
Ok, non col piumone, ma la sua felpa è uguale!
Giuro che, quando ho visto il quaderno, mi sono quasi commossa.
L’aveva trovato alla tabaccheria dove compra le sigarette, già che si allungava verso il Veritas: il Coaliment di fronte alla nostra strada ha perfino la farina e il riso, ormai rari quanto l’araba fenice, ma è – era – un negozio per turisti, di qualità varia e prezzi maggiorati.
Va anche detto che, ieri, la sola lista della spesa sembrava un’improbabile battaglia navale Italia-Inghilterra, da disputarsi su qualche scogliera artificiale della Barceloneta, che rivedremo chissà quando: se andava al Coaliment, la pasta lunga doveva essere solo Barilla, e solo capellini, tra i pochi formati che tollero di quella marca… “Se non è Barilla, desisti”.
Lui scrutava la mia grafia sul retro della tovaglietta Sandwichez scovata tra le sue cianfrusaglie, visto che non ero disposta a cedere neanche un pezzetto di carta.
“E la trovo, questa marca al Veritas?” mi aveva chiesto infine.
“No! Al Veritas puoi prendere la pasta lunga che vuoi, magari non proprio quella che costa tre euro… però la qualità è superiore“.
“Ma sempre capellini? E poi che significa ‘passata di pomodoro’? Cos’è un pomodoro?”.
Gli stavo per fare un disegnino: se mi avessero detto che un giorno avrei difeso l’acquisto della Barilla, mi sarei messa a piangere. Ma le alternative al Coaliment sono la Gallo e poco altro, chi vive da queste parti sa e capisce. Avessi un po’ di semola di grano duro, altro che farina introvabile!
È finita che è tornato con le bavette Barilla, il latte d’avena e non di soia (ma la marca era Yosoy, che ne sapeva?), e i pomodori da pa amb tomàquet, ma lì è colpa mia: do per scontato che tutti li prendano di default del tipo che serve a fare le pellecchie. Poi, però, c’era il quaderno.
Io i racconti preferisco scriverli su carta. Se il racconto deve vincere per knock out, voglio pestare i quadretti con le mie penne a punta retrattile, finché le parole non fanno quello che dico io.
Sto facendo il classico errore di produrre cattiva letteratura su qualcosa che sta succedendo in questo preciso momento: roba che la gente non vuole leggere per anni, neanche se sfornata da grandi penne (non quelle lisce, dico in senso metaforico). Se Primo Levi non trovava un editore con il bel popò che gli era successo, figuriamoci io, che devo solo starmene a casa e ho il privilegio di starci pure bene, intenta come sono a leggere, scrivere e far di conto… o meglio, farmi due conti.
Non voglio cadere nell’errore di magnificare la vita che ho lasciato, ricordo che c’erano cose che volevo correggere ed ero in una fase di cambiamento. Certo che rimpiango l’uscita del pomeriggio, dopo la mattinata passata a scrivere, ma non al punto di magnificare il mio percorso ozioso tra Fnac e Cafè Costa, in cerca di un bar in cui prendere appunti su quanto avrei scritto il giorno dopo. Sono anche meno concentrata sulle ultime bozze del libro che doveva uscire ad aprile, e ora chissà.
Non importa. Ho ritrovato qualcosa che spesso si dimentica, quando si ha il privilegio di trasformare la propria passione in attività quotidiana: il perché. Come mai ci muove proprio quella passione? Quale piacere ci regalava prima dell’ansia, metti caso, di spostare quella virgola risolutiva? O prima dei dubbi su quanto le descrizioni – di cui non mi è mai fregata una ceppa neanche come lettrice – convinceranno l’editor, l’amica scrittrice, e tutto quello stuolo di gente che si può risentire se accosto due parole che iniziano uguale.
Anche questa può essere una distorsione di quanto accadesse prima: quando sarà tutto finito potrebbe tornare la mia ansia da prestazione, anzi, da descrizione. Ma se la realtà è diventata quest’alternarsi continuo di giornate, cos’è che ci definisce davvero? Forse, quello che nonostante tutto riusciamo ad amare, in tutte le sue rappresentazioni.
Fosse anche un quaderno dalla copertina verde transgenico, che a giudicare dalle dimensioni non mi basterà a scrivere la metà dei racconti che ho in mente.
Di buono c’era che si abbinava alla felpa di chi me l’aveva scovato: allora ho deciso che in tabaccheria l’aveva servito una commessa, annoiata come tante dipendenti che non possono permettersi di essere spaventate e basta. La ragazza aveva visto come gli stesse bene quel cappuccio verde ancora odoroso di lavanderia a gettoni, alzato sui riccioli rossi che si riprendono il loro spazio, e gli aveva scelto proprio quella copertina lì.
E invece, ho saputo poi, alla cassa c’era un tizio di mezza età, che gli ha sbattuto sul bancone il primo quaderno che ha trovato sullo scaffale.
Almeno mi sono ricordata perché mi piace inventare storie.