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struscio– Hai notato che il censo delle persone in strada è piuttosto basso? Ne possiamo dedurre che allo struscio partecipa soprattutto gente che non può permettersi di uscire di casa…

Ua’, uagliu’, chillu llà è chiaramente ‘o sosia ‘e Luiggi!

Signore e signori, i miei compagni di struscio.

Tradizione paesana che ho sempre seguito poco e niente, tant’è vero che la prima volta nella mia vita me l’ha nominato una signora di fuori.

Ma quando mio fratello mi ha proposto la passeggiata del 24 pomeriggio ho accettato entusiasta: niente di meglio che vedere un posto attraverso gli occhi di chi ci vive.

Ora, sarò l’unica ad applicare questo principio al proprio paese, ma considerando che conosco meglio le stradine del Raval (e mi ci perdo ancora) che quelle intorno la Basilica di San Sossio, mi concedo questa licenza, che da noi di licenze se ne concedono assai e a sproposito.

Prima di scendere, per documentarmi, risento una poesia di Viviani sull’argomento, e ne deduco che in passato fosse un’occasione per truva’ ‘a ciorta, trovare la fortuna sotto forma di marito: un’espressione che da sola è un trattato sulla condizione femminile a Napoli.

Me lo conferma mia nonna, 93 anni:
– Buono struscio. Trova…
Occhiolino.
– Cosa?
Altro occhiolino.
– Diventerò bisnonna…

Evito di fare scongiuri e mi avvio verso il Corso.

O quello che ne resta, invaso da una fiumana di cappotti scuri. Abituata a Barcellona e a gente di tutte le dimensioni, come i pastori nel presepe, mi riscopro di nuovo di altezza media, e penso agli amici olandesi che ne riderebbero. Solo i bellissimi ragazzi neri che vendono borse Guess contraffatte alzano un po’ la media.

Ma le nuove generazioni sono più alte, e i biondi spiccano ogni tanto tra le belle brune dai lineamenti delicati che si affollano fuori al bar per l’aperitivo. Le è sono molto aperte, quasi a, le a quasi o. Andando verso Piazza Riscatto, tra le bancarelle di dolciumi e i pescivendoli che (per fortuna) sciarmano, le taglie aumentano. E mi chiedo sempre perché i 15 anni, da noi, sono sinonimo di quelle bellezze opulente che durano una stagione. Come Hélène Lagonelle, nel libro che amavo quando a fare lo struscio ci andavo da sola, a caccia di un tizio che ora a stento ricordo di guardare, scorgendolo sotto al suo portone.

– Camminiamo al centro strada, vieni.

Una parola. La fiumana è continua e invalicabile, anche se mi chiedo chi compri ancora CD pezzotti ora che la musica si scarica. E le sciarpe a 3 euro?
Prodotti italiani, non cinesi, promette una bancarella, quindi invece degli schiavi con gli occhi a mandorla li hanno fatti quelle ragazze che lavorano a 2-3 euro all’ora negli scantinati vicino casa mia, e che almeno prima della crisi lasciavano la macchina per cucire per sposarsi a 20 anni.

Ora camminano tranquille coi fidanzati, che dal canto loro sfoggiano giubbini simili e si baciano in continuazione per farsi gli auguri: una pratica che quei nordici che chiamano ricchioni l’estate a Mykonos (perché magari non si girano a ogni culo che passa) riterrebbero poco virile.

– Questo è un carissimo amico di mio cognato.
E pecché – s’indigna il presentato – a te nun te so’ cumpagno?

– Chillo è architetto, geometra… Una cosa così.

E poi fanno il nome del concittadino del momento, nonostante la ragazza della medaglia d’oro alle paralimpiadi, come si lamentava una cugina al tradizionale pranzo del 24, a base di pizze.

È passato Insigne cu’ ‘n esercito ‘e guagliune appriesso!
Puveriello!

Manco Insigne ha rinunciato allo struscio, a disperdersi in quel fiume di cappotti che ora mi sembra un fiume vero, che scorre via come tutte le cose. Ma che intanto è sempre là, ogni festa comandata, anonimo e inesorabile.

E noi siamo gli schizzi di tempo che si lasciano scorrere, ma a modo loro.

(strusci d’altri tempi)

http://www.youtube.com/watch?v=LBbADbxlJCs

E prima ancora che il pareggio diventasse 3 a 2, contro il Bologna, in casa, il cameriere bellillo, eroe assoluto delle mie serate Napoli, già dichiarava:

Simme state sfurtunate. Chiste hanno fatto 2 tire, 2 gol.

E uno degli spettatori fissi gli rispondeva con una domanda:

Ma allora simme sempe sfurtunate?

Mercoledì torno per le feste al paese degli eterni sfortunati, contenta di riabbracciare i miei e meno entusiasta del tour de force che aspetta chi preparerà piatti che manco mi piacciono, e per 10 persone alla volta: Alessandro Siani in merito ha già detto tutto. Gli sono particolarmente grata, del resto, perché un anno fa tradussi il suo monologo dal napoletano al catalano per un’apprezzata presentació sul Natale a Napoli. D’altronde è tutta una società che è così: ricordo i pochi, timidi tentativi degli uomini di casa di aiutare. Banditi dalla cucina fino alla Befana!
struffoli
Meglio concentrarmi sulla valigia, va’. Ancora non l’ho messa al centro del salottino pezzotto, ma so già che, come sempre, riscoprirò che il corpo può essere un problema. Che la minigonna viola e quella nera (che qui passano beatamente inosservate tranne che per pakistani e italiani) meglio che restino qua. Anche se da più di un decennio non ho l’età per le postegge in motorino (Pppella, ti posso conoscerti?), dalle macchine in corsa a Piazza Garibaldi gridano ancora, magari con una donna a bordo, Bionda, beato chi ti monta!, e vaglielo a spiegare che non è una rima ma un’assonanza.

Ma per farla bene, la valigia, mi basterà ricordare il giorno dei referendum, l’anno scorso, l’ultimo voto di mia zia (classe 1915), quando volevo presentarmi al seggio con una canotta che si annodava sotto la schiena e mia madre m’impose una giacchetta, perché “non le sembrava rispettoso per gli scrutatori”. Non capii mai se non fosse rispettoso avere caldo o avere una schiena.

Ma ho cose più importanti su cui riflettere. Anzi, no, su cui sentire. Perché un’anima saggia mi ha spiegato che pensare, penso bene, quello che non so fare è sentire. Quindi è meglio passare le feste a capire cosa sento sulla serie di progetti che si profilano all’orizzonte per l’anno che viene. Mi è venuta in mente una canzone che non ricordavo da quando uscì, strano quando succede e ti accorgi che ora la canticchi con voce da donna.

Il giardino aiuterà, anche se ormai è distrutto. Quello in cui il nonno allevava galline e suo fratello seminava, così che le galline uscivano dal pollaio e gli mangiavano tutto. Il nonno era laureato, lo zio analfabeta. Gli correggevo i nomi delle piante, per me il napoletano era un errore di grammatica: “Vasinicola”, faceva lui, e io petulante “Basilico”. “Petrosino”, “Ma no, prezzemolo”. E, ovviamente, l’accio. La prima volta che comprai sedano in Catalogna non sapevo come si dicesse in spagnolo, quindi mi avvicinai al fruttivendolo quasi emozionata, con una curiosità tutta nerd di scoprire in un istante il percorso che aveva fatto nei secoli il latino apium. Apio. Non male.

Peccato che gli alberi non ci siano quasi più. I limoni a cui tendevo la pargoletta mano, prima di decidermi a usare l’apposita retina. Resta l’albero di arance. Quello che battezzai.

Avevo appena letto dalle suore un testo su un albero che diceva a un monello (erano sempre maschi) di non spezzargli i rami perché gli offriva frutta e riparo, e decisi che aveva ragione. Quindi, per riguardo verso il mio albero di arance (che in verità mi offriva frutti abbastanza aspri di cui avrei fatto a meno), decisi di regalargli la cosa più importante che mi venisse in mente: un nome. Così presi un gesso e nella grafia incerta che non avrei mai migliorato gli scrissi sul tronco: MARIO.

L’avrei scritto anche di recente, per scherzo, su altri tipi di alberi. Però il nome originale si è stinto chissà da quanto tempo.
Meglio così. L’urgenza dei nomi è una cosa tutta nostra.

E poi sarebbe ora che si chiamasse un po’ come gli pare.

(o forse era Mariù)

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