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“Quando smetteranno d’insozzare le strade di questa città?”.

Questo il messaggio di un tipo su una pagina francofona di Barcellona. La foto che accompagnava il post inquadrava due manteros, gli ambulanti africani che vendono oggetti vari su lenzuola che poi richiudono in fretta, all’arrivo della polizia. Le donne sono meno numerose e spesso fanno treccine, specie alle turiste: l’appropriazione culturale passa in secondo piano. A volte gli uomini aspettano la clientela con in mano già le corde che, con uno strattone, trasformeranno la “bancarella” in veri e propri sacchi giganti, da caricarsi in spalla nella fuga. Il loro sindacato ha fomentato una piccola impresa, Topmanta: una bella iniziativa di cui apprenderete i particolari nel video sotto: ho scritto per un’intervista, ma non mi hanno risposto.

Specie sulla strada della Barceloneta, i manteros occupano uno spazio notevole, e dal vicinato si lamentano, signora mia: ma la questione, finora, si è sempre discussa in termini di minaccia al commercio locale, e soprattutto di spazi pubblici da riprendersi.

L’altra sera in Italia, in nome degli spazi pubblici, degli studenti hanno interrotto Capossela per qualche minuto, per richiedere alla Lega di non riservare una piazza cittadina solo a chi avesse dai trenta ai cinquanta euro per un concerto: un’operazione che potete benissimo non condividere, ma che per un giornalista quarantenne di Rolling Stone è diventata il capriccio di una generazione che pretende “musica gratis” (i disturbatori non hanno mai preteso che il gruppo non venisse pagato, leggete il comunicato).

Ecco, magari questo ci insegna due cose: ad approfondire certe versioni piccate di episodi tridimensionali; a non prendercela con le persone sbagliate, che sia per i vent’anni che non torneranno più, o per il piccolo particolare che oggi puoi essere ilegal solo perché non sei nato nel posto giusto.

Ma niente, questo francese che come me è arrivato con la carta d’identità europea era esasperato dalla plebaglia che si frapponeva tra lui e la spiaggia, che gli “insozzava” il percorso.

Per fortuna gliene hanno cantate: ho contato ventuno commenti, perlopiù di connazionali che gli facevano notare che si lamentava del soverchio. Io sono intervenuta solo quando ho letto uno che scriveva che i manteros “almeno” lavorano, “non come i pakistani che vendono droga”.

Ora i pakistani, la stragrande maggioranza, si spaccano il culo come ‘sto tizio per fortuna non farà mai, a stipendi che questo tizio, con ragione, rifiuterebbe sdegnato. Solo che loro, per non essere cacciati a pedate, devono dimostrare a tutti i costi di avere un impiego, e c’è chi ne approfitta. Lì dunque ho fatto notare che io non chiamavo razzisti “i francesi” in generale, solo perché qualcuno di loro la pensava come l’autore della foto: per un’italiana all’estero, di questi tempi, è anche dura dare del razzista al prossimo…

Poi ho fatto quello che già vi dicevo qui: invece di sbattersi, segnalare il post.

Perché sprecare parole quando si è di fronte a una palese ingiustizia? La frase non intavolava un comprensibile dibattito su spazi pubblici e licenze di vendita, ma dimostrava disprezzo puro, e un razzismo neanche tanto velato.

Il tempo di andare a prendere un bicchiere d’acqua, e ho scoperto che i moderatori avevano cancellato la discussione.

Semplice. Non perdiamo tempo, non amareggiamoci.

Ricordiamoci di ciò che è giusto, e agiamo di conseguenza.

Magari si trattasse sempre e solo di un click.

 

 

 

 

 

Risultati immagini per albaicin granada È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che la sottoscritta entri nell’Albayzín di Granada, e ne esca viva.

Specie se seguo i consigli del mio navigatore per raggiungere un posto che, ho scoperto poi, si trovava facile svoltando a un certo punto della Gran Vía, su un vero marciapiede.

Adesso mi direte: “E grazie al cazzo, quello calcola la strada senza tener conto di…”, e giù spiegazioni elaborate su come funzioni Google Maps.

Fatto sta che, finora, ci ho trovato solo La Tienda de los Unicornios, e giusto perché serviva latte vegetale. Ma era un bar centrale e idiota da raggiungere, con un unicorno nell’insegna, un solo tavolino e Vinicio Capossela a palla: Medusa cha cha cha, per la gioia dell’amico spagnolo che mi associa a questa canzone, in cui la creatura mitologica si chiede perché i ragazzi abbiano tanta paura di lei (un mistero che, nel mio caso, ancora devo risolvere).

Non sono mostra, non sono velenosa, soltanto un po’ nerviosa…

Dieci anni dopo, mi ritrovo a cantarla tra le strade del quartiere arabo di cui sopra, l’Albayzín, o Albaicín per i pigri: oscenamente bello, ma tutto in salita e lastricato di ciottoli impossibili. Roba da togliersi le ballerine di Natura messe insieme con la sputazza – benché acquistate ancora con l’etichetta da una vicina che traslocava – e indossare “eleganti” infradito sotto gli sguardi impietositi di passanti in scarpe da ginnastica, o scarponi di montagna (33 gradi all’ombra permettendo).

E tutto perché il navigatore, mi sa, ha fatto lo stesso errore madornale che ho commesso io per anni e anni: ha confuso la strada più corta con quella più breve.

Magari coincidessero. Magari fossi arrivata a destinazione, le volte in cui sono stata così “furba” da prendere le scorciatoie giuste, calcolare tutto al dettaglio. La volta che per “rientrare nell’accademia” ho discusso una tesina di master in un anno solo, mentre lavoravo, e sono rimasta tagliata fuori per aver preso 8 invece di 10. O tutte le occasioni in cui mi sono detta: “Dai, c’è qualche problema, ma col tempo che ci hai messo per arrivare fin qui, perché smettere?”, per qualcosa che è finito comunque, e dopo un altro bel po’ di “problemi”.

Sta’ a vedere che anche i miei percorsi, come le ballerine di Natura, sono attaccati con la sputazza, neutralizzati dal particolare che manda tutto, mo’ ci vuole, “a monte”: un’ostruzione imprevista, una perdita di segnale, o tre strade di fila senza che nessuno si sia preso la briga di scriverne il nome almeno sul muro (pure loro, però…). Il peggior errore nel pianificare percorsi è quello di dimenticare che noi siamo solo un fattore del viaggio, in balia di mille altri eventi.

Compreso l’errore umano: il giorno dopo la sfacchinata, non mi mettevo d’accordo con l’amico che mi aspettava (lo stesso della sera prima, perseverare diabolicum…) su cosa significasse “fuori la Porta di Elvira“, e l’equivoco mi era già costato due scalate inutili.

In questi casi, sentite a me, fatevi venire a piglia’.

 

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