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Traduco (male, come sempre) questo breve articolo d’opinione della scrittrice Nuria Labari, pubblicato su El País otto giorni prima che Pepe Rubiales si dimettesse, questa domenica 10 settembre, come presidente della Federazione spagnola di calcio. Nonostante le criticità rilevate anche da osservatrici italiane, la legge di libertà sessuale, detta legge del solo sì è sì, ha provato a definire i termini del consenso e a mettere al centro le intenzioni dell’accusato, invece di limitarsi a far ricadere sulla presunta vittima l’onere di dimostrare la violenza.

Il consenso (e il solo sì è sì) dopo Rubiales

Da Flashcore.es

A volte le leggi non sono importanti solo per ciò che sanzionano, ma anche per ciò che comunicano. E questa comunicazione è imprescindibile per la vita civile e per convivere civilmente. Dunque la missione di una legge non è solo penale e coercitiva, ma ha anche una funzione comunicativa e pedagogica. In questo senso, quando giudichiamo la legge del solo sì è sì per i risultati coercitivi, dimentichiamo l’altra questione fondamentale di qualsiasi legge, che era ciò che comunicava e dove situava il suolo morale delle violenze commesse contro le donne. E questo, alla luce di quanto accaduto con l’abuso di Rubiales, è qualcosa che è cambiato in questo paese.

Finalmente abbiamo messo al centro il consenso.

È vero che il Codice penale del 1995 puniva già qualsiasi atto sessuale realizzato senza il libero consenso della vittima, ma la legge del solo sì è sì ha stabilito, per la prima volta, che ci sarà consenso solo “quando sia stato manifestato liberamente mediante azioni che, in considerazione delle circostanze del caso, esprimano in modo chiaro la volontà della persona”. Questa definizione del consenso è parsa a molte persone innecessaria, poiché poneva un problema probatorio: è difficile distinguere quando esiste o meno consenso in campo sessuale. E in effetti, in una società che non fosse profondamente maschilista, la linea del consenso potrebbe incrociare molte zone grigie. Tuttavia, la legge ha costituito un grande avanzamento in questo senso, perché il problema per molte donne spagnole è che vivevamo in una società così profondamente maschilista che era capace di tollerare e consentire l’esistenza di tipi come Luis Rubiales, fino a trasformarli in una specie di psicopatici socialmente accettati, cioè in uomini che aggrediscono le donne e abusano di loro, e sono, allo stesso tempo, incapaci di riconoscere il danno arrecato alle loro vittime. Il genere di uomo che bacia senza chiedere. E dopo, nel caso venisse biasimato, risponde tutto abbattuto che si è trattato solo di un bacio a stampo. E qui la parola bacio si può facilmente sostituire con la parola penetrazione nella mente del maschilista o dell’aggressore, se si dà il caso.

Perché il Rubiales di turno mette sempre al centro le sue intenzioni, il suo desiderio, la sua volontà, la sua euforia, i suoi interessi. La novità questa volta è che Luis Rubiales ha affrontato una società che da quasi un anno riflette e dialoga sul concetto di consenso, e questo dialogo, che spesso è un dibattito acceso, sebbene non ci abbia fatto trovare un accordo su tutto, ci ha aiutato però ad arrivare in buona forma teorica, in materia di consenso sessuale, al Mondiale di calcio femminile. È vero che prima del caso Rubiales le definizioni di consenso spaziavano tra quelle teoriche, giuridiche, politiche, civili. Ma questo caso è stato una sorta di esame pratico che abbiamo superato a pieni voti.

Esigere legalmente il consenso esplicito in campo sessuale può risultare confuso ed esagerato, ma diventa chiaramente necessario quando è un uomo maschilista a interpretare i limiti di tale consenso. In tal senso, Rubiales ci ha aiutato a chiarire l’opinone della maggioranza: la Spagna non tollera uomini che non collocano il consenso al centro delle loro relazioni sessuoaffettive. Il consenso deve occupare dunque il posto che gli è dovuto nella convivenza civile, e solo così i “maschilisti arroganti” occuperanno definitivamente il loro.

Traduco, come sempre “a sentimento”, questo articolo di opinione del giurista Octavio Salazar, comparso sull’edizione online di Público il 27/08/23.

Da infobae. Scusate se in foto voglio mettere lei.

In questi giorni il caso Rubiales ci sta dimostrando che la società spagnola è cambiata molto, e in meglio. L’azione instancabile delle femministe e l’impulso politico che ha individuato determinate questioni nel dibattito pubblico – come, per esempio, la centralità del consenso nell’approccio giuridico alle violenze sessuali – hanno contribuito al fatto che azioni e comportamenti che fino a pochissimo tempo fa erano irrilevanti diventino ora intollerabili.

È il dato più positivo che possiamo ricavare da eventi che ci stanno dimostrando, come se fosse la lezione base di un manuale di studi di genere, come la mascolinità è stata e continua a essere uno strumento di potere, un artefatto culturale e politico sempre più eroso e messo in discussione, il che sta provocando reazioni da parte di uomini offesi e furibondi. Si tratta di una contestazione che è parte centrale del discorso dell’estrema destra che avanza in tutto il mondo, e che incontra terreno fertile sui social, dove assistiamo alla crescita pericolosa di ciò che le esperte chiamano ‘manosphere’: un termine con cui oggi nominiamo la misoginia di sempre, che però ora viene proiettata sugli schermi, a loro volta in mano a poteri maschili.

Le reazioni di Luis Rubiales, e in particolare il modo in cui ha articolato il suo discorso nell’Assemblea della Federación Española de Fútbol, rispondono fedelmente alle esigenze di un mandato che è costruito sull’idea di dominio, e sulla negazione della soggettività e autonomia femminili. Allo stesso tempo, questo mandato è bisognoso del sostegno dei “confratelli” [fratría], in una specie di performance riaffermativa e celebratoria.

È così che, nella lunghissima storia del patriarcato, è venuto fuori con insistenza ciò che Celia Amorós denominava “patti giurati tra maschi”, dei quali fanno parte, come abbiamo potuto ben vedere in questi giorni, le complicità silenziose e le comodità dietro le quali noi uomini ci siamo abitualmente trincerati, beneficiando sempre, benché in modi diversi, dei rapporti asimmetrici con le donne. Il desiderio di dominio, che è anche desiderio di possesso, si proietta singolarmente sui corpi e la sessualità delle donne. È da lì che sussiste ancora oggi una delle frontiere che definiscono il polso di un regime, quello patriarcale, che non vuole saperne di sparire.

Il problema che abbiamo dunque con la mascolinità, intesa come ‘megastruttura’ culturale e politica che ci definisce in maniera personale e collettiva, è un problema politico. E lo è perché ha a che vedere col potere, coi (dis)valori associati alla mascolinità stessa, e coi meccanismi che per secoli hanno mantenuto noi uomini come la metà privilegiata dell’umanità: coloro che definiscono l’umanità e gli amministratori dei beni e delle opportunità, i re della casa e i principi della città, coloro che di solito non hanno avuto nessuno scrupolo a usare vilmente le donne come scudo, o coloro che hanno usato con frequenza la strategia di trasformare le vittime dei loro abusi nelle “femmes fatales” che avrebbero distrutto le loro vite.

Non ci bastano le soluzioni individuali o la buona volontà dei singoli, ma è urgente una trasformazione sociale che metta il dito nelle piaghe dei poteri – inclusi, non lo dimentichiamo, quelli economici, che sono quelli che dettano legge – e che costruisca una cultura di emancipazione: niente di più e niente di meno di ciò che da secoli cerca di fare il femminismo, non quello “buono” o “cattivo”, ma l’unico*, che a sua volta si proietta in centinaia di ramificazioni che partono dallo stesso tronco. È un orizzonte che sarà possibile solo se, insisto, cominciamo a rompere questi patti che ci sostengono e fomentano: un compito che tocca singolarmente a noi che in maggior o minor misura beneficiamo di tali patti. Dobbiamo svolgerlo intanto che impariamo a riconoscere il valore e l’autorità delle donne, in quanto soggetti che ci equivalgono in qualsiasi ambito umano, e per i quali non dobbiamo continuare a essere il punto di riferimento a cui aspirare.

Oltre a quanto detto in precedenza, il caso Rubiales dovrebbe farci riflettere anche sulla necessità di non aspettarsi troppo dalle soluzioni che possano venire dal Diritto Penale. Va da sé che, se le azioni del personaggio in questione hanno gli estremi per una denuncia, e si agisce per vie legali, la legge dovrà essere applicata con tutte le sue garanzie e conseguenze. Tuttavia, quando parliamo di questioni relative alla cultura che abitiamo e che ci abita, la risposta dovrebbe provenire dalla comunità, dalla reazione della società e dagli effetti pedagogici che possano tenere i limiti e i freni posti a partire dall’esercizio delle responsabilità pubbliche. Pertanto le possibili sanzioni, come ad esempio il ritiro del sostegno economico, devono avere più valore per le conseguenze negli immaginari collettivi, che per il livello di punizione che costituiscono. Ricordiamoci una volta di più che il Diritto Penale non ha mai contribuito a una maggiore uguaglianza, e nemmeno a una maggiore giustizia sociale.

Il caso Rubiales ci sta insegnando, inoltre, che noi uomini abbiamo davanti un lungo processo di apprendimento, però anche di dis-apprendimento di tutto ciò che il maschilismo ha convertito per noi in punti di riferimento e aspettative. È un processo che dev’essere accompagnato da un impegno militante e pubblico che, come minimo, ci faccia prendere le distanze, come finalmente hanno iniziato a fare alcuni calciatori, da coloro che ancora si prodigano a imporre la legge del più forte. A patto che, ovviamente, questo impegno non obbedisca alla necessità di ricoprirci con la gloria del politicamente corretto o delle “nuove mascolinità”**, ma che risponda alla necessaria cooperazione che le donne reclamano da noi per rendere questo mondo più giusto ed egualitario. E questo passa, per forza di cose, per il coraggio di guardarci allo specchio e iniziare a smontare il Rubiales che tutti, in maggiore o minor misura, portiamo dentro di noi.

*Anche a queste latitudini, molti benaltristi e lo stesso Rubiales distinguono tra un femminismo buono, come quello che esigerebbe “la parità” (che per questi uomini spesso significa ignorare il lavoro di cura gratuito e risparmiarsi l’assegno di mantenimento), e uno cattivo, costituito da ragazzine capricciose che pretendono addirittura un’adeguata legislazione sul consenso, o la distribuzione paritaria del lavoro di cura. Che tempi.

**Per me il politicamente corretto è uno spauracchio delle destre, e quanto alla critica delle nuove mascolinità… Público è un po’ tankie, e i contributi femministi mi fanno spesso cadere le braccia. Ma abituata agli standard italiani trovo facile continuarlo a leggere.

Di Carlos Delgado – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36236931

Ieri, con un amico scozzese, abbiamo scherzato sull’opportunità di guardare insieme la finale degli europei: lui avrebbe tifato Italia, io Inghilterra.

Visto? Non si tratta di gufare, ma di sostenere la squadra che sentiamo più vicina! Ok, l’amico sostiene che “proprio non può tifare Inghilterra”, anche se questa, per lui, è la formazione più difficile da schifare di sempre. Quanto a me, devo molto a Manchester, dai Take That in poi, e soprattutto sono rimasta disgustata dalla soluzione democristiana al “dilemma” di inginocchiarsi: sintomo di un paese dispostissimo ad avere il prosciutto sugli occhi, purché sia San Daniele.

In generale, il calcio mi rievoca al massimo una lontana partita in pineta con amici di famiglia, in cui un terzino quarantenne sollevava da terra mio fratello di otto anni, per rubargli la palla! Un po’ poco per farmi amare il tifo, che è anche una questione di identità: non vi dico le pagine di italiani all’estero, come si stanno fomentando in queste ore! In un posto in cui diventi all’improvviso minoranza, certe insicurezze si affrontano in due modi:

  • lavorandoci su ogni giorno;
  • facendo quadrato e sfottendo il resto del mondo.

Indovinate qual è la soluzione più facile? In fondo anche il mio insulto preferito a questo genere di espatriati, che per la cronaca è “fasciobeghini”, fa parte di una strategia identitaria: mi prendo il meglio di ciò che per me è stata l’Italia, e me lo godo nella mia nuova casa.

Lo so, la nazionale pretende di unire “tutti”, e vi auguro che sia così! Al momento unisce di sicuro le mascolinità fragili che, giorni addietro, hanno bombardato la pagina di un attivista che si limitava a chiedersi: quanto è facile, per gli uomini cis etero, occupare spazi pubblici per festeggiare? Siamo proprio all’ABC del concetto di privilegio: non è una colpa, tuttavia continua a offendere identità scolpite nella roccia, ma piuttosto soggette a sgretolarsi alla prima scossetta.

Vabbè. Domenica, se l’amico scozzese mi dà buca, mi farò una passeggiata rilassante anche per questi qua.

(L’unico calcio che aunisce la paranza!)

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