artetera.blogspot.com

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Le coincidenze. Per qualcuno non esistono. Per altri è tutto coincidenza. Altri ancora comprano una vocale e vanno avanti senza farsi troppe domande.

Ma qualche settimana fa leggevo per farmi venire sonno, un’impresa improba nella quale raramente riesco. Stavolta, però, ce l’avevo fatta sulla soglia del capitolo della donna scheletro. Cazzo leggi, chiederete voi. Niente, il solito Donne che corrono coi lupi. L’ho tenuto a impolverarsi per anni, dopo che avevo abbandonato la fase zen, e adesso che so cosa farne lo leggo e rileggo volentieri. Anche perché io che sono da romanzone di 800 pagine ho finalmente scoperto la bellezza del racconto. Meglio se favola, mito.

Quella della donna scheletro è molto bella.

Parla di un pescatore inuit, comincio da lui anche se non va così. Un tipo molto solo che, un giorno che sta in mare, crede di aver preso un pesce molto grosso. Tira, tira, ma non viene niente a galla. Finalmente, con uno strattone, gli piomba sul kayak la donna scheletro.

Era una ragazza del villaggio che aveva disobbedito a suo padre, che senza tanti complimenti l’aveva gettata in mare.

E ora eccola lì a dibattersi spettrale e mostruosa nella rete del pescatore.

Che, senza pensarci su due volte, la ributta in mare e ci dà sotto coi remi. Ma lei resta incastrata con tutta la lenza sotto la barca, e finisce per inseguirlo fino a casa. Lì il pescatore la vede e, improvvisamente, si muove a pietà. La sbroglia dalla lenza, lascinadola in un cantuccio, e va a dormire. Nel sonno, gli cade una lacrima, come succede a volte a chi dorme.

Allora la donna scheletro si avvicina, presa da una strana sete, si corica nel letto con lui e beve la lacrima. Poi gli strappa il cuore e canta “carne, carne, carne”. E man mano che canta le sue ossa cominciano davvero a ricoprirsi di carne viva, ricrescono gli organi, la pelle, i capelli. Allora rimette il cuore nel corpo del pescatore, e si risvegliano aggrovigliati, stavolta fra loro.

Ora, lo so che io la racconto una chiavica, ma è bella quasi quanto il complicatissimo messaggio che ci vede la narratrice: l’amore ci delude. Vorremmo che fosse grosso e grasso come un pesce, che ci sazi per un po’ senza troppi sforzi, conquistato in un solo colpo di lenza. Invece peschiamo la donna scheletro, che non è altro che il ciclo della vita e della morte. Quasi tutti, a questo punto, scappano. “Non è come pensavo, vado a pescare da un’altra parte”. Non troveranno mai quello che cercavano.

Per trovarlo bisogna restare fermi lì. Aspettare, pazienti. Districare la donna scheletro dalla rete, guardarla, piangere di compassione per sé e per lei. Accettare che l’amore è fatto di tante piccole morti, e ritorni alla vita. Solo così l’avrai conosciuto.

Sì, ma non l’altra notte, davvero, ero stanca e avevo sonno. E poi, che tenevo a vede’, cosa aveva a che fare con me questo racconto.

La sera dopo andai al Festival Ornitorrinco, organizzato dal mio amico Jordi Pèlach. C’erano Tenedle, i Ual·la e un sacco di altra gente che non ricordo, perché nonostante tutto arrivai stanca e presi la metro presto. Però ricordo le due ragazze che salirono sul palco a raccontare storie. La figura del cantastorie in Catalogna si porta assai, ed è interessante, anche. E queste, nonostante i microfoni artigianali, raccontavano bene. Non tanto la prima storia, che pure era bella, disegnata su un lungo foglio di carta che le due facevano scorrere piano tra le dita.

La seconda, dico. Indovinate qual era, recitata pedissequamente come sta nel mio libro:

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