanno ragione. Appena esuli un po’ dai mezzi pubblici per turisti, apriti cielo.

Eccomi ad aspettare un quarto d’ora a un binario che dice “Sant Cugat”. Eppure quando andavo in archivio era lì che passava il treno.

Che angoscia, l’archivio di Sant Cugat. Pareva un libro gigante a righe bianche e grigie, caduto dal cielo in mezzo a uno stradone che non sapevi manco come attraversare. Erano belle le margherite, fuori al cancello e dentro una lettera dal fronte orientale. 1917. Oddio, un po’ affumicate dai gas, ma si mantenevano bene.

– Scusa, per Sant Cugat? – finalmente un’impiegata delle ferrovie.
– Sei sul binario sbagliato, passano al 3 o al 4.
– E allora perché sulle scale c’è scritto Sant Cugat?
– Quella linea passa solo la mattina presto.

E io invece sono in ritardo. Quanto ci metterò, ad arrivare? Non ricordo, messaggio Vanessa. Lei lavora lì, da un mesetto. Quando ha saputo che mi avevano chiamata per il colloquio mi ha scritto tutta contenta, dopo ci prendiamo il caffè.

Mi piacerebbe lavorare di nuovo con lei, che era troppo simpatica lo scoprii tardi, quando aveva già rifiutato il passaggio al part-time perché non le bastava manco a pagare l’affitto.

A scrivere per la Francia era venuta Marie, un’altra bella scoperta. Ma perdermi Vanessa era stato un peccato, come mi confermava il messaggio di risposta: niente Sant Cugat, devo scendere due fermate dopo. E l’ufficio sta proprio vicino alla stazione.

Sì, ma dove si entra, mi dico mezz’ora dopo, contemplando desolata il complesso di uffici. Lascio un messaggio sulla segreteria del manager, che non risponde.
Quando un portiere magnanimo mi dice “lì a sinistra” arrivo nel bell’ufficio moderno che lui non è ancora disponibile.

È giovane, però. E carino, penso mentre ci accomodiamo.

– Parlami di quello che facevi prima.

Siamo vicini all’archivio, parlo anche a lui delle lettere. Lo so, sono una uallera, ma alle lettere dei “miei” soldati ci tengo davvero. Vorrei pubblicarle, un giorno.

– Quindi ti piace scrivere.

– Più di ogni altra cosa.

– Bene. Sei perfetta per fare il nostro sito in italiano. Però al momento posso offrirti solo un contratto da stagista. Se lo fai bene puoi
fare carriera.

L’ho già sentita. Anche che sono un’azienda in costante sviluppo.

– Il corso di catalano al mattino non lo posso lasciare.
– Nessun problema, lavori part-time il pomeriggio finché lo frequenti.
– Ah, bene
– Ovviamente, part-time è metà stipendio. 4 ore, 400 euro.

Non so se salto sulla sedia, certo la voce mi trema un po’.

– Prima part-time ne guadagnavo 600.

– Sì, ma il contratto di stagista prevede il minimo sindacale, 5 euro all’ora. Non ti conosciamo, se lavori bene il contratto cambia.

Que parva que eu sou, mi ritorna in mente la canzone dei Deolinda di qualche articolo fa. Che per essere schiavi bisogna studiare.

– Mi spiace, ma per prendere il treno ogni giorno, conciliarlo col corso e tutto il resto vorrei almeno 500 euro al mese, e 1000 a tempo pieno. Almeno quello.

Sorride sempre, come me.

– Il corso non ti abbiamo chiesto noi, di farlo. E ti veniamo incontro come orari ecc. Però, francamente, se per te tutto il progetto in espansione che ti propongo è una questione di 100 euro in più o in meno, e di prendere o no il treno, non fraintendermi, ma… Forse non sei il profilo che cerco.

– Pago 500 euro di affitto al mese. Vorrei coprire almeno quello, mi sembra il minimo per un trattamento umano. E se non posso, forse hai ragione, non sono il profilo che cerchi.

E poi sì, le dico. Le due parole. Questione. Morale.

Alza le mani. Stiamo nel campo dell’etica e lui sceglie solo il personale, è simpatico e disponibile finché fa bene all’azienda e come me non ne troverà mille, ma una che lavori a 800 al mese sì.

– Chiedo, non ti prometto niente – conclude.

La prendo come una fine diplomatica del colloquio, ma no, mi fa parlare con altri, col capo del personale, che mi ascolta tranquillo (e si emoziona un po’ pure lui quando gli parlo delle lettere) e mi dice che gli faccio una buona impressione. Anche se domenica vincerà la Roja. “Ya veremos”, sorrido.

E viene una potenziale collega italiana.

– Che fai, ora?
– Traduzioni.
– Ah, mi fa piacere, anch’io sono traduttrice.
– Allora non mi metto al tuo livello, ma spero di farlo bene.
– Tranquilla, qui c’è poco da tradurre, comunque.

È la più pratica, mi spiega cosa c’è da fare in dettaglio. Content, newsletter, e altre parole inglesi. E spera di rivedermi.

Saluto i manager spagnoli con una stretta di mano e un “vinca il migliore” per domenica. Detto con molta ironia su entrambi i fronti.

Resto un po’ nel parco. È bello, sono quasi tutti giovani, e le cicale sono impazzite.

Messaggio Vanessa, ma ha una riunione. Mi dice d’informarla appena so qualcosa. È durato molto, aggiunge. Buon segno.

Dal treno guardo i palazzi di Sant Cugat, quelli dei catalani ricchi. C’è una torre simil-gotica, ma elegante, coperta d’edera.

Perché allora l’archivio l’hanno fatto così brutto?

Devo ammettere che un po’ mi manca.

Mi porterei il pranzo, non come prima. E magari ci lavora ancora l’usciere biondo con gli occhi azzurri che parlava italiano e l’ultima volta mi aveva salutata con “a più rivedere”.

Due anni fa, quando credevo che avrei scritto libri di storia.

Ora voglio scrivere libri e basta.

A più rivedere, Sant Cugat.

(noi siamo i giovani)

Uno slogan anni ’70 diceva: “Più polvere in casa, meno polvere nel cervello”. Per questo mi so’ fatta femminista, perché con la polvere in casa getto letteralmente la spugna. Specie se la casa è mia e contraddice il principio della fisica per cui non si può generare materia dal nulla: ma se quando faccio le pulizie di primavera mi ritrovo “nippoli” in posti impensabili! Oddio, lì avrebbero senso, o ne avrebbero di più che nell’acqua appena versata nel bicchiere pulito.
Ma il bello della disoccupazione è “dedicare più tempo alla casa”, e non me lo voglio perdere. D’altronde, se voglio tirar tutto a lucido è unicamente per sani principi igienici: se non trovo il documento d’identità spagnolo mi sogno il sussidio di disoccupazione, di per sé già improbabile.
Fortuna che intanto ho trovato la soluzione alla crisi: sotto al mio letto è accumulato in centesimi l’equivalente del debito pubblico nazionale. Cerco di ricordarmi quando mi sia esploso il portafogli (è sempre così pieno…) quando riesco a schivare per la prima volta lo spigolo della finestra. Di solito il legno marcio mi si conficca sempre nella schiena, ma non oggi.
Allora c’è speranza! Posso perfino trovare una destinazione ai panni più imbarazzanti nel pericolante guardaroba IKEA: i casi disperati li uso per la polvere, per gli altri confido nell’eventuale contagiosità del daltonismo. No, eh?
I gioielli, almeno. Quelli che tengo perché sono regali, senza confessarmi che non si possono vedere. Li metto in una borsa tarlata, tutti tranne la parure indiana originale del mio ex, tre strati di brillanti e laccio d’oro, che destino all’uscita in pizzeria di domani: ci guarderò il Napoli tra eleganti caballeros in tuta azzurra (“’o Cava’, ma ‘o rigore era troppo facile, int’ ‘a scassata ‘e nonneta?”).
Il documento non salta fuori. Contemplo le foreste amazzoniche reincarnate sotto forma di kleenex nel comodino di Mary Poppins, e scopro cucchiaini (sempre IKEA) ancora attaccati alla bustina del tè.
Come ho fatto ad accumulare tanto schifo in soli 5 mesi di lavoro? Mah. In compenso ho ritrovato tutte le penne della mia vita. Per festeggiare batto la testa contro il legno marcio di cui sopra.
Ma il colpo di grazia me lo dà la porta sul balcone, mentre scopro che gli gnocchi “catalani” che ho versato per premiarmi sono in realtà Garofalo e cuociono in 2 minuti. Mentre mi precipito a racimolare un po’ di rosmarino per fingere di avere una salsa, zac!, la maniglia mi stampa sul fianco il solito livido viola, che in spiaggia fa sembrare la mia vita mooolto più interessante di quanto non sia.
Già è tanto che mangio, oggi: nella confusione ho menato l’accendigas nel lavandino, e non c’è verso di farlo resuscitare. Lo butto tra i cumuli d’immondizia recuperati stamattina. Ma come si ricicla, un vecchio accendigas viola? Lo metterò tra i panni per daltonici, la ruggine fa pendant con la camicia arancione fluo.