Archivio degli articoli con tag: relazioni

Ho tradotto questo breve post nel blog di Coral Herrera Gómez, studiosa di spicco nel mondo spagnolo e latino. Non sempre sono d’accordo con lei, ma credo vada ascoltata. Prima di pensare che “certe cose in Italia non succedono” (sicuro?) dobbiamo tener conto che Herrera si riferisce alle conseguenze dell’amore romantico in tutto il mondo.

Come si evince anche da questa intervista, non si tratta di eliminare il romanticismo, ma di rendersi conto delle trappole in cui la strumentalizzazione dell’amore romantico può far cadere chiunque, a prescindere dal genere. Le donne però sono più esposte a quest’influenza, dunque tendono a subire le peggiori conseguenze. Contrassegno con asterisco le affermazioni su cui rifletto a fine traduzione.

A cosa serve l’amore romantico?

Ecco alcuni degli usi perversi con cui gli uomini patriarcali abusano delle donne in tutto il mondo.

– L’amore romantico è l’arma perfetta per avere una domestica gratuita, disponibile 24 ore su 24, 365 giorni all’anno*. Viene utilizzato da moltissimi uomini che non hanno autonomia e hanno bisogno di una cuoca, di una donna delle pulizie, di un’infermiera, segretaria, psicologa, bambinaia. Inoltre, desiderano ricevere cure senza doverle dare, e desiderano che la donna li serva con un sorriso permanente, che sia accomodante e che copra i loro bisogni sessuali*.

– L’amore romantico viene utilizzato anche perché uno sembri un uomo rispettabile e un padre di famiglia.

– Viene usato per avere discendenti coi propri geni. La donna che ti permette di riprodurti si occuperà di tutta la cura e dell’educazione della prole, gratuitamente.

– L’amore romantico serve come intrattenimento per gli uomini annoiati, con un’autostima molto bassa, e affinché gli uomini possano sentirsi importanti, essenziali, necessari, ed essere trattati come degli dei.

– Serve a mettere in ginocchio le donne più autonome e potenti, e anche le più vulnerabili: con l’amore romantico, gli uomini patriarcali possono avere giovani amanti che hanno bisogno di aiuto per studiare all’Università, o per sfamare i loro bambini.

– L’amore romantico può servire anche alla donna per sostenersi, in alcuni casi, e per arricchirsi in altri: gli uomini patriarcali lo usano per imparentarsi con famiglie benestanti**, per defraudare le donne, per vivere come dei re, per chiedere soldi a credito in nome dell’amante, per fare affari con i loro risparmi e beni.

– I trafficanti lo usano anche per rapire ragazze e adolescenti per la tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e riproduttivo: la tecnica più efficace per schiavizzare le donne povere è farle innamorare, per poi portarle fuori dal Paese per piazzarle nei campi di concentramento in Europa. La tecnica per far innamorare le donne è antichissima: gli uomini gonfiano la loro bassissima autostima in modo da far credere loro di essere uniche e speciali, bombardandole di regali, complimenti, promesse di futuro. Una volta che si sono innamorate, bisogna farle scendere dal paradiso all’inferno, distogliendo progressivamente le attenzioni e le lusinghe, perché [le vittime] comincino a soffrire e a sentirsi insicure.

In questo momento i signori patriarcali le hanno già ai loro piedi e possono manipolarle come vogliono. [Le vittime] si chiederanno mille volte perché lui si comporta così, e vivranno nella speranza che le tratti nuovamente come regine. Ecco perché ci mettono un po’ a capire che il loro ruolo è in realtà quello di serve. È urgente che le ragazze e le adolescenti riconoscano questi usi perversi dell’amore romantico, che ascoltino le vittime sottoposte allo sfruttamento domestico, lavorativo, sessuale e riproduttivo, abbiano il diritto di conoscere la verità sulla truffa romantica. Le ragazze devono armarsi di strumenti per lavorare sul proprio ego e sulla propria autostima e per raggiungere la propria autonomia emotiva ed economica. È l’unico modo perché l’amore romantico non le soggioghi e non distrugga le loro vite. Non possiamo continuare a educare le nuove generazioni di donne a diventare dipendenti dall’amore romantico: è una droga molto potente, che ci fa molto male. Dobbiamo proteggere tutte le donne dalla sottomissione chimica [sic] e formare reti di sostegno reciproco per salvare coloro che cadono sotto il potere di manipolatori, narcisisti, molestatori, truffatori, schiavisti e femminicidi.

Ne va della nostra vita.

* Questo si dimentica spesso quando si dice: “Lei resta [più tempo di me] in casa, quindi le toccano le faccende domestiche”. Tu dopo circa otto ore lasci il posto di lavoro, e a Dio piacendo avrai diritto a una pensione. Da una casalinga ci si aspetta che sia disponibile 24 ore su 24 vita natural durante, prendendosi cura prima dei figli e poi dei nipoti a meno di non pagare un’altra donna, spesso razzializzata, che lo faccia per lei. Non c’è equità.

** L’idea di mogli e compagne come di “lavoratrici sessuali gratuite” mi è sembrata stranissima finché non mi sono resa conto di quante donne si lamentino, in gruppi come Bridging the Gap, perché non desiderano più avere rapporti sessuali col proprio uomo o ne diminuirebbero la frequenza, ma temono di contrariarlo o di essere tradite/lasciate, o di creare un’atmosfera irrespirabile in casa. Molte parlano di stanchezza per le faccende domestiche che già si accollano, e di rancore per un uomo che ritiene che il tempo della compagna valga meno del proprio. D’altronde ciò che oggi intendiamo per rapporto sessuale è pensato per il piacere maschile, e il fatto che la penetrazione non favorisca quasi mai un’adeguata stimolazione clitoridea viene frainteso come un “Le donne vogliono fare meno sesso”.

*** Questo aspetto per me è sottovalutato: si parla soprattutto della “gold digger” donna perché le donne hanno meno potere economico, ma tantissimi uomini nella storia hanno usato i legami affettivi per entrare in certe società: dai normanni in Meridione, che si imparentavano con i nobili locali sposandone le figlie, passando per i fidanzati delle moderne celebrità. L’istituzione della dote prova quanto il matrimonio fosse un patto di interesse per entrambe le parti. Infine, vivendo a Barcellona vi assicuro che uomini senza i documenti in regola sono disposti a corteggiarvi, a sposarvi, e pure a pagarvi (a suo tempo erano 5.000 per una coppia di fatto, il doppio per un matrimonio) per ottenere tramite voi la cittadinanza europea. Le persone discriminate, svantaggiate in una società, usano qualsiasi mezzo per aiutarsi a prescindere dal genere.

Ho tradotto questo articolo de ElDiario.es su un fenomeno analizzato soprattutto in ambito ispanofono: il dumping amoroso, che mutua un concetto economico per applicarlo a una dinamica tipica di tante relazioni eterosessuali. Alla fine della traduzione, mi permetto due osservazioni*.

La copertina della rivista Paris Match del luglio 2019 mostrava un Nicolas Sarkozy e una Carla Bruni felici e innamorati. Ma qualcosa nell’immagine non quadrava: Bruni, dieci centimetri più alta del compagno, appariva più bassa di lui, con la testa appoggiata sulla spalla dell’ex presidente, che sembrava nettamente più grande. In quel periodo un’amica mi raccontò dell’accordo che un’altra amica aveva raggiunto con il suo compagno. Desiderava profondamente avere un secondo figlio, cosa che lui non condivideva. Il conflitto stava mettendo in pericolo la loro relazione.

L'”accordo” che lei gli offrì era quello di ridurre ancora di più la sua giornata lavorativa e di dormire da sola con sua figlia e il bambino per tutto il primo anno, in modo che lui non vedesse diminuire il suo sonno e le energie da dedicare al lavoro. Così hanno fatto. Sono diversi gli autori e gli autrici che negli ultimi anni hanno messo l’amore e le relazioni eterosessuali al centro delle loro ricerche sociologiche e giornalistiche. Eva Illouz, Mona Chollet o Liv Stromquist sono alcune di loro e condividono alcune premesse, come quella, ad esempio, secondo cui l’amore e le relazioni intime sono uno spazio fondamentale per la disputa sul potere – o sulle questioni di genere – oggi. E quella per cui la socializzazione profondamente diversa che uomini e donne si portano dietro ci conduce a uno scenario in cui queste relazioni riproducono disuguaglianze quasi senza che ce ne rendiamo conto. In Reinventar el amor. Cómo el patriarcado sabotea las relaciones heterosexuales (Paidós), la scrittrice Mona Chollet assicura che una donna eterosessuale che non si censura in nulla, “che non si sottomette a quelle piccole o grandi alterazioni di se stessa che la femminilità tradizionale richiede, rischia di mettere a repentaglio la sua vita amorosa”, a meno che non trovi un uomo “che non ha paura di essere deriso o ridicolizzato”. Chollet riflette sulle diverse forme di “rimpicciolirsi” che le donne arrivano ad adottare, da quelle che hanno a che fare con il fisico e l’estetica – occupando poco spazio, modellando il corpo ma in modo che sia magro e non muscoloso e forte, controllando la propria immagine –, a quelli legati alla vita privata, all’ambito economico e professionale – la rinuncia a standard importanti per sé, agli obiettivi personali, l’assunzione di maggiori oneri in un certo ambito, ecc.–.

Valeria racconta, ad esempio, che quando è con il suo fidanzato in un gruppo di amici si sente in difetto se nota che gli altri prestano più attenzione a lei che a lui: “A volte sto zitta”. Carla dice che lei e il suo ragazzo erano tra quelli con i voti migliori all’università. “Non ho mai preso intenzionalmente un voto mediocre a un esame, ma avevo paura di ottenere un voto migliore del suo perché questo comportava drammi e un litigio che durava diversi giorni. Una volta che sono andata a richiedere una revisione del mio voto d’esame, in una materia che mi piaceva e nella quale aspiravo al massimo dei voti, mi sono sentita quasi come se lo avessi tradito, perché quella volta lui aveva preso un voto migliore” racconta. María confessa che facendo sport con il suo compagno gli ha permesso di guadagnare qualche punto “perché lui non si sentisse in imbarazzo”. “Mi controllo soprattutto nel mostrare la mia intellettualità, ciò che leggo, ciò che scrivo…” dice Mariana. La scrittrice Flor Freijo spiega in Decididas (Planeta) come l’amore romantico si configurasse fin dall’antichità come rapporto di sopravvivenza (economica e di diritti) e di scambio per la donna. “I legami di sopravvivenza economica continuano perché anche oggi siamo ancora in svantaggio rispetto agli uomini. Tuttavia non sono solo le barriere oggettive a metterci in una situazione di disuguaglianza all’interno di un legame eterosessuale, ma anche le barriere soggettive, che hanno a che fare con la dipendenza dallo sguardo dell’altro,” racconta a elDiario.es. Questa dipendenza dallo sguardo altrui, a cui le donne vengono addestrate fin dalla tenera età, ci porta a monitorare costantemente tutto, dal nostro aspetto al nostro tono di voce, passando per la nostra rabbia o le richieste che facciamo all’altro.

“L’imposizione in amore di sottomissione e debolezza è ancora molto presente. Pensiamo alla posizione in cui facciamo sesso affinché il nostro corpo abbia un aspetto migliore, ci sforziamo di apparire attraenti, docili o vulnerabili… Sembra che dobbiamo rinunciare a livelli di potere, apparire più piccole per essere amate, ” continua Freijo, la quale sottolinea che il problema sta nel legame e nel ruolo che il patriarcato assegna a ciascun genere [ok, era “sesso”] nelle relazioni eterosessuali. “O faccio la finta tonta o non rimorchio”.

In un recente corso di formazione con adolescenti, il sessuologo Erik Pescador è stato avvicinato da una ragazza: “Mi ha detto, sì, alcuni uomini sono cambiati, ma quando si tratta di sedurre o faccio la finta tonta o non rimorchio. Ed è una cosa che mi è stata detta sia dalle adolescenti che dalle donne di 30, 40, 50 o 60 anni. È come se dovessero sminuire la loro posizione di potere per potersi avvicinare emotivamente agli uomini e farli sentire a proprio agio o al sicuro”. Pescador afferma che gli uomini tendono ad essere abituati a esercitare il potere in modi subdoli all’interno delle relazioni, ad esempio stabilendo i tempi o i ritmi, o decidendo cosa è accettabile e cosa non lo è. “Non prendersi abbastanza cura della partner o non riconoscerne troppo i meriti fa parte di questa struttura di controllo. Anche non dare amore per poi aspettare di riceverne, non dare un bacio ma poi mi aspetto che tu me lo dia… sono pretese che si avanzano partendo da una posizione di potere. Nell’amore continuiamo a svolgere quel ruolo di controllo nella relazione, nel senso che controlliamo quando, come, in che modo… questo lascia poco spazio all’identità, al potere decisionale e al posto delle donne” spiega Erik Pescador.

Il sessuologo menziona il “vantaggio competitivo” che hanno gli uomini nel patriarcato: “Per le donne il mandato è quello dell’amore, quello di avere un partner. Per gli uomini il mandato non è il vincolo, non è l’incontro”. Mona Chollet sostiene un’idea simile: “Mi sembra innegabile che nutrendo ragazze e donne con storie d’amore, lodando il fascino e l’importanza della presenza di un uomo nelle loro vite, queste siano incoraggiate ad accettare il loro ruolo tradizionale di cura. Si trovano così in una posizione di debolezza nella loro vita amorosa: se per loro l’esistenza e la vitalità della relazione contano più che per i loro partner, in caso di disaccordo su qualsiasi questione sono sempre loro che cedono, che scenderanno a patti per trovare un compromesso o si sacrificheranno”. La saggista sottolinea la complementarità sessista del sistema. Mentre le donne sono educate a dare, gli uomini sono educati a ricevere; mentre alle donne viene inculcato “l’universo mentale della vita a due”, gli uomini sono invitati a fantasticare quasi l’opposto, un universo caratterizzato dall’essere single o comunque indipendenti, in cui percepiscono immediatamente qualsiasi richiesta o vulnerabilità come qualcosa di difficile da tollerare.

Susana Covas è una psicologa specializzata in femminismo applicato alla vita quotidiana delle donne, e ha indagato in modo approfondito il fenomeno delle nuove mascolinità. Covas ritiene che non si possa parlare di amore delle donne o degli uomini “perché è una cosa a due”. E si pone diverse domande: “Ci sono uomini disponibili oggi ad avere relazioni romantiche in cui non ci si deve rimpicciolire per stare con loro? Ci sono uomini che permettono relazioni egualitarie in cui le donne non devono sminuirsi? Ci sono uomini con cui una possa sentirsi bene e a suo agio se non risponde a certi canoni estetici? Ci sono uomini che accettano, incoraggiano e promuovono il fatto che le donne non rinuncino alla loro vita intellettuale o ai loro principi, per stare con loro?”.

Il dumping amoroso

Chollet descrive la situazione come dumping amoroso. Sostiene che questa dinamica strutturale può spingere molte donne a concedere il loro amore a un uomo “sminuendo le loro esigenze nella relazione – la loro richiesta di reciprocità in termini di attenzione, empatia, impegno personale, distribuzione dei compiti, ecc. – rispetto ad altre potenziali partner con cui competono, sobbarcandosi il costo che questo implica per loro stesse”. L’autrice assicura che tale strategia fornisce a queste donne “un vantaggio individuale momentaneo”, ma le danneggia a lungo termine e mira a “indebolire le donne eterosessuali nel loro insieme”. “Permette agli uomini di non subire mai le conseguenze di comportamenti negligenti o di abusi veri e propri. Pertanto, non sono mai costretti a mettere in discussione i presupposti che la loro educazione ha inculcato loro riguardo al loro posto [nel mondo], e ai loro diritti. Sono in grado di dettare i termini della relazione e, se una donna li lascia, sono sicuri di trovarne un’altra che accetterà le loro condizioni” afferma l’autrice.

La psicologa Paula Delgado spiega in che modo la socializzazione di genere si esprime a livello psicologico: «Il valore delle donne è legato a quanto siamo brave a soddisfare i bisogni degli altri, è legato all’essere una buona partner, una buona amica, una buona figlia, una buona madre e questo va al di sopra del benessere personale”. Delgado ritiene che tale idea sia alla base del “rimpicciolirsi” di molte donne, “alla fine ci arrendiamo e ci facciamo piccole per paura di occupare il nostro spazio o per paura che, se lo facciamo, disturbiamo”. Questo sminuirsi, prosegue, è legato ad esempio al rifiuto di esprimere chiaramente emozioni o bisogni all’interno delle relazioni, perché si dà per scontato che non verranno presi in considerazione, che daranno fastidio all’altro, o che potrebbero rappresentare un problema che metta a rischio anche il legame. Questo rimpicciolimento può consistere anche nell’abbassare languidamente la testa, come Carla Bruni in quella copertina di Paris Match. Mona Chollet lascia spazio alla speranza: non rimpicciolirsi protegge le donne, poiché costringerà gli uomini a “rivelare il loro vero volto”; “Se scappa, molto probabilmente non sarà una grande perdita; piuttosto rappresentava un pericolo”. In ogni caso, Chollet rivendica l’opportunità di creare relazioni amorose più egualitarie ed emozionanti. “E poco a poco, passo dopo passo, si può far si che finalmente si sposti il monolite di una cultura che pone le donne di fronte a un’alternativa impossibile, costringendole a scegliere tra la realizzazione del loro amore e la loro integrità personale, come se l’una fosse possibile senza l’altra; come se potessi conoscere la felicità, dare e ricevere amore se sono un essere troncato a metà”.

* 1) le aspettative in una coppia eterosessuale caratterizzano ancora entrambi i partner, solo che a lui viene richiesto di fare macho-man penalizzando emotività o debolezze (io stessa ebbi un attimo di estraniamento col primo fidanzato alle prese con la cremina antirughe), mentre il copione di femminilità tradizionale passa per esaltare aspetti che, senza imposizioni di mezzo, non ci sarebbe niente di male a coltivare (come la cura del proprio aspetto o i vincoli affettivi), ma comporta anche restrizioni pesanti della propria libertà di movimento, del tempo da dedicarsi e addirittura della possibilità di esprimersi (“Così li fai scappare, gli uomini!”); 2) il riferimento al rendimento universitario della coppia ci porta a casi terribili di cronaca recente; 3) la questione dei “patti” a cui si scende per avere figli varia di coppia in coppia, ma l’episodio narrato qui sopra mi conferma nell’idea che le donne che desiderano avere figli dovrebbero essere messe in grado di averne a prescindere da un partner che a) non la vede come una priorità e b) ha tutto il tempo per cambiare idea. E poi, vabbè, l’immane privilegio dell’indipendenza economica e affettiva mi porta a chiedermi: se una relazione può portare tutti questi svantaggi per le donne, perché continuiamo a fingere che sia un ‘traguardo’ imprescindibile, invece che un’opzione come un’altra? La risposta è: non fingiamo più. Ma solo se possiamo permettercelo, purtroppo.

Ho passato l’estate scorsa a scrivere Fame. Mi riprendevo dalle presentazioni di Sam è tornato nei boschi: le difficoltà logistiche avevano contribuito a regalarmi la mia prima colica biliare, e a farmi riflettere sul desolato mondo dell’editoria italiana.

È stato anche per questo che mi sono sentita libera di scrivere il testo più autobiografico della mia vita, senza preoccuparmi troppo: se non me lo pubblicava nessuno, lo avrei fatto io. Questa era una storia che volevo raccontare, l’avevo promesso.

Che fosse interessante o meno, vi ringrazio per la pazienza.

Trovate il testo integrale qui, scorrendo dal basso, e lo sto inserendo tutto anche qui, nell’ordine giusto. È una versione riadattata per i social, forse il manoscritto intero non vedrà mai la luce, ma è meglio per voi, no? Così avete meno roba da leggere! Qui ve lo presento a voce, la prima volta: se seguite tutti i video arrivate pure a quello in cui vi ringrazio.

Giuro che il pomeriggio in cui ho finito la prima bozza ero a casa mia, nel centro storico di Barcellona, e da un DJ set lontano è partita la schitarrata iniziale di Mr. Brightside: la accoglieva un coro entusiasta di gente che conosceva il ritornello a memoria.

Ormai saprete che lo conosco anch’io, per i motivi sbagliati.

Quella volta però ho pensato alla storia che non era più mia, che riposava in un documento Word, salvata due volte in attesa che ve la raccontassi, e mi sono alzata in piedi.

Quella volta ho cantato anch’io.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Ricambio

Nella stanza mi assale l’aria.

Mi arroventa la pelle con un odore dolciastro, e la sua immobilità mi colpisce più della stanza stessa: è rimasta uguale a quando ci dormivo e venivo svegliata dalle auto che correvano in strada. Bruno non mi ha aperto la porta coi libri già in mano, come avevo sperato, poi si è sorpreso di vedermi nei jeans che all’improvviso preferisco ai soliti abitini. Adesso si stende sul letto, gettandosi addosso la coperta che doveva avvolgerlo un istante prima. Dà per scontato che siederò alla scrivania, di fronte a lui, ma non mi osserva per sincerarsene. Con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando mi stava mollando, mi parla di una malattia che di solito è innocua, ma che a sentirlo quasi lo ammazzava.

La vera malattia è un’assenza che io non posso colmare. Posso solo agguantare i libri e trovare una scusa per filarmela, ora che sul serio mi viene l’affanno. Almeno non ho bisogno di chiedergli dove sia il bagno. Mi fa sorridere la tazza sbreccata, orfana del mio spazzolino. Poi poso gli occhi sullo specchio e soffoco un grido.

Ho delle macchie rosse sul petto. Anche il collo è picchiettato da puntini dello stesso colore. Che sia una risposta cutanea alla mia agitazione? Ma no, mi succede anche quando faccio docce troppo calde… In ogni caso, pochi minuti in quella stanza mi hanno lasciato quei segni addosso.

Tornando in camera non resisto: mi offro di aprire la finestra. Bruno non risponde subito, l’idea sembra spaventarlo un po’. Ma non si oppone, abituato com’era a me che provavo a fargli del bene. A volte ci riuscivo pure. Mentre recupero la borsa, un fruscio smorzato mi ricorda l’altra missione da compiere.

“Biancheria!” grido come un’imbonitrice, mentre la bustina cade sul letto. “Tienili pure, che non sono della mia misura…”.

Lui osserva i boxer puliti che aveva lasciato a casa mia una delle ultime volte. Non sono stata in grado di buttarli, né di restituirglieli prima di adesso. Non cambia espressione, sembra riflettere.

“Meno male” sentenzia infine. “Un ricambio mi serviva proprio”.

Adesso ho abitato il suo dolore.

Me lo sono visto addosso, e mi sono accorta che ne conoscevo ogni tratto. Tutto ciò che posso fare è lavorare il mio, di dolore: trasformarlo in noia, nell’esercizio quotidiano che ci vuole a star bene. È una routine impeccabile, interrotta solo dai nostri incontri sporadici. Tutti ridicoli.

“Dobbiamo trovare una fidanzata al nostro Bruno!” ammicca una ragazza alla festa di tesseramento dello Spazio. Lo dice come se progettasse una spedizione in Antartide. Mi limito a un sorriso e a un’alzata di spalle: in quel caso perfino lui, a evento finito, mi manda un messaggio per dirmi che gli dispiace per “l’incidente”.

Ma sono esposta di continuo a situazioni del genere. Una settimana prima, dei Morti di Figo mi avevano proposto davanti a tutti, a mo’ di sfida, di “sedurre Bruno”, che aveva gli occhi altrove. Io avevo scherzato: “Ah, no, Bru’, lo sai che con me non hai nessuna speranza!”. Non avevano riso, ero passata per una che se la tirava.

Un’altra sera lui è molto loquace, mi afferra le spalle come se ci si volesse appoggiare, e io mi irrigidisco a quel tocco ormai estraneo. Poi mi scopro a osservarmi le braccia come se quel gesto, da solo, potesse lasciarmi addosso dei lividi.

Un istante dopo, dalla piazza su cui affaccia lo Spazio ci giungono accordi che riconosco subito, e Bruno deve interrompere il suo sproloquio per osservarmi. Scusa, faccio, questa canzone mi mette un po’ d’ansia. Lui sorride all’idea: perché Mr. Brightside dovrebbe mettermi ansia? Non rispondo. In testa mi risuona il rullare monotono della cyclette, lo strusciare delle mie gambe magre, la battuta d’arresto delle ruote mentre visualizzo lui a letto con la Biondissima, a schermi unificati.

Prima o poi parleremo sul serio, ora lo so.

Il momento arriva quando meno me lo aspetto, a una serata in cui siamo complici almeno nella determinazione a sentirci esclusi. La padrona di casa se ne accorge, e ruba tempo ai suoi ospiti fighetti per parlare con noi due: forse ci tiene entrambi nel suo elenco di persone strane, e ci intrattiene come i bimbi che siamo (o eravamo), fino alla fine della festa.

La questione viene fuori all’improvviso, mentre sotto i lampioni di Gràcia dividiamo la strada per la metro. C’è subito accordo su una cosa: lui non vuole parlare della Biondissima, e io approvo in pieno la sua risoluzione.

Riusciamo lo stesso a fare le quattro, davanti alla metro ormai chiusa. A un certo punto lui alza la voce:

Dopo non sono mica tornato da te con la coda tra le gambe!”.

Lo rivendica come se quella fosse una gran prova di rigore morale. Io non gli dico che mi sono scoperta a scrutare le invitate anche alla festa di quella sera: di sicuro gliene piacevano almeno un paio, se soprassedeva sulla scarsa altezza di una. Non gli parlo dei digiuni, né dell’istante sul balcone. Inizio a indottrinarlo sulla vulgata junghiana, come farei con le “seguaci” del mio blog.

Non fare come me, gli dico, non restare con la fame. Prima o poi, la parte di te che stai ignorando si libererà dall’angolo in cui l’hai rinchiusa, e ti trascinerà nella prima esperienza insalubre che le dia l’illusione di saziarsi. Tanto vale che la nutri tu, concludo. È l’unico modo per non esserne schiavi.  

La parte più convincente della predica è quella in cui scoppio a piangere.

Un istante dopo, mi ritrovo premuta contro i bottoni della sua giacca. È un abbraccio diverso da tutti quelli che mi ha dato. È l’abbraccio di due che hanno sofferto insieme senza accorgersene.

Quest’abbraccio qui non lascia lividi.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Precotta

Da recetasveganas.pro

“E adesso parlagli”.

Squadro la sedia vuota che l’amico mi ha sbattuto davanti. Cosa avrei da raccontare a una poltroncina di velluto rosso?

“Eccolo qua, Bruno!” insiste l’amico. “All’improvviso non hai niente da dirgli?”.

Sì. Tipo che, adesso che non gli serve più, il mio corpo si dissolve.

Della mia brutta casa senza fine occupo solo l’ultimo tratto: l’angolo tra cucina e bagno, e la cameretta in cui ho fatto gettare il tatami. La Petulante ha un bel dire che mi sono rinchiusa da sola in una tana, nella vastità della Casa degli spiriti. È che tutto quello spazio mi sembra ostile, mentre un angolo lo so controllare. E poi lì il dolore mi trova subito, e prima mi trova, prima mi lascia dormire.

Mi sto perdendo tutto il corsetto online, ma che importa? Sono al sicuro nella mia tana, in fondo alla casa che non finisce più. A pranzo mangio una tortilla precotta, che mi dura svariati giorni. A volte la accompagno a una fetta di pane. Accanto al comodino troppo alto per il tatami ho piazzato un panettone al cioccolato: tra poco è Natale. Ci ho conficcato dentro un coltello, che però non uso mai. È con le dita che pesco la cioccolata: lo faccio tra le quattro e le cinque del mattino, quando mi sveglio per piangere. Mi riaddormento dopo un’altra oretta, e a quel punto potrei risvegliarmi che è già pomeriggio. Spesso, in quei casi, mi accoglie il buio.

Dov’è finita la mia spavalderia al telefono con Bruno, mentre percorrevo la Rambla? “Non sono il secondo piatto di nessuno”. Col cazzo. Non mi importa più dell’altra, non mi importa di come mi ha trattata lui. Voglio solo che torni e metta fine a tutto questo.

E invece una parte di me resiste, non riesce a rimuovere l’istante di sollievo di quando ho saputo della Biondissima. Non saprei più fingere di abitare quel castello di carta, che ora non c’è più.

Tanto lui è sparito davvero nel nulla.

L’ho contattato solo quando mi è arrivata una notizia dal mio vecchio palazzo: hanno sfrattato l’uomo col mastino. In un messaggio vocale, la coppia che viveva con la gatta mi ha descritto la scena quasi all’unisono, compreso l’intervento della polizia. La statura modesta dell’uomo lo faceva sparire tra i ragazzoni in divisa scura, che lo portavano via. Alla fine è stato sloggiato perché non pagava da un pezzo il suo affitto calmierato. Forse quella cifra irrisoria era davvero l’unica cosa rimasta della sua infanzia.

Nessuno sa che fine abbia fatto il mastino, né la donna (la Iside bionda) che risaliva le scale con gli zatteroni ai piedi e le buste della spesa.

In chat, Bruno ha accolto la notizia con una solidarietà un po’ ironica: e io che avevo comprato casa per sfuggire a quello lì! Neanche il tempo di trasferirmi e sono andati a sfrattarlo. Non ha scritto altro, e io ho disattivato da un po’ le notifiche al suo profilo, ma di lì a qualche giorno, prima che potessi impedirlo, mi è balenato davanti il post di un suo amico. Era uno che un tempo sapeva “una mezza cosa” di me, e adesso linkava a Bruno con nonchalance un articolo sul paese della Biondissima. Mica una roba qualsiasi: una curiosità su come allevavano lì i bambini. Il primo commento, in perfetto italiano, era della Biondissima in persona. Anche Bruno ha replicato con fare da esperto, dando lezioni nella lingua di lei che stava imparando così bene. In quella stessa lingua stavo guardando a spezzoni un thriller sottotitolato, ma da quel momento in poi l’ho lasciato a metà. Da allora, e per quasi un anno, sarei riuscita a seguire solo distopie e saghe fantasy.

Adesso che l’amico agente immobiliare mi ha riaccompagnato a casa, dopo che mi ha visto lasciare la mia pizza a metà, ho osservato attraverso i suoi occhi il mio tatami, mezzo sfatto e puzzolente di candele alla ciliegia. Da bravo milanese, l’amico ha polverizzato con lo sguardo anche il panettone al cioccolato, che ormai pugnalo solo quando mi scoccio di scavare con le dita.

“Stai sparendo” ha constatato, esasperato dall’ostinazione con cui ignoravo la mia fortuna, la casa nuova che mi aveva spuntato a un prezzo ridicolo.

È stato a quel punto che mi ha trascinato in salotto e mi ha schiaffato su una poltrona rivestita di velluto, piazzandomi davanti questa sedia altrettanto brutta.

“Bruno è seduto qui” mi ripete un’ultima volta, poi ordina: “Digli tutto ciò che devi. Ora”.

Dev’essere qualcosa che sta studiando per diventare terapeuta, e io sono troppo debole per opporre resistenza, così finisco per dire un sacco di cose a quella sedia che non è Bruno.

Gli dico che un conto è non amarmi, e un altro è mettermi da parte appena non gli servo più.

Gli dico che siamo stati due scemi. Che quella canzone napoletana che ho scoperto a Natale scorso, “Uccidimi”, non andava certo presa alla lettera.

Soprattutto gli svelo la scoperta che ancora non mi perdono: la mia sopravvivenza è più importante di lui. Gli dico tutto questo.

Per tutto il tempo, però, non dimentico mai di star parlando a una sedia.

A venerdì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Questi fantasmi

Della casa mi piaceva che non finisse mai.

Ho un bel dire che l’ho presa per calcolo, e perché i miei la capivano più dei bilocali moderni venduti allo stesso prezzo. In realtà mi attrae anche l’illusione di aver percorso tutto il corridoio, con la schiera di balconcini che lo costeggia, per poi scoprire che a sinistra della sala da pranzo c’è un’altra ala, più piccola e buia. Pure all’ingresso, la pesante porta di legno occulta la vista del grande salone. C’è sempre un ultimo tratto da attraversare, e mi piace l’idea di perdermi, ammesso che sia per finta.

Durante il trasloco mi sono concentrata solo sui metri da percorrere per introdurre le mie cose in quello scenario neogotico, costellato da elementi kitsch: l’atroce orologio all’ingresso, le madonne in legno dipinto, e i quadretti bucolici dai colori accesi, raffiguranti pastori con le scocche rosse e dulcinee scollate. Adesso mi turba l’apparizione di una bambola bruna, accomodata su una seggiolina di velluto che scopro tra un armadio e una parete sbiadita. Il sussiego che mostra la bambola è annullato dal particolare che sia nuda. È solo l’inizio.

Dopo l’addio di Bruno, la Casa degli spiriti mi si chiude addosso, con le sue storie che non conoscerò mai.

Per qualche giorno non vado in panico. Con Bruno ci siamo separati più volte, per settimane intere: è sempre tornato. Nelle chattate che faccio al cellulare (ci metterò un mese a farmi installare il wifi), l’amico che ha inventato il concetto di Litofaga e quello di Corte dei Miracoli mi trova una definizione anche per questo:

“Liberati una volta per tutte da ‘sti pesaturi!”.

La mia risata echeggia tra tappeti polverosi e divani damascati. Un pesaturo è una persona che ti opprime con la sola presenza: Bruno è sempre così facile da definire, agli occhi degli altri, e l’idea di liberarmi di un peso è così allettante… E così veloce a franare.

Comincio a star male quando capisco che l’assenza c’è, che è lì per rimanere. Finisce che devo mandargli un messaggio io, per una questione riguardante lo Spazio. Poche parole spigliate, scritte mentre aspetto una coppia di amici a cui regalerò qualche mobile. Alla fine riesco pure a chiedergli: “Come stai?”.

Stavolta la sua risposta arriva subito: è contento. Bruno. Quello che si accostava a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo e sciorinava un rosario di problemi. Adesso è contento.

Gli amici hanno bussato. Sono di Napoli, appena vedono la casa citano ridendo Questi fantasmi: “Un’ora la mattina, e un’ora la sera, dovete affacciarvi a tutti i balconi”. Scherzano, ma si guardano intorno con diffidenza. Non sono gli unici.

Uno della mia antica comitiva degli ascensori afferma di aver intravisto delle ombre in salone, mentre mi chiedeva di mediare tra lui e la sua ex. Quando è stata l’ex a visitarmi, l’ho vista stringersi allo stipite come una bambina: per un momento, su una delle due sedie a dondolo le era apparsa davanti una vecchietta. Era stato uno scherzo del lampadario a goccia, ripeteva con una risata incerta.

Quando la coppia corre via trascinandosi i mobili, senza più voltarsi, io resto sola coi fantasmi. Devo orchestrare una risposta a Bruno: “Mi fa piacere che tu sia contento”, gli scrivo, e vorrei che fosse vero ma non è così, e mi sento proprio meschina, ma mi fa male constatare che in un anno non sono riuscita a suscitargli ciò che la Biondissima gli ha regalato in un mese.

Nessuno è responsabile della felicità di nessuno, mi ricordo. E del dolore? Un anno della mia vita è diventato polvere, sono stata messa da parte nello spazio di un messaggino e due pettegolezzi. E tutto perché, a quanto pare, non avevo la struttura ossea adeguata. No, non è possibile: stavamo costruendo qualcosa anche se era complicato, non può aver mandato tutto all’aria perché aveva conosciuto da cinque minuti una che trovasse più bella… O forse sì.

Mi decido a chiamare un amico omeopata, balbettando per l’incapacità di chiedere aiuto, ma quello mi dà buca all’ultimo momento: gli dispiace, devo “affrontare gli spiriti”. Solo così posso guarire.  

Ma come si fa?

Mi rifugio sul tatami che ho comprato per rimpiazzare un antico letto, che il nipote del vecchio proprietario si sarà portato via insieme al materasso. L’odore di resina mi sta dando la nausea, insieme a quello delle candele alla ciliegia che ho comprato d’occasione. Sono incapace di stendermi o rialzarmi, e gli spifferi che infestano la casa diventano fiato gelido: la minaccia di una notte infinita. Quella è proprio la Casa degli spiriti, e io sono un’anima tra tante, spenta come le altre. Come faccio a vincere il dolore?

Devi perdere.

Non è proprio una voce, quella che mi attraversa la mente. Quando sarò più lucida la definirò come una forza, un’energia improvvisa: la stessa che mi aveva fatto correre verso il mare mentre farfugliavo banalità al telefono con Bruno. In mancanza d’altro interrogo questa sorta di voce: contro chi o cosa dovrei perdere?

Contro il dolore. Tanto vince lui.

L’unica via d’uscita è attraversarlo, conclude la voce, come attraverso ogni giorno il corridoio di questa casa: sembra infinito, e non lo è.

E allora, supina sul tatami, mi porto le ginocchia al mento e mi accartoccio come un feto, o una larva nel bozzolo. È a quel punto che smetto di resistere, che dico al dolore: su, vieni. Fammi vedere cosa sai fare.

Poi apro le braccia.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Affilata

Eccola.

Mi basta un’occhiata alla foto per stringermi la giacca al petto. È lei, non può essere che lei. E non è la prima volta che spio il Facebook di Bruno, in cerca delle ultime ragazze che ha aggiunto. Lo facevo, odiandomi, dopo una festa o un evento allo Spazio, quando lo vedevo sdilinquirsi per una davanti ai miei occhi. Trovare la fortunata tra i suoi contatti mi rinfrancava quasi: era stato proprio lui a dirmi che gli costava fatica, chiedere l’amicizia a quelle che gli piacevano sul serio. Non per niente mi aveva aggiunta subito.

Invece mi ha mentito, penso osservando la foto della Biondissima. È la prima volta, con una che gli piace, che non riesco a decidere cosa ne penso. Guardando la foto ho solo freddo. Sarà che sono sudata: ho fatto una corsa fino alla “tenda berbera”, che già veniva smontata, per recuperare i documenti dimenticati sul tavolino accanto ai noccioli d’oliva.

Ma non è quello. La sensazione di gelo non si placa davanti a questa ragazza troppo impegnata a mettersi in posa, per sorridere all’obiettivo. I suoi occhi sembrano chiedere: “Lo sto facendo bene?”.

A quanto pare sì, le rispondo muta. Ed è quella promessa di un’eterna distanza a comunicarmi che tra me e Bruno è finita. Io non saprei replicare quel gelo perfetto. Mi accorgo che nella posizione che ho assunto mi sto quasi abbracciando.

Il pomeriggio seguente, Bruno ha appena visto la casa e già la odia.

Attraverso i suoi occhi mi accorgo che ha ragione: la controsoffittatura è atroce quanto il mobilio d’accatto, ed è un obbrobrio l’orologio con Amore e Psiche appollaiati sul quadrante, le loro schiene in movimento riflesse nella specchiera. Il profluvio di tappeti pretenziosi ricorda quegli alberghi che è inutile ristrutturare, tanto verranno rasi al suolo appena l’anziana coppia di titolari andrà in pensione. Come ho fatto a scegliere quel posto per viverci? Mi sono fatta due conti, devo ricordarmi: il prezzo era quasi incredibile per la sua convenienza, e a mettere i soldi provvedevano i miei… Ma capisco ciò che Bruno sta pensando, mentre si getta su un divano damascato in salotto: io ho potuto comprare casa e lui no, ed è ingiusto, e ha ragione. Non so se ha anche bisogno di un motivo per disprezzarmi, adesso che si definisce ad alta voce “un proletario” e io capisco che è venuto per obbligo, per senso di giustizia. Il suo modo di guardare il balcone che ha davanti, e mai me, mi comunica che non mi deve spiegazioni, ma me le concederà lo stesso. Non che sia strafottente o maleducato, anzi. La sua nuova gentilezza sa già di distacco.

Prima del suo arrivo ero troppo ansiosa, così ho chiamato la Strategica, che mi ha prescritto un esercizio semplice: scrivere. Dovevo mettere nero su bianco qualsiasi cosa mi venisse in mente. Solo dopo sarei stata in grado di affrontare l’incontro.

Stavolta, però, la formula magica non fa miracoli.

Steso sul divano, Bruno mi sciorina un discorso pieno di espressioni ricorrenti. “Scelta difficile”, “frenare”, “insistevano”. Lo immagino nell’atto quasi comico di ammansire gli amici ruffiani, spiegando loro che “vedeva qualcun altro fino a cinque minuti prima”. Dunque la nostra “frequentazione” è stata solo un lungo vedersi. Peccato che Bruno non mi ha vista mai.

Ora guarda fisso il balcone su cui vivacchia una pianta troppo grande, per il vaso che la contiene, e io mi accorgo che sono arrabbiata con lui per mille motivi, ma quello che mi ferisce davvero è uno solo: non mi ama. Ed è l’unica cosa di cui non ha nessuna colpa.

Con dolcezza calibrata attira la mia testa sul suo petto. A un certo punto sembra addirittura sminuire la Biondissima, che non nomina mai. Devo reprimere ogni cocciuta speranza per ammettere che è scaramanzia, che lui sta minimizzando ciò che c’è stato con “questa persona” (un caffè, una passeggiata) perché spera tanto in ciò che potrebbe esserci ancora.

Il mio corpo è passato da accessorio a estraneo: l’ostacolo che lui deve aggirare per ottenere ciò che vuole davvero. Mi confessa che la mia prima notte in quella casa, quando mi ha mandato quel messaggio alle due, sperava proprio di trovarmi già a dormire, sfiancata dal trasloco. Non voleva rischiare che tra noi finisse “come al solito”, e io mi ritrovo a contemplare quell’anno di lividi e di lenzuola sfatte, rinchiuso in tre parole: “come al solito”. Tra noi finisce sempre in quel modo, si esaspera lui, ed è come se si stesse lamentando di un virus che ci contagiamo a vicenda, di una malattia venerea. Per questo è lì, ora, nel tentativo di “fare la cosa giusta”, e la mia logica ossessiva gli dà pure ragione: parte della mia strategia recente consisteva proprio nell’assecondarlo, quando pensava che noi due non fossimo niente, ed è venuto fuori che non eravamo niente sul serio. Poi il mio ventre si contrae in un promemoria: ho dovuto ascoltare il pettegolezzo di un amico, per scoprire che c’era un’altra. Quanto bisogna sbagliare la propria vita, perché succedano cose del genere? Ecco che mi sto già dando la colpa di tutto.

Bruno però mi rende l’onore delle armi: ormai dovrei saperlo che mi trova carina. “Assai”, scherza, scimmiottando il mio accento. Però lui a me basta e avanza, gli ricordo con un filo di voce, mentre io a lui no. Prima di replicare indugia un po’, come se fosse davanti a un test di valutazione:

“È che non sei abbastanza affilata”.

Il suo tono è quello scherzoso e un po’ dispiaciuto con cui si comunica una promozione sfiorata, o il risultato di una partita persa ai punti.

Lì per lì penso che si riferisca al mio umorismo, o al carattere. Mi è sembrato ovvio a una prima occhiata che la ragazza della foto fosse… pungente, come il freddo che mi ha trasmesso. Ci metterò giorni a capire che Bruno intendeva proprio quello: i miei lineamenti, il mio corpo con le antiche rotondità e i nuovi spigoli, non erano abbastanza affilati perché lui si innamorasse di me.

I tre baci dell’addio sono i più solenni di sempre, specie quello lento che mi plana sulla fronte. A sorpresa mi prende il polso e bacia anche quello.

“Sei sempre profumata”.

Flower di Kenzo. La boccetta resterà con me per altri tre traslochi: un piccolo relitto che non avrò mai più il coraggio di usare, né di buttar via.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Il mare ha un suo metodo

Da barcelonatourisme.com

Viene prima il sollievo.

Colpisce un istante solo, così breve che potrei fingere di non notarlo. Eppure è stato lì, nel mio ventre contratto, un momento prima di lasciare spazio al dolore. Lo sapevo, mi dice il ventre. E dice pure: almeno adesso lo sai anche tu. Quanto cazzo detesto gli almeno.

Ma non ascolto il corpo, non ancora. Sono tutta protesa verso l’amico, che sta scegliendo un’altra oliva.

“Chi lo dice?” riesco a chiedere. “Chi dice che Bruno si è innamorato di questa… tizia biondissima?”.

All’improvviso temo che l’amico mi riferisca qualcosa che ha visto in prima persona. Niente di tutto questo, ma mi sento nominare una fonte di tutto rispetto: un altro che frequenta il bar specializzato in scambi linguistici, e che sa tutto delle ex di Bruno e niente di me.

Io non ho bisogno di sapere altro. Potrei raccontarmi perfino che avevo capito subito: dopotutto avevo irrigidito la testa sul petto di Bruno, mentre lui mi parlava della nuova amica. Ma non è vero, Bruno mi ha nominato diverse donne: lo faceva di meno, ma non aveva mai smesso. Dal caos che mi ha invaso la mente ripesco un detto americano: “Se sostieni un uomo in difficoltà, lo prepari per quella che verrà dopo di te”. Bruno si è consolato tra le mie cosce dei soldi persi, e adesso che sta meglio può passare a una che gli piaccia davvero… No, troppo cinico: la realtà dev’essere ancora più banale.

Quand’è che ha conosciuto la ragazza biondissima? Circa un mese fa, e lo sanno già tutti. Di me, invece, nessuno ha saputo nulla per un anno.

Mi alzo a fatica dal tavolino basso: non riuscirò a simulare a lungo. Accusando i crampi del ciclo (che comunque non inizia) pianto l’amico lì, insieme alla busta coi documenti che custodivo con tanta attenzione. Ma non mi guardo indietro, non voglio vedere gli ossi di oliva rosicchiati. Adesso voglio solo correre, e per la prima volta dopo tre giorni di trasloco non so dove andare. L’unico obiettivo è quello di ripescare il cellulare in borsa.

Bruno risponde quasi subito, sorpreso della chiamata. Per un lungo istante mi chiedo se non stia insieme a lei, poi penso che no, perché lui la voglia così tanto lei dev’essere assente, quasi sempre.

“Perché non sei ancora venuto a casa nuova?” riesco a domandargli.

“Stasera, dici? Avevo un ospite a cena: l’amico di un’amica che…”.

“Perché non sei venuto?”.

Silenzio. Lui assume un tono ambiguo, tra l’incoraggiante e il divertito:

“Se hai qualcosa da dirmi, dimmelo”.

Gli ripeto le parole che ho appena ascoltato. Il nuovo silenzio sembra durare un’eternità, ma so analizzare anche quello: Bruno è seccato.

“Chi te l’ha detto?”.

Non è sorpreso, imbarazzato, pentito. È proprio seccato. Quando gli nomino la fonte del pettegolezzo, prorompe in una serie di imprecazioni sulla gente che “non si fa i cazzi suoi”. E allora capisco che non siamo più soli. Come la Bella Stronza si intrometteva tra noi a sproposito, adesso c’è la Biondissima, con maiuscola: un’altra che non chiamerò mai per nome. Della mia rabbia Bruno non sa che farsene, preso com’è dalla sua indignazione.

Il tuo corpo capisce le cose… Okay, inutile ripetermi la tiritera della Petulante adesso che le gambe mi portano via senza più chiedermi il permesso, e Bruno si scalda: lui con “questa persona” non ci ha fatto proprio niente! Ci si è preso un caffè, che c’è di strano? Al massimo hanno passeggiato un po’…

Me lo immagino a contemplarla in silenzio, senza riuscire ad ascoltare ciò che sta dicendo. Ecco il sentimento che gli mancava, nobile e puro, così diverso dal bisogno immondo di sfogare i suoi umori nel primo corpo a portata di mano: il mio. Che sta avendo un suo collasso interno, senza per questo fermare la corsa.

La prima a crollare è la logica. Questa roba è così allucinante che non sta succedendo, non ho altra spiegazione. Poi arrivano le accuse a me stessa: se Bruno sta avendo questa reazione del cazzo, sto facendo qualcosa di sbagliato io.

“Perché non me l’hai detto, Bru’?”. Riesco persino ad assumere un tono disinvolto, da donna di mondo. “Pensi che mi importi? Tutto quello che voglio da te è lealtà”.

Come ho fatto a spuntare sulla Rambla? Non lo so. A un tratto capisco che sto andando verso il mare, ed è una buona notizia. Il mare ha un metodo tutto suo per calmarmi, o così mi viene da pensare mentre accelero il passo e recupero un po’ di voce.

“Guarda che io non sono il secondo piatto di nessuno”.

Lui sembra soppesare quell’espressione che il mio cervello ha appena tradotto dallo spagnolo, e che un altro italiano non avrebbe colto subito.

“Temevo potessi diventarlo” ammette in un tono che mi pare rassegnato. “Per questo ti ho scritto che non mi sentivo di essere altro che un amico. Non credere sia stato facile, c’era mezzo mondo a farmi pressione ed ero io a frenare, a dire che avevo una frequentazione fino a cinque minuti prima…”.

Frequentazione. Mesi di lavoro, pianti, insonnie, digiuni, cancellati in una parola. A quanto pare non è mai esistita la mia estate inappetente, non è mai iniziato questo autunno passato a sperare, e a correre. Era un’allucinazione anche la gatta che veniva a fregarmi il lettino da campo e a consolarmi, prima di volare giù senza che la lasciassi più entrare nelle mie notti insonni.

Solo che la gatta c’è rimasta secca e io sono ancora lì, in qualche parte del mio corpo che sta correndo dissociato dalla mia voce, dalle parole rassicuranti che racconto innanzitutto a me stessa, poi a Bruno: lealtà. Chiedevo solo lealtà.

La più grande illusione è stata quella di avere tutto sotto controllo.

Quando intravedo il porto, respiro. Partenope si è buttata in mare, io scivolerò contro un lampione a fissare le luci delle barche ormeggiate.

Mi accorgo solo adesso degli accenni di Bruno al suo ospite: il poverino deve restarsene in sala da pranzo, mentre il padrone di casa si sente molto magnanimo a parlare con me, invece di intrattenerlo. E forse non capisce neanche perché ho la voce rotta.

Mi rendo conto che ha ammesso la nostra “frequentazione” solo con quelli che tentavano di piazzarlo con la Biondissima, e solo mentre decideva di mollarmi.

“Possiamo parlarne dal vivo?” taglio corto.

Sembra contento della soluzione: così potrà pure tornare al suo ospite. All’improvviso ha il tempo per venire da me il pomeriggio seguente.

La prima cosa che faccio quando riattacca è chiamare la Petulante: scusa, non sei più stronza, mi riceveresti appena puoi? Forse non lo dico proprio così, ma qualcosa nella mia voce incrinata spinge la Petulante a riservarmi il primo buco che si ritrova in agenda, tra due giorni. Adesso ho un’idea a cui aggrapparmi in queste prime ore.

Intanto mi tocca contemplare quel mare troppo scuro, le acque increspate da un vento che non punge.  

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Qualcosa che non ho visto

Adesso mi tiene addirittura per mano.

Lo fa quando siamo in strada, non sempre però. La “relazione”, come ora la chiama anche lui, torna a essere un chiaroscuro definito dalle assenze: condividiamo la passione, non i problemi. Al massimo sono io ad accollarmi i suoi, le ansie per quei soldi persi che gli guastano le ore. Lui però mi offre riparo a casa sua, quando l’uomo col mastino mi manomette il contatore dell’acqua e devo scendere sei piani a ripristinarlo. Il mio terrazzo resta chiuso: non c’è più la gatta ad acciambellarsi sotto l’amaca, e passata l’estate comincia pure a far freddo.

A un certo punto devo ammettere che l’euforia da fine estate è finita. Le scartoffie per comprare casa nuova non finiscono più, e il ciclo non torna. La Petulante mi sciorina ancora la storia del corpo che capisce le cose prima della mente: c’è qualcosa che mi mantiene bloccata proprio ora che tutto si muove, qualcosa che non ho visto e non voglio vedere. Io sulle prime penso che farei bene a non vedere più la Petulante! Per smentirla mando a Bruno un messaggio molto schietto, insolito per la mia nuova tappa “strategica”: può farmi il favore di venire con me a visitare casa nuova? Vorrei un suo consiglio su certi cambiamenti da realizzare…

La replica è quasi telegrafica: è tornato a non avere tempo.  

Finisco io a casa sua una sera che siamo entrambi a un concertino in zona. Mi piace che Bruno dia per scontato che dormirò da lui, ma sembra quasi che succeda solo perché “si è fatto tardi”. Mi rimprovero subito per quei pensieri tetri, ma il giorno dopo sto già recuperando il mio spazzolino dalla tazza sbreccata in bagno. Non so neanche io perché lo faccio: ho ancora qualche asso nella manica, cazzo!

Nottetempo gli scrivo una lunga fantasia scaturita da un libro di filosofie orientaliste: una roba che, più che erotica, finisce per risultare mistica o allucinata.  

Il suo silenzio dura così tanto che risulta umiliante, dopo un messaggio del genere. Siamo tornati davvero a quel punto lì? Come se i mesi passati, i chili che ho perso, le tiritere della Petulante e i trucchetti della Strategica fossero solo un sogno. L’unica cosa a segnare il passo del tempo resta quella finta estate, che ormai scivola via nell’autunno profondo. Mi sento di nuovo al punto di partenza, e non è vero: quest’anno passato dietro a Bruno non tornerà più, come le energie e l’amore che gli ho sacrificato. Come l’amore che ho perso per me.

La risposta arriva di notte, ed è di quelle lunghe che accompagnano i suoi no.  

“Disconnesso”: così si definisce. Lo è per “circostanze” che non mi sta a spiegare (e io penso subito a un brutto scontro con l’amico del prestito). In ogni caso, in quel momento non gli sembra giusto “valicare i confini dell’amicizia”.

L’amicizia.

Ancora una volta, il corpo è il primo a reagire: sopraffatta dagli ormoni del ciclo bloccato, scoppio a piangere senza neanche accorgermene. Subito dopo, però, la logica ha il sopravvento. A scombussolare Bruno sarà stato senz’altro l’autunno, col suo “ritorno alla normalità”! Ci siamo rivisti in condizioni inconsuete per entrambi, a fine estate, ed entrambi siamo stati risucchiati dalla ricerca di un lavoro o di una casa. L’incertezza di ogni giorno ha preso il sopravvento.

Sì, non è il caso di preoccuparsi. Bruno a volte ci mette un po’, ma torna sempre.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Lividi

Da behr.com

Mamma nota subito i lividi.

Neanche il tempo di disfare la valigia e già mi ha squadrato le braccia, incerta se fare una battuta o preoccuparsi sul serio.

Non le sto a spiegare che la morte della gatta mi ha fatto scattare qualcosa, che voglio cambiare tutto. Aspetto che lei e papà ripartano per agire.

I miei sono lividi cocciuti, persistenti sulla mia pellaccia di gommapiuma: forse sono gli stessi notati, quando erano ancora freschi, dall’agente immobiliare milanese che sta diventando mio amico. “Ma che, te menano?” ha sdrammatizzato lui, facendomi pentire di non aver indossato una giacchetta. No, non “me menano”, e sul momento neanche ci faccio caso, ma mi diverte il paradosso: chi mi lascia addosso i lividi fa finta che non sia successo niente, e quelli restano lì a dimostrare il contrario.

Ho contattato l’agente per “farmi un’idea” sulle case in vendita: nella quasi impossibilità di affittare un buco a nome mio, l’aspirazione balzana è quella di spuntare un mutuo, o almeno scoprire come si fa. I miei si sono offerti di farmi da garanti e, magari, versare la cifra iniziale. Chi non ricorre all’aiutino da casa, per potersi aggiudicare un appartamento a Barcellona? Perfino i miei amici medici devono farsi anticipare qualcosa…

“Portami una sola busta paga, e il mutuo è tuo”.

Questa è la promessa del direttore, quando i miei mi accompagnano in banca e proviamo a capirci qualcosa in quattro lingue diverse (napoletano incluso). Però il mio contratto di lavoro dev’essere a tempo indeterminato, avverte dispiaciuto questo cinquantenne gentile, che a giudicare dall’accento barcellonese sarà passato dalla casa dei suoi a quella ereditata dalla nonna.

Uscendo dalla banca, mia madre mi dice che basta così. Ho un vicino di casa che forza serrature e fa volare le gatte dai balconi, dunque devo andarmene da quel posto. Vorrà dire che troveremo una casa economica, e invece di lasciarmi i soldi in eredità i miei mi vedranno proprietaria, e al sicuro, adesso che possono ancora venire a farmi visita.

L’uomo col mastino ci fa trovare le scale addobbate dalle sue scritte minacciose, e dai bisogni del cane. Stavolta non ha lasciato ricordini nella cassetta della posta. L’amministratore si rifiuta di cambiare ancora la serratura del terrazzo condominiale, e la polizia ci ha fatto sapere che “basterà aspettare lo sfratto”, ormai è questione di tempo: il soggetto non se ne andrà per il pericolo che costituisce, ma perché non riesce più a pagare il suo antico affitto calmierato. Lo prenderanno per povertà.

Nel frattempo, liberarsi di lui è diventato un privilegio. L’amico agente scova una casa che i miei “capiscono” (quella che avrei voluto io era grande un terzo e costava uguale), e festeggiamo condividendo una birretta con gente dello Spazio, che si è data appuntamento in un pub del Born.

Bruno fa la sua apparizione in ritardo, schiacciato dallo zaino che si porta sempre dietro, e al momento di ordinare dichiara: “Per me niente”. “Lo vuoi con ghiaccio o senza?” scherza il cameriere, e Bruno non coglie, ma poi si avventa sulle mie patatine e su quelle extra che si premurano di offrire i miei.

All’uscita del pub si prende papà in un angolo e gli spiega le sue varie ipocondrie, e papà, che è medico, inizia a sbrogliargliele. Sembrano intendersela a meraviglia, e mamma è quasi divertita da quella consulenza medica che non finisce più.

“Tu avresti preferito studiare da infermiera” scherza, con una traccia di allarme nella voce.

Poi si rende conto che papà ha lasciato al tavolo la giacca e le chiavi, e senza una parola gliele va a recuperare.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.