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N.B: Il titolo è stato scelto nel pieno possesso delle mie facoltà mentali. Chiunque insinui il contrario riceverà notizie dal mio avvocato. Hic.

Ora, dire che il mio mondo italiano è un’istantanea di com’ero prima è senz’altro un’offesa a chi resta. Ma è vero che, una volta atterrata sul suolo natio, tra le varie epifanie c’è quella di rivedermi nello specchio o in un vecchio libro che oggi non leggerei mai (la biografia di Tiziana Maiolo, ne vogliamo parlare?) e di chiedermi cosa cavolo facessi, dov’era la mia testa prima di partire.

Oppure di fare una rimpatriata con gli amici di un tempo e chiedermi cosa diavolo ci faccia, lì, tra dei semisconosciuti che somigliano a gente che conoscevo.

E qui l’istantanea ci sta tutta. Perché, per scandire il passaggio del tempo, non c’è niente di meglio che una cesura, un momento da cui cominciare a contare. E tra le varie cesure possibili (cataclismi o date memorabili, tra cui trionfa l’ultima notte di sesso) il viaggio in fondo è tra le più soft. Anche perché di per sé rappresenta un bivio, un momento in cui tu e gli amici lasciati per strada avete imboccato, per forza di cose, percorsi diversi.

Magari non ti capita con gli amici dell’anima, come si direbbe in spagnolo. Ma scopri dei perfetti estranei in gente che ti stava simpatica, e guardi con occhi nuovi persone che hai sempre ignorato. E siccome per cambiare radicalmente, di solito, ci vuole un trauma o una motivazione forte, i tuoi amici non saranno troppo diversi da quelli che ti sei scelta non troppi anni fa, e nella loro vita puoi leggere ancora, in controluce, sprazzi della tua.

A pochi giorni dalla mia ripartenza, se tiro le somme degli incontri felici o infelici, passando ovviamente per quelli mancati, mi ritrovo a constatare che nei casi sfortunati il minimo comune denominatore è stato la paura. A volte mi sono dovuta rassegnare, e la vita è anche questo, all’idea di non essere più una priorità nella vita altrui, o di non esserlo come un tempo. Altre volte, invece, mi sono ritrovata davanti persone pavide, ambigue, troppo impegnate a rincorrere i loro alibi per rendersi conto che la vita fuggisse altrove.

E in quegli occhi sfuggenti e in quegli alibi ho riconosciuto i miei. La mia antica incapacità di amare che giustificavo con l’inadeguatezza altrui, la volubilità che scambiavo per vastità d’interessi e l’arroganza così facile da indossare per difendersi da ciò che neanche ti minaccia, fosse anche un comune di pace gemellato con non so quale città santa.

E allora dovrei rallegrarmi, immagino, per non avere più paura, o aver imparato a controllarla. Anche se sono un ibrido che ancora si riconosce nelle scuse per non uscire, “con quello che costa la benzina”, che ancora è tentato di sedersi sul ciglio della strada e dire andate avanti voi, io schiaccio un pisolino.

Fortuna che in quel caso la mia unica paura sarebbe davvero quella di non svegliarmi più.

(scherziamoci su)
http://www.youtube.com/watch?v=yc35kMGEkME

(ok, piangiamo senza ritegno)

È da quando sono tornata che mi raccontano storie di amori infelici, di donne che volevano a uno ma la famiglia non voleva, o non voleva lui, e allora si sono sposate con altri ma il pensiero è sempre lì.

La chiamerei pure sindrome di Brooke, dall’eterna innamorata che intanto si passa il resto del mondo. Se non fosse che i fatti risalgono addirittura a prima di Beautiful (cominciato notoriamente con la guerra del Peloponneso). Perlopiù queste vittime dell’ammore sono donne mature, quando sono ancora vive. Ma io ascolto terrorizzata e mi chiedo se in questo il mondo che mi lascio alle spalle decollando da Capodichino debba essere doloroso e immutabile come una tragedia greca. O, peggio, come una telenovela venezuelana.

Forse mi sbaglio, forse succede lo stesso anche alle amiche olandesi, che mi imitano tra il divertito e commosso il loro buffo modo di ballare a 15 anni, e avranno lasciato anche loro un amore impronunciabile in pista.
Magari ne sanno qualcosa anche le Brit, coi loro falò in spiaggia e i martellamenti ai maggiorenni per farsi comprare la birra. E che bevendo la Estrella a Barcellona si chiederanno che fine ha fatto quello della festa di fine anno, incontrato tra la seconda e la terza Forster.

Ma che volete farci, io ho la sensazione che ste cose succedano solo qua, nella provincia denuclearizzata a sei chilometri di curve dalla vita. E mi chiedo se mi sono liberata dal maleficio o me le devo portare nel sangue come la monnezza di 30 anni di mozzarella alla diossina.

Intanto a mo’ di difesa sono scivolata in un delizioso torpore, in cui, come si direbbe dalle parti mie (quelle nuove) me da igual, mi scivola tutto addosso in questo piacevole ottobre un po’ estivo.
Tornare a Barcellona o restare qua, andare con un ex collega di Lettere o enrollarme con un company di catalano, pizza da Di Matteo o da Sorbillo (e questo è il dato più preoccupante).
Forse quest’atarassia godereccia, oltre a un palese ossimoro, è anche un modo di dire a Veneri discinte e Madalene piangenti che stanno bene dove stanno e, senza offese, vorrei fare di testa mia.

La mia frase preferita del Tao Te Ching (ok, l’unica che conosco) è: solo quando ti stanchi della tua malattia te ne puoi liberare.

M’ ‘o segno.

(ci sarebbe anche questa, sconsigliata ai deboli di stomaco)

Valigia già in “cameretta”, biglietto aereo Barcellona-Napoli buttato… Cosa manca? Ovviamente, la frase:

– Mettiti comoda, che ci mettiamo a tavola.

È una parola! I panni per casa dovrei portarmeli da Barcellona, ma mi scoccio. Risultato? Dall’armadio mi si rovescia addosso una valanga d’anni sotto forma di veri e propri reperti d’epoca (perfino una giacchina batik di quando avevo una pancia da mostrare!).

I miei criteri di salvataggio panni sono stati dei più irrazionali, ripesco maglioni slabbrati accanto a camicie evidentemente comprate sotto effetto LSD. Ditemi che sta gonna me l’hanno regalata…

Alla fine riemergo vestita da museo ambulante: sopra, la T-Shirt con su la poesia del primo fidanzatino, che adesso forse si vergognerebbe di aver usato davvero la parola provvida. Ma è molto tenera, e poi il doppio cuore (!) si abbina alla gonna. Tra le prime un po’ zingare prodotte da marche “serie”: Garibaldi, dunque, aveva appena avuto il morbillo. Sopravvissuta ai miei lavaggi sperimentali in lavatrice, ha visto l’assurdo primo viaggio a Barcellona (“Ma, Maria, hai mai pensato davvero a come potrebbe essere, tra noi?”, “Non so… Bellissimo?”) e l’ancor più assurdo secondo viaggio (“Perdonas, dondes podemos mangiar una buenas paellas?”, “En Valencia!”).

Aggiungici gli orribili infradito gialli che il primo amore a distanza si chiedeva “perché non avessero successo”, e il quadro è completo.

Mi diverte, rimettere i panni di questa ragazzina tirchia ma non troppo, insicura al punto di non mettere mai colori sgargianti, ma non abbastanza da risparmiarsi magliette scollate (da riempire, immagino, con quei terribili push-up che ti strangolavano tipo bustino dell’ ‘800).

Eri proprio un’idiota, le dico affettuosa, guardandomi allo specchio.

E vorrei ancora il suo ventre piatto.

La sua incapacità cronica di campare gliela lascio in fondo all’armadio, sperando che non ci esca più.

E va bene, ho paura.
Domani torno a Barcellona, e Barcellona non è più lei. Quando cambia lo fa all’improvviso, e completamente. In 3 giorni ti toglie amore, lavoro e rispetto. E te li ridà quando le pare.
Ora mi aspettano il collocamento e un documento da rifare. Qualche manifestazione per gli italiani feriti allo sciopero generale, già additati come anarchici sovversivi. E curriculum da inviare. E qualche cena sul balcone.
Queste vacanze sono state una parentesi tra due punti interrogativi, la Barcellona che era e la Napoli che non sarà mai.
Però Napoli sì che è sempre lei.
Me la sono girata un po’, oggi, approfittando della mia nuova puntualità e del ritardo altrui. I venditori della Maddalena stanno migliorando, sono passati da “Pssst” a “Scarpe, bella?”. Marocchini e napoletani se la giocano, con l’italiano. E io ho imparato a restituire gli sguardi.
Forcella è sempre unica. Sulle scale del quartiere mi scopro a cantare la hit di una vita, “nun ce credo, ca ce sta, doppo ‘e te che fa ‘nnammura’”, ma decido di aver fede grazie al Padre Pio fuori al “mio” portone. Sgarrupato come sempre (il portone).
In Vico della Pace c’è una graziosa.
La scritta “Annalisa Durante” mi ricorda la madre del suo assassino, intravista proprio intorno alla scuola. O quando incendiarono i computer e l’odore mi arrivò fino al balcone.
Quasi su via Duomo la sorpresa: una mostra in bianco e nero sui quartieri di Napoli. È l’America’s Cup, spiega Vincenzo, incontrato per caso fuori alla cartoleria di fiducia.
Annuisco mangiando la sfogliata di Scaturchio. Alla cassiera sono riuscita a non dire hola, solo “una frolla”. E a lasciare i soldi nel piattino. Altrove li dai in mano a chi ti serve.
Altrove.
Quando il treno mi riporta in paese intravedo anche la mia, di scuola. Cerco l’insegna e trovo me, seduta al banco, a inseguire treni invece di scrivere. Allora mi assegno una frase in inglese, una che per gli inglesi è proprio difficile da pronunciare:
I have a girlfriend.
Poi cancello e scrivo:
It’s a sunny day.
E giro pagina.

Ora lo so: Barcellona mi ha insegnato a dormire. Mi ha insegnato anche il catalano, il gazpacho (anche se è andaluso) e l’indipendenza. Ma soprattutto a dormire.
Ieri me l’ha detto anche papà, che per festeggiare il mio ritorno pasquale si è preso un giorno di ferie: “Adesso non ti alzi la notte e non resti con la luce accesa per ore”. (Ha aggiunto pure “sarà la vecchiaia”, ma lasciamo perdere.)
Oddio, la luce è meglio spenta, che la mia “cameretta” è diventata un museo. Un ripostiglio, anche: se tornassi senza preavviso dovrei farmi strada con le ruspe. Ma ci trovo anche 30 anni di storia, compresi i capitoli che strapperei dal parato ingiallito, dai libri tradotti che non guardo più.
È un confronto con la bimba leziosa che ha scelto i fiorellini alle pareti e collezionato le bomboniere più atroci. Mi domando come sia arrivata a 31 anni senza che la prendessero a badilate. Ma del seNo di poi son piene le fosse, e solo quelle: il cassetto coi residuati bellici della Wonderbra non finisce mai di stupirmi.
Comunque la nuova protagonista è lei, la poltrona. Di un moderno ammiccante al rétro, struttura in legno e rivestimento rubino. Regalo di un paziente di papà, che quest’anno ha portato pure il poggiapiedi. Me l’hanno piazzata tra letto e terrazzo, come sfida costante alla mia pigrizia. Prima leggevo distesa sul balcone, tra le foglie del nespolo che non c’è più e le urla dei vicini, aumentate dalla nuova prole.
Ora mi schiaffo lì, e avvicino pure il tavolino IKEA, risarcimento del lettino pieghevole sequestrato ormai da anni. Ci metto su i miei libri schizofrenici, tra Brontë junior e Roberto Bolaño.
E tra le cime tempestose e i detective selvaggi mi addormento. Come ieri.
Mi sveglia un vortice d’immagini e voci, un album di figurine che non so riordinare. Rivedo i nuovi acquisti della famiglia, che a 6 o 10 anni parlano tanto inglese ibrido e pochissimo napoletano, e taggano e cliccano ma friarielli si dice “friggiarelli”. Rileggo gli auguri di non so che vescovo, nell’italiano pomposo di chi non lo conosce.
Parliamo sempre la lingua dell’ultimo conquistatore, ricordo stiracchiandomi, e mi rendo conto che non so più se sto a Barcellona a sognare di Napoli, o il contrario.
Decido che sto nella Terra di Nessuno, in cui ho 5 anni e il parato a fiorellini, 15 e un Wonderbra soffocante, 31 e l’assegno di disoccupazione (forse).
E che a volte si devono fare i chilometri per tornare a una poltrona che manco esisteva ed essere proprio io, ancora una volta.
La prima volta.
– Maria, vuoi il caffè?
– Arrivo!
Manco mi piace, il caffè.

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