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Ho passato l’estate scorsa a scrivere Fame. Mi riprendevo dalle presentazioni di Sam è tornato nei boschi: le difficoltà logistiche avevano contribuito a regalarmi la mia prima colica biliare, e a farmi riflettere sul desolato mondo dell’editoria italiana.

È stato anche per questo che mi sono sentita libera di scrivere il testo più autobiografico della mia vita, senza preoccuparmi troppo: se non me lo pubblicava nessuno, lo avrei fatto io. Questa era una storia che volevo raccontare, l’avevo promesso.

Che fosse interessante o meno, vi ringrazio per la pazienza.

Trovate il testo integrale qui, scorrendo dal basso, e lo sto inserendo tutto anche qui, nell’ordine giusto. È una versione riadattata per i social, forse il manoscritto intero non vedrà mai la luce, ma è meglio per voi, no? Così avete meno roba da leggere! Qui ve lo presento a voce, la prima volta: se seguite tutti i video arrivate pure a quello in cui vi ringrazio.

Giuro che il pomeriggio in cui ho finito la prima bozza ero a casa mia, nel centro storico di Barcellona, e da un DJ set lontano è partita la schitarrata iniziale di Mr. Brightside: la accoglieva un coro entusiasta di gente che conosceva il ritornello a memoria.

Ormai saprete che lo conosco anch’io, per i motivi sbagliati.

Quella volta però ho pensato alla storia che non era più mia, che riposava in un documento Word, salvata due volte in attesa che ve la raccontassi, e mi sono alzata in piedi.

Quella volta ho cantato anch’io.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Sorpresa

Ci risiamo.

Sapevo che l’avrei trovato allo Spazio per il tirocinio improvvisato, ma ora lo vedo concentrato davanti ad appunti presi prima che la lezione abbia inizio, e sento di nuovo quella strana affinità. Sia Bruno che io abbiamo inseguito qualcuno che ci ha fatto a brandelli, e ora proviamo a rimetterci in sesto. Il piano di lui passa per rimediare un “pezzo di carta” che gli faciliti il trasferimento in un altro paese, e si è già letto tutti i libri consigliati per il corso. A modo suo ce la sta mettendo tutta, come me d’altronde.

Mi fa sorridere l’insegnante ingaggiata per l’occasione, che fa esempi di grammatica contrastiva nella lingua della Biondissima e poi dichiara di “non percepire nessun attrito tra noi”. Durante la pausa, invece, le altre tirocinanti mi prendono da parte appena Bruno si allontana. Tra poco è il suo compleanno, mi ricordano come se ce ne fosse bisogno, ma lui non vuole celebrarlo “per ovvi motivi”. Prima che possa scappare vengo messa all’angolo: la sera del compleanno lo Spazio è occupato… Chi avrebbe casa libera per ospitare una festa a sorpresa?

No, eh! Per una volta sono io che “ho da fare”, come ripete sempre Bruno. In attesa della ripartenza promessa a mia madre, sto traslocando a puntate con un furgoncino che costa meno dei carrelli, anche se a guidarlo sono gli stessi della mudanza. Sono stanca, dico alle ragazze, non ho le energie per organizzare pure questa roba… Insistono, ignare di ciò che mi stanno chiedendo. Portano loro da mangiare, puliscono loro. Per favore. Sarà anche un bel modo di inaugurare casa mia!

“Bruno non sospetterà nulla” conclude una. “Sta così male che ha bisogno di noi”.

Beh, se lui sta così male.

Ho il tempo di godermi la prima sera in casa nuova: sulla finestra che dà sul terrazzino, una piccola lanterna avvolge tutto in una luce calda. L’aria è intrisa d’acqua, odora di resina e fiori estivi. Sognavo da un po’ di vivere in quel quartiere inerpicato sulla collina, e ci sono riuscita quasi per caso.

Niente accade per caso, mi rimproverano le autrici junghiane dagli scatoloni che non ho ancora aperto: i loro libri già ammuffiscono in quell’umidità, ma finalmente mi addormento serena. Restituendomi le chiavi di casa vecchia, il conducente del “furgoncino per traslochi” (che però odorava di frutta) mi ha chiesto sorpreso perché vivessi da sola. Non ce l’avevo un marito? Ho risposto con una risatina falsa.

La sorpresa in sé riesce senza intoppi, grazie ai leggendari ritardi di Bruno: tanto crede di dover “solo” inaugurare il mio attico gelido, non c’è mica fretta. Così gli viene un colpo davanti al coro stonato degli auguri, e dopo qualche sorriso e due strette di mano passa la serata a giocare coi pochi invitati sotto i dieci anni, che in realtà vorrebbero uscire a correre nei parchi vicini. Come in una favola, si alza dalla sua sedia solo prima di mezzanotte.

“Mi sembra di essere rimasto il tempo adeguato” borbotta tra sé, e allora capisco: non è solo la condiscendenza con cui risponde alla generosità altrui.

La festa l’ha privato del suo lutto, del lusso nefasto di non celebrare perché non se la sente. Il bello è che forse l’unica che può capirlo, là in mezzo, sono io.

Mi manda un messaggio di ringraziamento la sera dopo, mentre ritorno dal mio giro di ricognizione del quartiere: nella parte alta, su scalette di pietra costeggiate da rampicanti, dei gatti selvatici vivono liberi e ben sorvegliati. Un bel ragazzo seduto a un tavolino del carrer Blai ha fatto una faccia sorpresa nel vedermi avanzare nel tubino bordeaux: sembrava davvero contento di ammirarmi le ossa, che si vanno rimpolpando piano piano. Per un po’ ci siamo inseguiti con lo sguardo, sorridendo delle frasi di incoraggiamento degli amici di lui. Poi sono passata oltre, e il messaggio di Bruno mi ha fatto ripescare il telefonino dalla borsa. Già che ci sono, sulla salita per tornare a casa nuova mi metto a cercare anche le chiavi.

Non ci sono.

Per antica abitudine sono uscita con le chiavi della Casa degli spiriti, e l’indomani ho l’aereo per tornare da mia madre a consolarla del lutto. L’attrice che mi aveva segnalato l’attico gelido è fuori città, e il padrone di casa, che mi affretto a contattare, può vedermi solo l’indomani.

Eccomi di nuovo esclusa da casa mia.

Penso in fretta. Ho in borsa il documento per partire, e nella Casa degli spiriti mi è rimasto qualche vestito… Ma no, io lì non ci voglio tornare a dormire, mai più. E poi che ansia, partire senza le chiavi giuste!

Quando alla fine mi viene aperto almeno il portone, i vicini del palazzo di fronte mi vedono sollevare fino ai fianchi il bel vestito bordeaux, nel tentativo di calarmi sul terrazzino attraverso la staccionata a rombi: mi si pianta una scheggia di legno nella scollatura. Mentre attendo il “fabbro h24” reclamizzato da un bigliettino all’ingresso, me ne rendo conto. Eccomi di nuovo chiusa fuori dalla mia vita, come quella volta che erano arrivati i pompieri.

Stasera il problema si è invertito: ho il mondo a disposizione, e l’unica parte che mi preme occupare è lo spazio angusto della mia nuova casa.

Ma il sedicente fabbro non arriva mai, e anche Bruno è sparito. Gli ho spiegato cos’è successo e lui, dopo un attimo di sorpresa, ha smesso di messaggiare. In fondo, che gliene frega?

Nonostante le mie sollecitazioni, e gli accenni alla partenza da organizzare, i “fabbri” giungono dopo più di un’ora: tre ragazzi latini, che mi imbottiscono di chiacchiere per fare un lavoro a metà e chiedermi una cifra spropositata, che con loro alle calcagna devo prelevare apposta al bancomat. Se mi ribello, che ne so di come reagiranno?

Una volta intascati i soldi, quello che sembra essere il capo (e l’unico che sappia il mestiere) mi rivolge la stessa domanda del facchino pakistano: abito tutta sola, come mai? Gli uomini che conosco non hanno gli occhi?

“Domani ti accompagno all’aeroporto” si offre. “Per te il passaggio sarebbe gratis, eh”.

Me lo ripete due volte, che è gratis. Proprio non capisce perché gli dica di no.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.