“Mariamarche’, nun me sposo cchiù”.
Il tono al telefono è quello solenne di chi sta scherzando, ma mi faccio lo stesso strada tra gli strati di afa che in paese si tagliano col coltello e gli dico:
“Ua’, non esiste proprio! Si nun te spuse tu… Voi siete una speranza per l’umanità!”.
E non sono l’unica a pensarlo, del matrimonio che mi ha vista in riva a una spiaggia dello Ionio con dei perfetti sconosciuti (particolare che non mi ha impedito di cantarci in auto, litigarci, confidarmici e piangerci assieme nei numerosi momenti di commozione collettiva). Un’impresa titanica che ha trasformato un amore adolescenziale nella scommessa di una vita (“Mariamarche’, la vita fa giri esagerati, po’ vide”) e riunito gente di tutto il mondo in un paesino tutto toni dorati e pietre antiche, che per immaginarselo basta guardare la sposa.
C’erano tutti, i parenti calabresi, i prof. spagnoli, gli amici napoletani.
E quelli di Barcellona.
Che perlopiù spiccano per la refrattarietà ad abbronzarsi. Per le attività interessanti che svolgono, sempre poco retribuite e quasi mai legate a cose triviali come figli e mutui da pagare. Per gli abiti da cerimonia creativi, compresi dei pantaloni con spacco che detteranno moda per decenni. Per il silenzio in chiesa mentre tutti recitavano il Padre Nostro (l’unica cosa che si è sentita è stata il leggero russare del mio vicino). E soprattutto, per il loro italiano: potevi sentire davvero frasi come “Certo che comprare un piso è un’inversione, specie se paghi in effettivo invece di farti l’ipoteca”. Roba che non si capisce né in Spagna né in Italia, l’itañol nella sua essenza.
Facilmente individuabili, insomma.
Poi ci sono io, infagottata nel vestito comprato un anno, 3 chili e 4 vite fa. Io che ho rovinato in un nanosecondo la sorpresa sul repertorio musicale in chiesa (“Ah, in casa c’erano dei ragazzi a provare Ovunque proteggi, di Capossela, perché?”), io che non per fare sempre la parte dell’esclusa, quella che non sta bene da nessuna parte, ma sono scesa in Calabria in un’auto napoletana, tra frittatine di maccheroni e un inaspettato Baccini cantato a squarciagola (e le donne di Napoli “capaci di ridere anche sotto l’alluvione” hanno aperto le danze di Radio Lacrima). Poi ho dormito coi barcellonesi, comprando cornetti per i coinquilini improvvisati 5 minuti prima che ci pensasse lo sposo. Ma senza presentarmi in spiaggia una notte che fosse una, sempre troppo stanca per condividere la “capa fresca” neocatalana che fa organizzare macchine per guardare l’alba, mentre il gruppo di Napoli ricorda che alloggia a un’ora dal mare (“E allora?”). E i napoletani mi sfottevano: “Sei di Barcellona, ma sempre con noi stai, no?”.
No. In realtà me ne sono stata a lungo anche sul muretto fuori al castello del banchetto nuziale, appollaiata sulle panche tra le montagne e Brasile-Italia, guardato in maxischermo dagli uomini del paese fuori al bar della piazza. A sorridere della tripla alienazione di napoletana in Calabria, barcellonese in Italia, italiana a Barcellona.
Ma questi e altri riscenzielli non erano niente, ho scoperto, rispetto alle vicende umane di chi ha voluto esserci nonostante le ferite recenti e laceranti, gente che non conosco ma che rispetto e ammiro, sentendomi un po’ scema ad aver pensato anche un momento di rinunciare.
Ma ribadisco, è merito degli sposi. Del momento in cui la sposa ha coperto l’entrata della chiesa, illuminandola col suo abito avorio, mentre lo sposo non sapeva se trattenere più l’emozione o le risate, a vederci tutti sul pizzo delle panche in un ping-pong di teste girate tra portone e altare.
Della loro storia incredibile che a raccontarla non ci credono, “Eh, sono tornati insieme da qualche anno, ma si sono conosciuti quando lo sposo teneva ancora i capelli”. E della sensazione, in loro presenza, di trovarsi di fronte all’amore come dovrebbe essere. Come è.
Perfino a Barcellona.