Archivio degli articoli con tag: relazioni

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Affilata

Eccola.

Mi basta un’occhiata alla foto per stringermi la giacca al petto. È lei, non può essere che lei. E non è la prima volta che spio il Facebook di Bruno, in cerca delle ultime ragazze che ha aggiunto. Lo facevo, odiandomi, dopo una festa o un evento allo Spazio, quando lo vedevo sdilinquirsi per una davanti ai miei occhi. Trovare la fortunata tra i suoi contatti mi rinfrancava quasi: era stato proprio lui a dirmi che gli costava fatica, chiedere l’amicizia a quelle che gli piacevano sul serio. Non per niente mi aveva aggiunta subito.

Invece mi ha mentito, penso osservando la foto della Biondissima. È la prima volta, con una che gli piace, che non riesco a decidere cosa ne penso. Guardando la foto ho solo freddo. Sarà che sono sudata: ho fatto una corsa fino alla “tenda berbera”, che già veniva smontata, per recuperare i documenti dimenticati sul tavolino accanto ai noccioli d’oliva.

Ma non è quello. La sensazione di gelo non si placa davanti a questa ragazza troppo impegnata a mettersi in posa, per sorridere all’obiettivo. I suoi occhi sembrano chiedere: “Lo sto facendo bene?”.

A quanto pare sì, le rispondo muta. Ed è quella promessa di un’eterna distanza a comunicarmi che tra me e Bruno è finita. Io non saprei replicare quel gelo perfetto. Mi accorgo che nella posizione che ho assunto mi sto quasi abbracciando.

Il pomeriggio seguente, Bruno ha appena visto la casa e già la odia.

Attraverso i suoi occhi mi accorgo che ha ragione: la controsoffittatura è atroce quanto il mobilio d’accatto, ed è un obbrobrio l’orologio con Amore e Psiche appollaiati sul quadrante, le loro schiene in movimento riflesse nella specchiera. Il profluvio di tappeti pretenziosi ricorda quegli alberghi che è inutile ristrutturare, tanto verranno rasi al suolo appena l’anziana coppia di titolari andrà in pensione. Come ho fatto a scegliere quel posto per viverci? Mi sono fatta due conti, devo ricordarmi: il prezzo era quasi incredibile per la sua convenienza, e a mettere i soldi provvedevano i miei… Ma capisco ciò che Bruno sta pensando, mentre si getta su un divano damascato in salotto: io ho potuto comprare casa e lui no, ed è ingiusto, e ha ragione. Non so se ha anche bisogno di un motivo per disprezzarmi, adesso che si definisce ad alta voce “un proletario” e io capisco che è venuto per obbligo, per senso di giustizia. Il suo modo di guardare il balcone che ha davanti, e mai me, mi comunica che non mi deve spiegazioni, ma me le concederà lo stesso. Non che sia strafottente o maleducato, anzi. La sua nuova gentilezza sa già di distacco.

Prima del suo arrivo ero troppo ansiosa, così ho chiamato la Strategica, che mi ha prescritto un esercizio semplice: scrivere. Dovevo mettere nero su bianco qualsiasi cosa mi venisse in mente. Solo dopo sarei stata in grado di affrontare l’incontro.

Stavolta, però, la formula magica non fa miracoli.

Steso sul divano, Bruno mi sciorina un discorso pieno di espressioni ricorrenti. “Scelta difficile”, “frenare”, “insistevano”. Lo immagino nell’atto quasi comico di ammansire gli amici ruffiani, spiegando loro che “vedeva qualcun altro fino a cinque minuti prima”. Dunque la nostra “frequentazione” è stata solo un lungo vedersi. Peccato che Bruno non mi ha vista mai.

Ora guarda fisso il balcone su cui vivacchia una pianta troppo grande, per il vaso che la contiene, e io mi accorgo che sono arrabbiata con lui per mille motivi, ma quello che mi ferisce davvero è uno solo: non mi ama. Ed è l’unica cosa di cui non ha nessuna colpa.

Con dolcezza calibrata attira la mia testa sul suo petto. A un certo punto sembra addirittura sminuire la Biondissima, che non nomina mai. Devo reprimere ogni cocciuta speranza per ammettere che è scaramanzia, che lui sta minimizzando ciò che c’è stato con “questa persona” (un caffè, una passeggiata) perché spera tanto in ciò che potrebbe esserci ancora.

Il mio corpo è passato da accessorio a estraneo: l’ostacolo che lui deve aggirare per ottenere ciò che vuole davvero. Mi confessa che la mia prima notte in quella casa, quando mi ha mandato quel messaggio alle due, sperava proprio di trovarmi già a dormire, sfiancata dal trasloco. Non voleva rischiare che tra noi finisse “come al solito”, e io mi ritrovo a contemplare quell’anno di lividi e di lenzuola sfatte, rinchiuso in tre parole: “come al solito”. Tra noi finisce sempre in quel modo, si esaspera lui, ed è come se si stesse lamentando di un virus che ci contagiamo a vicenda, di una malattia venerea. Per questo è lì, ora, nel tentativo di “fare la cosa giusta”, e la mia logica ossessiva gli dà pure ragione: parte della mia strategia recente consisteva proprio nell’assecondarlo, quando pensava che noi due non fossimo niente, ed è venuto fuori che non eravamo niente sul serio. Poi il mio ventre si contrae in un promemoria: ho dovuto ascoltare il pettegolezzo di un amico, per scoprire che c’era un’altra. Quanto bisogna sbagliare la propria vita, perché succedano cose del genere? Ecco che mi sto già dando la colpa di tutto.

Bruno però mi rende l’onore delle armi: ormai dovrei saperlo che mi trova carina. “Assai”, scherza, scimmiottando il mio accento. Però lui a me basta e avanza, gli ricordo con un filo di voce, mentre io a lui no. Prima di replicare indugia un po’, come se fosse davanti a un test di valutazione:

“È che non sei abbastanza affilata”.

Il suo tono è quello scherzoso e un po’ dispiaciuto con cui si comunica una promozione sfiorata, o il risultato di una partita persa ai punti.

Lì per lì penso che si riferisca al mio umorismo, o al carattere. Mi è sembrato ovvio a una prima occhiata che la ragazza della foto fosse… pungente, come il freddo che mi ha trasmesso. Ci metterò giorni a capire che Bruno intendeva proprio quello: i miei lineamenti, il mio corpo con le antiche rotondità e i nuovi spigoli, non erano abbastanza affilati perché lui si innamorasse di me.

I tre baci dell’addio sono i più solenni di sempre, specie quello lento che mi plana sulla fronte. A sorpresa mi prende il polso e bacia anche quello.

“Sei sempre profumata”.

Flower di Kenzo. La boccetta resterà con me per altri tre traslochi: un piccolo relitto che non avrò mai più il coraggio di usare, né di buttar via.

A mercoledì per il seguito!

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Il mare ha un suo metodo

Da barcelonatourisme.com

Viene prima il sollievo.

Colpisce un istante solo, così breve che potrei fingere di non notarlo. Eppure è stato lì, nel mio ventre contratto, un momento prima di lasciare spazio al dolore. Lo sapevo, mi dice il ventre. E dice pure: almeno adesso lo sai anche tu. Quanto cazzo detesto gli almeno.

Ma non ascolto il corpo, non ancora. Sono tutta protesa verso l’amico, che sta scegliendo un’altra oliva.

“Chi lo dice?” riesco a chiedere. “Chi dice che Bruno si è innamorato di questa… tizia biondissima?”.

All’improvviso temo che l’amico mi riferisca qualcosa che ha visto in prima persona. Niente di tutto questo, ma mi sento nominare una fonte di tutto rispetto: un altro che frequenta il bar specializzato in scambi linguistici, e che sa tutto delle ex di Bruno e niente di me.

Io non ho bisogno di sapere altro. Potrei raccontarmi perfino che avevo capito subito: dopotutto avevo irrigidito la testa sul petto di Bruno, mentre lui mi parlava della nuova amica. Ma non è vero, Bruno mi ha nominato diverse donne: lo faceva di meno, ma non aveva mai smesso. Dal caos che mi ha invaso la mente ripesco un detto americano: “Se sostieni un uomo in difficoltà, lo prepari per quella che verrà dopo di te”. Bruno si è consolato tra le mie cosce dei soldi persi, e adesso che sta meglio può passare a una che gli piaccia davvero… No, troppo cinico: la realtà dev’essere ancora più banale.

Quand’è che ha conosciuto la ragazza biondissima? Circa un mese fa, e lo sanno già tutti. Di me, invece, nessuno ha saputo nulla per un anno.

Mi alzo a fatica dal tavolino basso: non riuscirò a simulare a lungo. Accusando i crampi del ciclo (che comunque non inizia) pianto l’amico lì, insieme alla busta coi documenti che custodivo con tanta attenzione. Ma non mi guardo indietro, non voglio vedere gli ossi di oliva rosicchiati. Adesso voglio solo correre, e per la prima volta dopo tre giorni di trasloco non so dove andare. L’unico obiettivo è quello di ripescare il cellulare in borsa.

Bruno risponde quasi subito, sorpreso della chiamata. Per un lungo istante mi chiedo se non stia insieme a lei, poi penso che no, perché lui la voglia così tanto lei dev’essere assente, quasi sempre.

“Perché non sei ancora venuto a casa nuova?” riesco a domandargli.

“Stasera, dici? Avevo un ospite a cena: l’amico di un’amica che…”.

“Perché non sei venuto?”.

Silenzio. Lui assume un tono ambiguo, tra l’incoraggiante e il divertito:

“Se hai qualcosa da dirmi, dimmelo”.

Gli ripeto le parole che ho appena ascoltato. Il nuovo silenzio sembra durare un’eternità, ma so analizzare anche quello: Bruno è seccato.

“Chi te l’ha detto?”.

Non è sorpreso, imbarazzato, pentito. È proprio seccato. Quando gli nomino la fonte del pettegolezzo, prorompe in una serie di imprecazioni sulla gente che “non si fa i cazzi suoi”. E allora capisco che non siamo più soli. Come la Bella Stronza si intrometteva tra noi a sproposito, adesso c’è la Biondissima, con maiuscola: un’altra che non chiamerò mai per nome. Della mia rabbia Bruno non sa che farsene, preso com’è dalla sua indignazione.

Il tuo corpo capisce le cose… Okay, inutile ripetermi la tiritera della Petulante adesso che le gambe mi portano via senza più chiedermi il permesso, e Bruno si scalda: lui con “questa persona” non ci ha fatto proprio niente! Ci si è preso un caffè, che c’è di strano? Al massimo hanno passeggiato un po’…

Me lo immagino a contemplarla in silenzio, senza riuscire ad ascoltare ciò che sta dicendo. Ecco il sentimento che gli mancava, nobile e puro, così diverso dal bisogno immondo di sfogare i suoi umori nel primo corpo a portata di mano: il mio. Che sta avendo un suo collasso interno, senza per questo fermare la corsa.

La prima a crollare è la logica. Questa roba è così allucinante che non sta succedendo, non ho altra spiegazione. Poi arrivano le accuse a me stessa: se Bruno sta avendo questa reazione del cazzo, sto facendo qualcosa di sbagliato io.

“Perché non me l’hai detto, Bru’?”. Riesco persino ad assumere un tono disinvolto, da donna di mondo. “Pensi che mi importi? Tutto quello che voglio da te è lealtà”.

Come ho fatto a spuntare sulla Rambla? Non lo so. A un tratto capisco che sto andando verso il mare, ed è una buona notizia. Il mare ha un metodo tutto suo per calmarmi, o così mi viene da pensare mentre accelero il passo e recupero un po’ di voce.

“Guarda che io non sono il secondo piatto di nessuno”.

Lui sembra soppesare quell’espressione che il mio cervello ha appena tradotto dallo spagnolo, e che un altro italiano non avrebbe colto subito.

“Temevo potessi diventarlo” ammette in un tono che mi pare rassegnato. “Per questo ti ho scritto che non mi sentivo di essere altro che un amico. Non credere sia stato facile, c’era mezzo mondo a farmi pressione ed ero io a frenare, a dire che avevo una frequentazione fino a cinque minuti prima…”.

Frequentazione. Mesi di lavoro, pianti, insonnie, digiuni, cancellati in una parola. A quanto pare non è mai esistita la mia estate inappetente, non è mai iniziato questo autunno passato a sperare, e a correre. Era un’allucinazione anche la gatta che veniva a fregarmi il lettino da campo e a consolarmi, prima di volare giù senza che la lasciassi più entrare nelle mie notti insonni.

Solo che la gatta c’è rimasta secca e io sono ancora lì, in qualche parte del mio corpo che sta correndo dissociato dalla mia voce, dalle parole rassicuranti che racconto innanzitutto a me stessa, poi a Bruno: lealtà. Chiedevo solo lealtà.

La più grande illusione è stata quella di avere tutto sotto controllo.

Quando intravedo il porto, respiro. Partenope si è buttata in mare, io scivolerò contro un lampione a fissare le luci delle barche ormeggiate.

Mi accorgo solo adesso degli accenni di Bruno al suo ospite: il poverino deve restarsene in sala da pranzo, mentre il padrone di casa si sente molto magnanimo a parlare con me, invece di intrattenerlo. E forse non capisce neanche perché ho la voce rotta.

Mi rendo conto che ha ammesso la nostra “frequentazione” solo con quelli che tentavano di piazzarlo con la Biondissima, e solo mentre decideva di mollarmi.

“Possiamo parlarne dal vivo?” taglio corto.

Sembra contento della soluzione: così potrà pure tornare al suo ospite. All’improvviso ha il tempo per venire da me il pomeriggio seguente.

La prima cosa che faccio quando riattacca è chiamare la Petulante: scusa, non sei più stronza, mi riceveresti appena puoi? Forse non lo dico proprio così, ma qualcosa nella mia voce incrinata spinge la Petulante a riservarmi il primo buco che si ritrova in agenda, tra due giorni. Adesso ho un’idea a cui aggrapparmi in queste prime ore.

Intanto mi tocca contemplare quel mare troppo scuro, le acque increspate da un vento che non punge.  

A lunedì per il seguito!

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Qualcosa che non ho visto

Adesso mi tiene addirittura per mano.

Lo fa quando siamo in strada, non sempre però. La “relazione”, come ora la chiama anche lui, torna a essere un chiaroscuro definito dalle assenze: condividiamo la passione, non i problemi. Al massimo sono io ad accollarmi i suoi, le ansie per quei soldi persi che gli guastano le ore. Lui però mi offre riparo a casa sua, quando l’uomo col mastino mi manomette il contatore dell’acqua e devo scendere sei piani a ripristinarlo. Il mio terrazzo resta chiuso: non c’è più la gatta ad acciambellarsi sotto l’amaca, e passata l’estate comincia pure a far freddo.

A un certo punto devo ammettere che l’euforia da fine estate è finita. Le scartoffie per comprare casa nuova non finiscono più, e il ciclo non torna. La Petulante mi sciorina ancora la storia del corpo che capisce le cose prima della mente: c’è qualcosa che mi mantiene bloccata proprio ora che tutto si muove, qualcosa che non ho visto e non voglio vedere. Io sulle prime penso che farei bene a non vedere più la Petulante! Per smentirla mando a Bruno un messaggio molto schietto, insolito per la mia nuova tappa “strategica”: può farmi il favore di venire con me a visitare casa nuova? Vorrei un suo consiglio su certi cambiamenti da realizzare…

La replica è quasi telegrafica: è tornato a non avere tempo.  

Finisco io a casa sua una sera che siamo entrambi a un concertino in zona. Mi piace che Bruno dia per scontato che dormirò da lui, ma sembra quasi che succeda solo perché “si è fatto tardi”. Mi rimprovero subito per quei pensieri tetri, ma il giorno dopo sto già recuperando il mio spazzolino dalla tazza sbreccata in bagno. Non so neanche io perché lo faccio: ho ancora qualche asso nella manica, cazzo!

Nottetempo gli scrivo una lunga fantasia scaturita da un libro di filosofie orientaliste: una roba che, più che erotica, finisce per risultare mistica o allucinata.  

Il suo silenzio dura così tanto che risulta umiliante, dopo un messaggio del genere. Siamo tornati davvero a quel punto lì? Come se i mesi passati, i chili che ho perso, le tiritere della Petulante e i trucchetti della Strategica fossero solo un sogno. L’unica cosa a segnare il passo del tempo resta quella finta estate, che ormai scivola via nell’autunno profondo. Mi sento di nuovo al punto di partenza, e non è vero: quest’anno passato dietro a Bruno non tornerà più, come le energie e l’amore che gli ho sacrificato. Come l’amore che ho perso per me.

La risposta arriva di notte, ed è di quelle lunghe che accompagnano i suoi no.  

“Disconnesso”: così si definisce. Lo è per “circostanze” che non mi sta a spiegare (e io penso subito a un brutto scontro con l’amico del prestito). In ogni caso, in quel momento non gli sembra giusto “valicare i confini dell’amicizia”.

L’amicizia.

Ancora una volta, il corpo è il primo a reagire: sopraffatta dagli ormoni del ciclo bloccato, scoppio a piangere senza neanche accorgermene. Subito dopo, però, la logica ha il sopravvento. A scombussolare Bruno sarà stato senz’altro l’autunno, col suo “ritorno alla normalità”! Ci siamo rivisti in condizioni inconsuete per entrambi, a fine estate, ed entrambi siamo stati risucchiati dalla ricerca di un lavoro o di una casa. L’incertezza di ogni giorno ha preso il sopravvento.

Sì, non è il caso di preoccuparsi. Bruno a volte ci mette un po’, ma torna sempre.

A lunedì per il seguito!

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Lividi

Da behr.com

Mamma nota subito i lividi.

Neanche il tempo di disfare la valigia e già mi ha squadrato le braccia, incerta se fare una battuta o preoccuparsi sul serio.

Non le sto a spiegare che la morte della gatta mi ha fatto scattare qualcosa, che voglio cambiare tutto. Aspetto che lei e papà ripartano per agire.

I miei sono lividi cocciuti, persistenti sulla mia pellaccia di gommapiuma: forse sono gli stessi notati, quando erano ancora freschi, dall’agente immobiliare milanese che sta diventando mio amico. “Ma che, te menano?” ha sdrammatizzato lui, facendomi pentire di non aver indossato una giacchetta. No, non “me menano”, e sul momento neanche ci faccio caso, ma mi diverte il paradosso: chi mi lascia addosso i lividi fa finta che non sia successo niente, e quelli restano lì a dimostrare il contrario.

Ho contattato l’agente per “farmi un’idea” sulle case in vendita: nella quasi impossibilità di affittare un buco a nome mio, l’aspirazione balzana è quella di spuntare un mutuo, o almeno scoprire come si fa. I miei si sono offerti di farmi da garanti e, magari, versare la cifra iniziale. Chi non ricorre all’aiutino da casa, per potersi aggiudicare un appartamento a Barcellona? Perfino i miei amici medici devono farsi anticipare qualcosa…

“Portami una sola busta paga, e il mutuo è tuo”.

Questa è la promessa del direttore, quando i miei mi accompagnano in banca e proviamo a capirci qualcosa in quattro lingue diverse (napoletano incluso). Però il mio contratto di lavoro dev’essere a tempo indeterminato, avverte dispiaciuto questo cinquantenne gentile, che a giudicare dall’accento barcellonese sarà passato dalla casa dei suoi a quella ereditata dalla nonna.

Uscendo dalla banca, mia madre mi dice che basta così. Ho un vicino di casa che forza serrature e fa volare le gatte dai balconi, dunque devo andarmene da quel posto. Vorrà dire che troveremo una casa economica, e invece di lasciarmi i soldi in eredità i miei mi vedranno proprietaria, e al sicuro, adesso che possono ancora venire a farmi visita.

L’uomo col mastino ci fa trovare le scale addobbate dalle sue scritte minacciose, e dai bisogni del cane. Stavolta non ha lasciato ricordini nella cassetta della posta. L’amministratore si rifiuta di cambiare ancora la serratura del terrazzo condominiale, e la polizia ci ha fatto sapere che “basterà aspettare lo sfratto”, ormai è questione di tempo: il soggetto non se ne andrà per il pericolo che costituisce, ma perché non riesce più a pagare il suo antico affitto calmierato. Lo prenderanno per povertà.

Nel frattempo, liberarsi di lui è diventato un privilegio. L’amico agente scova una casa che i miei “capiscono” (quella che avrei voluto io era grande un terzo e costava uguale), e festeggiamo condividendo una birretta con gente dello Spazio, che si è data appuntamento in un pub del Born.

Bruno fa la sua apparizione in ritardo, schiacciato dallo zaino che si porta sempre dietro, e al momento di ordinare dichiara: “Per me niente”. “Lo vuoi con ghiaccio o senza?” scherza il cameriere, e Bruno non coglie, ma poi si avventa sulle mie patatine e su quelle extra che si premurano di offrire i miei.

All’uscita del pub si prende papà in un angolo e gli spiega le sue varie ipocondrie, e papà, che è medico, inizia a sbrogliargliele. Sembrano intendersela a meraviglia, e mamma è quasi divertita da quella consulenza medica che non finisce più.

“Tu avresti preferito studiare da infermiera” scherza, con una traccia di allarme nella voce.

Poi si rende conto che papà ha lasciato al tavolo la giacca e le chiavi, e senza una parola gliele va a recuperare.

A mercoledì per il seguito!

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Il linguaggio del corpo e della fame

da granconsigliodellaforchetta.it

Torno a Barcellona con una valigia piena di cose da mangiare.

Mentre gli scrivo mi accorgo che la mia camera è gelida: sarà un problema. L’unico linguaggio che condividiamo al momento è quello del corpo, e della fame.

Ci mette un po’ a rispondere: è tornato da poco anche lui, ha delle cose da fare. La pulizia della casa, il bucato… Non mi aspettavo certo si precipitasse! Magari il giorno dopo, o l’altro ancora…

No. Per vedermi gli servono quattro giorni. Aspetterò?

Chiudo gli occhi. Non ci vediamo da quindici giorni. Insieme ne abbiamo trascorsi solo due. Anche così, la sua lavatrice viene prima di me. Visto che avevo ragione? Era meglio chiuderla prima di Natale.

L’ho spiazzato ancora una volta: che problema c’è? Lui funziona così. Deve togliersi le preoccupazioni dalla testa, per potersi godere qualcosa.

Io non sono “qualcosa”, ricordo a me stessa chiudendo la conversazione. Non tornerò a ricordarmelo per un po’.

Il giorno dopo, la Petulante mi annuncia che Bruno e io abbiamo lo stesso disturbo. È un colpo basso: lei è la mia psicologa, e Bruno non l’ha mai visto. Le diagnosi non si fanno così. Ma ne è sicura, ci siamo trovati. Io da piccola ero di una religiosità ossessiva, dovevo recitare ogni Ave Maria senza distrarmi un attimo, o c’era da ricominciare. A volte guardavo sfinita giù dal balcone e pensavo: è solo un salto, tanto i bambini vanno in paradiso lo stesso. Secondo la Petulante, queste cose non passano mai per davvero. Bruno non mi ha mai parlato di epoche così, ma i suoi impegni quotidiani sembrano una tela di Penelope da disfare ogni minuto, e adesso io sono un impiccio, un difetto nella trama.

“Sei a casa?”.

Il messaggio mi arriva alla fine di una giornata piena d’ansia.

Bruno scrive come se non fosse successo niente. Sta uscendo ora dallo Spazio, se voglio può “passare”. Questo uso del verbo mi colpisce sempre: per me vuol dire al massimo “fare una capatina”, per lui significa restare a cena, o anche a dormire.

Anticipo l’irritazione per il tempo che ci metterà a salutare tutti, e percorrere settecento metri. Mezz’ora, stavolta: sta ancora imprecando contro la folla in strada mentre si getta sul divano. Ha un atteggiamento remissivo, e un po’ compiaciuto: è passato perché gli dispiaceva che “me la fossi presa”, ma lui è fatto così, mi assicura, prima il dovere e poi il piacere. E, a proposito di piacere…

Ritiro la mano che mi ha afferrato e scatto in piedi. È l’unica cosa che è venuto a fare? Allora è solo per questo che ha sottratto tempo alle pulizie generali! O magari vuole un premio per la sola generosità di “passare”…

L’ho spiazzato un’altra volta.

“Forse avevi ragione” borbotta. “Dovremmo smetterla con questa storia”.

Solo perché avrei voluto spiccicarci due parole, prima di ritrovarmi con la mano su una zip?

“Purtroppo so quello che voglio” dichiaro allora. “E so che tu non me lo puoi dare”.

Mentre lo vedo andarsene, ci credo pure.

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Quella dopo

Davvero mi ha nominato la sua ex?

Perché al mattino mi sembra tutto confuso, mentre ci arrangiamo col pane del giorno prima e nessuno di noi due vuole farsi sei piani per portarne di fresco. La colazione insieme non era prevista, così come non era previsto che lui, ore prima, mi informasse ridendo che avevo i pori del viso dilatati. Ho abbozzato: grazie per l’informazione! Da qualche parte, David Cameron era davvero sul punto di gridare che bastava così, che potevamo iniziare a sfracellarci contro l’iceberg.

L’iceberg è stato la Bella Stronza. Bruno l’ha rievocata durante certi equilibrismi che con lei erano più facili, visto che era alta. In tempi non sospetti mi aveva mandato delle foto, e io avevo pensato che forse non era fotogenica. In fondo l’ho capito subito, che ero “quella dopo”: una di passaggio che serviva a farlo tornare in carreggiata. L’ho capito e ci ho riso su, eppure… Quando ho sentito nominare la Bella Stronza mi sono accasciata su un lato. Davvero stavo piangendo? Mentre ci decidiamo a uscire di casa, ripenso alle parole della psicologa, la Petulante: il tuo corpo sa le cose prima di te. Maledetta.

Ci salutiamo sulla Rambla. Abbiamo entrambi cose da fare, posti in cui stare. La nostra vita continua. Mi avvicino al suo giubbino troppo leggero per sussurrare:

“È stato bellissimo”.

“Anch’io” risponde.

Quella sera, in chat, mi chiede cosa succede adesso. Può andare anche con altre, vero? Adesso che ha “rotto il ghiaccio” dopo la Bella Stronza, avrebbe un altro paio di occasioni… Me l’aspettavo, ma non così. Come un automa rispondo che non c’è obbligo, ma se ci fosse un’altra vorrei saperlo. In quel caso mi ritirerei in buon ordine, ma non glielo dico. Almeno comincio a capire cos’è che non voglio. Detesto gli almeno.

“A Natale la chiudiamo, okay?”.

Glielo propongo nel buio, la volta dopo. Resta zitto mentre spiego che non so gestire queste cose, che poi finisco per inn… innam… quella cosa lì.

Forse a unirci è stato il momento. È stata la mia disoccupazione, e anche la sua, di cui parla poco perché c’è poco da dire: dopo anni non gli hanno rinnovato il contratto, punto. E poi c’è stata la volta che mi volevano assumere part-time a 500 al mese, spuntati dopo una trattativa feroce, ma solo se potevano spacciarlo per un praticantato. Non potevano. Forse a unirci davvero, in questa stanzetta rubata a un terrazzo condominiale, è l’incertezza perfetta su ciò che avverrà.

Ed è troppo poco per unire chiunque.

Bruno rompe il silenzio: in casi come il nostro, anche lui finisce per inn… innam… Quella cosa là. Decido che non è un esempio generico, che parla di me, e sono più contenta di quanto vorrei.

Con quel pensiero in testa, il Natale non mi sazia. In paese non riconosco più le strade, né le rare persone che mi salutano. In compenso riscopro una bella canzone in napoletano: il titolo significa “Uccidimi”. Bruno è incuriosito dal napoletano, ma in quei giorni non si fa sentire. Che fine hanno fatto le nostre conversazioni virtuali? Sono sparite, ma lui no. Lui riappare quando inizia proprio a mancarmi.

Quando ci sentiamo per gli auguri di buon anno, capiamo entrambi che torneremo a vederci.

A lunedì per il seguito!

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Se resto

Alla fine un’ora è poco.

È un’altra gag di Bruno arrivare tardi, ammesso che arrivi: un’ora è il minimo, scherzano a volte i suoi amici dello Spazio.

Il mio, di Amico, mi chiede in collegamento da Napoli chi me lo fa fare. E dire che da un po’ rigavo dritto! Avevo preso casa da sola, e mollato il mondo accademico appena avevano smesso di pagarmi. Avevo lavorato il tempo sufficiente a beccarmi un sussidio. Se li invitassi a pranzo, quei due o tre matti che mi vengono dietro non si presenterebbero certo con un’ora di ritardo! Cos’altro voglio?

Sentire, rispondo. “Rigando dritto” ho rimediato un licenziamento improvviso, un vicino che distrugge le antenne, e amici che desiderano, sopra ogni cosa, installarsi un ascensore. Con Bruno è assurdo che ci capiamo, ma è così. Vorrei non sentire ciò che sento, ma ciò che sento è lì. E sono stanca di avere paura. Di cosa, chiede l’Amico. Rispondo: di scoprire ciò che voglio.

L’Amico mi informa che sembro la sorella scema di Laura Pausini. Poi si arrende, tanto Bruno ha appena suonato al citofono.

Una volta che ha divorato il pranzo, il mio ospite difende con ferocia il suo diritto a pensarla a modo suo, ad “avere dei gusti”, a fare ciò che gli pare. E allora lo dicesse, mi ostino: dicesse che c’è qualcosa che va al di là delle sue hit parade, dei suoi schemini così ordinati! Quando l’ho messo proprio alle strette, lo sento sbottare:

“Vuoi sentirmi dire che ti stenderei? Come se avessi problemi ad ammetterlo!”.

Lo urla come se litigasse con sé stesso, poi se la prende con me: sono contenta, adesso? Forse è solo imbarazzato, forse non sapeva dirlo in altro modo. Nel mio salotto cala un silenzio che non so riempire, perché non so cosa voglio. Così è lui a rompere gli indugi.

Accostando la sedia mi abbraccia come se stesse affondando, e volesse aggrapparsi alla mia schiena. Sembriamo controfigure in Titanic: due passeggeri che non hanno raggiunto in tempo la scialuppa. A un certo punto mi aspetto davvero che una voce fuori campo gridi: “Stop! E ora, rifatela meglio”.

Almeno le sue labbra sono piacevoli da mordere. Dio, quanto detesto gli almeno.

Dopo mi chiede se può restare a dormire. Mi giro verso il libro che tenevo già pronto sul comodino: un’edizione economica, con immagini tratte dal film. È la storia famosissima di una coppia che si forma solo quando tutti e due sono disposti a cambiare.

“Ti spiace se resto, allora?”.

Dalla copertina, Keira Knightley mi sorride con gli occhi altrove.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ti avevo avvertito

La mia è una rabbia ipocrita.

Di ciò che vomito a Bruno in chat penso ogni parola: gli sembra normale catapultarmi in quella classifica campata in aria? Scommetto che dà anche i voti da uno a dieci!

Ma ciò che mi ferisce di più è che, per lui, non sono neanche un sette.

Bruno mi oppone una logica stringente: eppure me l’aveva premesso! Lui non sa mai cosa dire e cosa no, cos’è che il mondo è disposto a sentire. Sembra convinto che mettere le mani avanti lo assolva da tutto. Io ti avevo avvertito.

Anche l’uomo col mastino mi aveva avvertito. Eravamo quasi amici: l’italiana dell’attico e il tipo che era cresciuto nel palazzo, restandoci grazie a un antico calmiere sugli affitti. Si censurava quando voleva prendersela coi guiris, stranieri bianchi come me, e diceva invece turistas. Aveva incassato impassibile il mio “No, grazie” quando, dopo una birretta dietro l’angolo, mi aveva invitato a prendere un bicchiere da lui. Prima mi aveva mostrato scherzando gli addominali scolpiti, e mi aveva pure spiegato che, da bambino, giocava a calcio dove adesso c’era il mio terrazzo. Quella era casa sua, mi aveva avvertito. Eppure non poteva più abitarla a suo piacimento: il mio terrazzo era chiuso da un muricciolo, e quello attiguo, accessibile all’intero condominio, era invaso “dalle antenne dei filippini”. Adesso come faceva lui, a prendere il sole nudo?

Aveva tagliato i cavi delle antenne senza sapere che tra quelle c’era anche la mia. Pensava che gli dessi ragione lo stesso: tanto ce l’aveva coi filippini, io a casa sua potevo restare! Poi aveva scoperto che non gli ero tanto solidale. Era stato poco prima che si procurasse il mastino.

Anche adesso sento rumori, ma è troppo presto. Da quando ha cambiato il lucchetto del terrazzo comune, l’uomo col mastino sale soltanto di notte. Ma il piccolo tonfo sul mio terrazzo mi spaventa un istante solo: le zampette della gatta dei vicini. La vita non fa poi così paura.

Bruno in chat continua a fare quello ragionevole: vatti a fidare di una che fa l’amicona, quella con cui si può parlare di tutto!

La gatta tigrata mi fissa in attesa dei croccantini. La osservo, poi digito:

“Ti va di parlarne dal vivo? Vieni a pranzo da me sabato prossimo”.

A mercoledì per il seguito!

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Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Hit Parade

E quindi?

Tutto ciò che ho scoperto dalla “confessione” notturna è che lui magari mi avrebbe baciata, come avrebbe fatto con altre mille. Devo approfondire.

Il sabato successivo siamo di nuovo insieme, di notte, diretti alla metro sulla Rambla.

È stata una di quelle giornate per cui benedico Barcellona: festa di beneficenza allo Spazio, vini fruttati e incursioni proibite sul tetto del palazzo, ad ammirare le guglie di Santa Maria del Mar. Non ho pensato neanche un momento all’uomo col mastino. I Morti di Figo hanno fatto salire certe turiste a brindare con noi, e un cantautore simpatico, un amico di Bruno in visita, ha intonato qualche canzone in dialetto. L’amico cantautore si era già defilato con una, mentre Bruno e io vincevamo il quiz. Gli altri della squadra hanno preteso che ritirassi io il premio: me l’ero guadagnato, dicevano. Solo Bruno non ha fatto commenti. Era sempre sicuro delle sue risposte, e spesso le sbagliava. Ora che siamo soli, e la Rambla è a due passi, come una bambina cerco di estorcergli un complimento qualsiasi.

Eccomi accontentata.

“Non so mai se dire queste cose o no. Però tu…”.

“Io?”.

“Tu sei una via di mezzo tra una ragazza carina e una simpatica. Certo che ce ne sono, di più fighe di te, ma magari sono insopportabili!”.

Perfetto. Barcellona scompare, scompare la giornata allegra, e io torno al bellella.

L’aspetto fisico mi ha condizionato la vita, come succede un po’ a tutte. A Barcellona, città generosa e un po’ cecata, sono stata definita guapa, bonica, o anche buena, da uomini e donne che si divertivano del mio stupore. Non sapevano che in Italia c’era dibattito.

“Pe’ me è bellella!” ripeteva un bambino al parco quando avevo già vent’anni, e il compagno di giochi rispondeva con un secco “Ma statte zitto!”. Certi uomini invece scherzavano a bassa voce, ignari del mio udito bionico: quello che apprezzava “il mio tipo di donna” veniva sfottuto dai paladini della bellezza mediterranea.

Bruno non ha avuto bisogno di deliberare. Mentre cammina è come se le sue dita disegnassero in aria una classifica generale: una “hit parade” di donne, piuttosto che di canzoni. Le nordiche tormentate sembrano schizzare fin sopra i palazzi, e una catalana più minuta e formosa si ferma a un metro dal suolo. Peccato che non sia più carina, dichiara lui: ci si troverebbe bene.

Non riesco a replicare: il premio del quiz era un liquore italiano, e sono brilla. Mi immagino a occupare un posticino giusto al centro di quella classifica “campata in aria”, più o meno in corrispondenza del suo stomaco: sono una merendina stantia, da scartare solo quando non si ha nient’altro da mettere sotto i denti.

Come mai uno brillante, pieno di umorismo e generosità, può diventare così con le donne? Può catalogarle, valutarle in base alla lunghezza della coscia o all’ago della bilancia… Su questo argomento c’è come una moratoria, qualche connazionale mi direbbe persino che lui, “almeno”, è stato sincero.

Io detesto gli almeno.

Il giorno dopo, la sbronza cede il passo alla rabbia. È con quella, e un mal di testa epocale, che decido di affrontarlo una volta per tutte.

A lunedì per il seguito!

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Dove l’hai pescato

Mi alzo sulle punte per baciarlo.

Per un istante il movimento gli deve apparire brusco, come se non sapessi dove andare a parare. Quando sono vicina al suo volto, ricordo: una volta l’avevo visto cadere dalla sedia.

“E questo dove l’hai pescato?” aveva riso un’amica.

Era per lei che Bruno era caduto dalla sedia: per i suoi occhi blu e i lineamenti affilati. Il tempo di vederla seduta nel bar e aveva iniziato a esagerare i gesti, fino a rovinare a terra.

L’amica Occhiblù faceva parte di un gruppo italo-spagnolo che avevo provato a unire io, con grande entusiasmo dei ragazzi. Le ragazze si erano conosciute a “danza Bollywood”, si annoiavano quando l’insegnante spiegava la storia dei passi. Uno dei ragazzi mi aveva tenuto una sera intera a spiegarmi l’aspirazione del momento: convincere i vicini del palazzo a installare l’ascensore! Anche io volevo diventare così: quella che sognava l’ascensore. Non una che passava la notte a parlare fitto con Bruno.

Alla fine gli scocco un bacio per guancia e corro via. Sulle scale, tutto è silenzio.

Il sabato successivo, a una festa allo Spazio, una ragazza un po’ alticcia si rifugia tra le braccia di Bruno. La tampinavano due della claque del Figo, che io ho ribattezzato “i Morti di Figo”. Bruno di solito incassa con benevolenza i loro sfottò, ma stavolta insorge. Con dolcezza dissuade i Morti e tranquillizza la ragazza, e all’improvviso me lo immagino a salvarmi dall’uomo col mastino. Alla faccia dell’indipendenza, del sapermela cavare da sola.

Quella notte stessa, il mio eroe si lamenta in chat perché non batte chiodo.

Sulle app d’incontri non si spiega l’insuccesso di messaggi suoi tipo: io sono un disagiato, e tu mi deluderai. Gli confesso che a volte mi sembra quasi compiaciuto di non combinare nulla, e lui protesta: certe sere, quando parla con una, spera davvero che ci scappi un bacio. Ma la tizia di turno non la pensa uguale.

Allora trattengo il fiato e digito:

“Io ti avrei baciato, l’altra notte”.

Per un po’ devo spiare lo schermo vuoto, poi lo vedo scrivere.

In effetti, ammette, quella notte si era creata un’atmosfera strana.

A venerdì per il seguito!

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