Archivio degli articoli con tag: Barcelona nightlife

starrynightLo incontro per caso, in mezzo alla strada.

Mi aveva mandato un invito per una rimpatriata al Manchester Bar del Gotico, ma no, dovevo ritrovarmelo davanti proprio mentre andavo a correre in pantaloni neri, scarpe blu e felpona grigia del 1998.

Lo invito al compleanno e ricambia con una paella, salvo scoprire che da Romesco non accettano carte di credito e chiedermi 20 euro (che mi restituisce al primo Bancomat).

In questo non cambia mai, è quello del culo olandés. A chi gli chiedeva, 3 anni fa, perché non ballasse nei vari locali che frequentava quasi ogni notte, tanto al lavoro aveva il turno pomeridiano, rispondeva serio: “Mi spiace, soffro di una malattia congenita che si chiama sindrome del culo olandese, non posso muovere i fianchi”.

Da allora sono passati un trasferimento in un altro paese e un figlio di due anni, fatto con la “ragazza interessante” che aveva incontrato una sera allo Sugar Bar. Conosco almeno 3 coppie sposate e/o con figli che si siano conosciute tra lo Sugar e il locale accanto. A lui, però, è andata male, “la puttana” si è trasferita fuori città e il bambino lo può vedere due giorni a settimana. Se non fosse per lui, mi sa, tornerebbe a Barcellona.

Perché quello che più mi colpisce, del mio amico, è che lui la vita che facevamo la rimpiange.

Quella che fanno tanti stranieri nei loro primi mesi a Barcellona. Di bar in bar, a ubriacarsi con gente interessante che dura lo spazio di una notte, di una crociera, a sentirsi giovani e belli e senza pensieri. Qualcuno dice “questo non sono io”, lo considera una parentesi prima di tornare a una vita noiosa e reale. Qualcun altro non smetterebbe mai di farlo.

Poi c’è il post-sbronza, che in spagnolo e in inglese un nome ce l’ha, hangover, resaca. Più hangover, mi sa, perché questa Barcellona parla soprattutto inglese. La puoi vivere e bere tutta per anni, lo spagnolo lo impari poco e male. Il catalano? A che serve.

E lui era il più accanito, quello che non si stancava mai, additato come caso curioso dai pochi amici autoctoni che avevo.

Io, invece, un giorno mi ero svegliata con la testa che mi scoppiava, i capelli che puzzavano di sigaretta (ancora si fumava nei locali) e mi ero resa conto di vivere il vuoto. Uno sfavillante nulla innaffiato di birra e cicchetti di tequila e cervezabeer 1 euro, amigo, in cui gli “amici” si ricordano di te solo il fine settimana, e il francesino giovanissimo che ti tieni si tiene un’altra in un locale a pochi metri.

E me n’ero chiamata fuori.

Ora scopro che anche il nulla evolve, si sviluppa, invecchia. Che delle altre coppie etiliche una si è trasferita a Edinburgo, la città di lui, e lei che è colombiana si sta deprimendo, e un’altra si è sposata da poco e pensa alla patria di lei, il Messico.

– Quello che mi colpisce – spiego all’amico sulla Rambla del Mar, dopo la sua pisciatina di rito sotto al ponte – è che nessuno di voi ha pensato nemmeno un momento che Barcellona fosse un buon posto per crescere un figlio.

E non per la crisi, ‘sta gente lavora e non sempre torna in paesi che se la passino meglio. No. Semplicemente conoscono solo la Barcellona che ho descritto, l’altra non la sospettano nemmeno o la credono una noiosa chimera per catalani.

Io stessa stento a conoscerla, anche se ci provo. So per certo che la Barcellona che mi ha vista crescere con quest’amico balzano e dolcissimo, nel caos interno che si porta sempre dietro, quella Barcellona che lui rimpiange io non la rivorrei mai e poi mai.

Gliel’ho lasciata sulla Rambla, coi due baci di rito, e sono tornata a casa.

Io col week-end barcellonese ho un problema: mi fa schifo. È un trauma antico, alla fiesta ho rinunciato notando che gli “amici” mi chiamavano solo il venerdì sera, e che il francesino ventenne con cui brindavo ogni tanto andava da un’altra per il bicchiere della staffa. Era il momento di prendersi una luuunga pausa, che in effetti dura ancora oggi.
Questo sabato pomeriggio infatti si annunciava scoppiettante come sempre, ma mentre già sto scaricando il film ecco che mi viene voglia di vita sociale. Pomeridiana, ovviamente, come le nonnine che sempre popolano i bar che piacciono a me. Me lo fa notare Vanessa, varcando la soglia dell’orxateria valenciana.
Parliamo del licenziamento: lei aveva lasciato prima, rifiutando il part-time per trovarsi un’azienda meno glamour e più solida. Quindi mi chiede un po’ di pettegolezzi postumi. Era vero che Tizio usciva con Caia? Meno male, allora un po’ di movida c’era, in quel mortorio…
Ma che gossip volevi, butto lì, io ero l’unica libera, in ufficio… Lei sembra fare un rapido calcolo e conclude: hai ragione, eri l’unica. Pure l’unica a non saperlo, sospiro nella cannuccia, soffiando una bollicina nella leche merengada. Squisita. L’orchata di Vanessa invece sa di orchata, ovvero di niente. Avrei dovuto dirglielo.
Sicura che non vuoi venire con noi?, la saluto sotto la metro prima di andare con Xavi, catalano vissuto in Toscana (“He hazzo dici?”), che per l’occasione è venuto con un catalano “di Saragozza”. Catalani e basta è difficile trovarne.
Dopo un poetico giro per una mostra al CCCB, e uno più prosaico per locali sozzosi, approdiamo causa affollamento al mio asso nella manica: casa Almirall. Classe 1860, il miglior vermut della città, garantiscono.
Infatti il dramma comincia con me che decido di provare il vermut.
Il primo brindisi lo facciamo in catalano. Al terzo stiamo parlando napoletano, aragonese ed esperanto, mentre i camerieri scommettono su che lingua sia. Specie il cassiere, che mi osserva gesticolare attonito.
Il vicino romano incontrato all’uscita mi annuncia che sto ‘mbriaca (ma va’) e che me so’ perza ‘a riunione Altraitalia.
Vero, cacchio, impreco entrando da Shalimar, bocciato una volta dagli amici paki e promosso ora a pieni voti da un Xavi sudato e felice (per le spezie), che al secondo bicchiere di vino fa un uso improprio del tovagliolo.
Risultato: il giorno dopo mi sveglio con una sbronza colossale, e in ritardissimo per ripulire i detriti delle pulizie di primavera. E ho un pranzo tra tre ore.
Ma c’è un bel sole e chiamo Fahim, sempre gentile e carino, e sempre coinquilino del mio ex, che è sempre 20 cm più alto di lui (e 40 più di me).
– Vieni a prendere un caffè nel pomeriggio? Ho delle cose per il tuo magazzino.
– Ok.
– Porteresti anche il trapano? Mi aiuti a montare l’amaca.
A fare la spesa non lo mando, porello, un pako che mi compra la pancetta è troppo anche per me.
Fortuna che ho invitato dei ritardatari cronici, che però riescono a sorprendermi: una arriva mezz’ora dopo con un amico, un altro mi messaggia a quota 10 minuti di ritardo per annunciarmi che si è appena svegliato.
Siccome lei non ha ricevuto il messaggio di scuse anticipate, il mio salotto le si presenta in tutto il suo splendore come sorpresa del giorno.
Meno male che il pranzo è fuori al balcone, ma… Che fine ha fatto il sole?
– Mi sa che scoppia un temporale – annuncia lei.
– Ma va’ là, ma va’ là.
Alla prima forchettata, come in un film, comincia a piovere qualsiasi cosa. Anche bestemmie, mentre rovescio in un sacco della spazzatura tutto il letame sul tavolo in salotto. Quando riusciamo ad addentarlo, lo spaghetto è ormai tiepido. Solo la menesta nera si conserva a tremila gradi Fahrenheit, il che non impedisce all’altro ritardatario d’ingollare 5 piatti e tutta la baguette.
Fahim invece non prende manco il caffè: arriva con soli 40 minuti di ritardo e senza trapano, per dirmi che ripasserà. Non saprò mai se andava davvero di corsa o l’abbiamo spaventato.
In fondo guardiamo solo il Mago Otelma in un reality spagnolo.
È ormai tempo di uscire un po’. I miei ospiti si accapigliano sulle responsabilità della Grecia nel Medina Azahara e fanno pace nell’Ambar.
Io invece vado a far pace col pigiama: mi ero vestita sotto il sole traditore, e ora ho freddo.
E poi niente partita, oggi.
Marianna mi ha chiamata per avvertirmi della morte di Morosini. Ma questo con tutte ste stronzate non c’entra.

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