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Grandi Jackal

Solo una cosa: se a uno lo sfottono tutti, alla fine lo votano.

Come il Grande Fratello: se c’è una concorrente sfigata, vincerà quella. Non credo che i due fenomeni siano separati, in un mondo in cui se nasci in una famiglia povera difficilmente arriverai alla corona inglese in due generazioni (come è successo a una tizia ultimamente). Se chi ha studiato e si crede intelligente comincia a sfottere selvaggiamente un personaggio pubblico impresentabile, che sia un televoto o una berlina mediatica, o un’urna elettorale, scopri che per la maggioranza dei votanti quello fosse la vittima e i “professoroni” i carnefici.

È un topos eterno: la rivincita dello scornato sui suoi assalitori. Una storia che va da Giobbe a Ulisse, anche loro non proprio dei poveracci.

Mentre in tanti seguivano quella fiction in diretta che erano le elezioni americane, io l’avevo abbandonata in mancanza di qualcuno per cui “tifare” (per il meno peggio non mi disturbo), e stavo guardando una serie vera: The People vs O.J. Simpson.

Un processo per duplice omicidio che è diventato uno scontro tra storie.

La pm era così sicura che i fatti parlassero da sé che ha puntato tutto su quelli. Sul DNA delle vittime. Sul guanto dell’assassino, che Cuba Gooding Junior indossa con uno sforzo ben più credibile, rispetto all’O.J. che ha imparato a recitare nei film con Leslie Nielsen.

E invece l’avvocato della difesa, l’attivista afroamericano John Cochran, su cosa ha puntato? Su una storia altrettanto vera, orribile, sacrosanta da raccontare: quella dei diritti dei neri, calpestati da sempre, calpestati ancora, in America e altrove.

Tra due storie ha vinto la migliore, quella con pochi fatti correlati al delitto in questione, ma con secoli di tradizione.

Cosa ci ricorda? A me l’avvocato nero (ma di madre bianca) che finisce dall’essere scambiato per un cameriere a diventare il primo presidente afroamericano. Partendo da una campagna per le primarie (contro quello squalo di Hillary Clinton), fatta di incontri in piccole stanze e biscotti sfornati da sostenitrici sempre più numerose. E gli abitini da grande magazzino di Michelle, presto imitata dalle principesse europee di origine borghese. Non si leggeva niente di così avvincente dai tempi di Cenerentola.

Vincono le storie. Anche “noi che abbiamo studiato” veniamo da un altro mito, ripetuto così spesso da diventare realtà: i libri insegnano la vita. E la bontà. Come sapevano quei condottieri romani che recitavano Omero a memoria, mentre facevano il deserto e lo chiamavano pace.

Visto? Vincono le storie.

E allora smettiamo di fingere che i fatti bastino, e proviamo a raccontare quelle.

Ma che siano storie che ci aiutino a capire. Come quelle raccontate ai bambini a scuola contro il razzismo, prima che i loro genitori insorgano contro il compagno rom. O quelle che insegnano loro a non avere mai paura né vergogna di quello che sono e che amano, prima che vengano proibite perché costituiscono il nuovo babau: il GENDER.

Proviamo a capire le paure che portano a votare un impresentabile se dall’altra parte c’è l’esponente di egemonie rivoltanti, sostenuta da un’intellighenzia complice.

Il mio bisnonno, operaio socialista che scioperò quando scomparve Matteotti, credeva nell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, ma diceva: “‘E libre so’ comme ‘e muntagne”.

È il caso di smetterla di trincerarvisi e di calare qualche corda, non trovate?

Oppure ci faremo sempre la guerra.

E vincerà il peggiore.

paginebiancheÈ da un po’ che ogni volta che finisco un quaderno, un’agenda, un diario, mi accorgo sempre di aver lasciato due pagine bianche alla fine, giusto prima dell’ultima pagina.

L’ho fatto pure con l’agendina di un amico, che me l’aveva prestata perché appuntassi un bel testo che mi dettava. Alla fine, strappando i fogli dall’agenda, mi sono accorta di avergliela decimata.

Io capisco che, a questo punto, lo sticazzi sia in agguato. Ma ultimamente sono più strana del solito e cerco un perché a tutte le cose, come se non avessi imparato abbastanza che sapere i perché non serve a niente.
Irriducibile, sono andata su google e ho cercato in varie lingue “lasciare le pagine in bianco”. Non ho trovato una ceppa di spiegazione, ovviamente, ma il testo più carino era in inglese, una complicata descrizione su come ottenere pagine bianche da un documento digitale, “per iniziare un nuovo libro”.

Allora ho pensato che stessi cercando di fare la stessa cosa.

Sto scrivendo un libro di pagine bianche.

Prima e dopo c’è la strage di parole, i miei dubbi pensieri ossessioni e i soliti perché, perché, perché.

Poi giri pagina e ti ritrovi questo bianco perfetto.

La giri ancora e c’è l’ultimo peana a una ragione che mi serve ogni giorno di meno.

Ma il libro delle pagine bianche si fa strada imperterrito, col suo bianco perfetto, tra i fiumi di inchiostro e parole, beandosi della sua intonsa quiete.

No, qui sbaglio. Quiete non so, c’è bianco e bianco. E non mi riferisco solo ai quaderni in carta riciclata di Fnac, o alle setosità inedite di qualche agendina di lusso comprata per capriccio.

È proprio la qualità del non-testo a cambiare agenda dopo agenda, mese dopo mese.

Mi piacerebbe imparare a decifrare il mio libro delle pagine bianche, l’inchiostro simpatico che immagino contenga la mia vita e la vostra e tutti i perché che possiamo immaginare per trastullarci invece di vivere.

Ma comincio a pensare che non me li svelerà mai.

O forse comincio sul serio a sperarlo.

http://www.youtube.com/watch?v=KdrrnZs62mU

Copertina provvisoria

Ho finito il libro e ho capito due cose.

Una è che non si finisce mai. Ma lo sapevo anche quando alzai gli occhi dal PC, nell’aula dottorandi della Facultat de Geografia i Història, e dichiarai: “Ho finito la tesi”.

Partì un timido applauso e qualcuno mi chiese perché, seduta lì da cinque minuti, avessi finito la tesi di dottorato giusto in quel momento. Perché, spiegai, mi mancava solo da copiare una citazione, e pure macabra, su una francese linciata dalla folla perché sposata a un tedesco (era la Grande Guerra). E l’avevo voluta mettere lì. Ma sapevo, come si diceva, che non era davvero la fine.

Anche quando ho chiuso il quaderno, oggi, sul balcone, sul cornetto al cioccolato che è la parte migliore del libro. Sapevo che la parte più difficile cominciava adesso. Renderlo decente, un libro vero. E questo ci porta alla seconda scoperta.

Che ogni rigo che scrivo, ogni frase, è una lotta contro la banalità. Contro le coincidenze scontate, le interruzioni a proposito, la radio che trasmette il lento quando si sta per pomiciare e le porte che si chiudono proprio su quello che è d’uopo scoprire qualche capitolo più in là.

Ma non solo. Confesso che ho vissuto, e ho vissuto in un’epoca banale. Per fortuna. Di guerre e di crisi, e anche di Bim Bum Bam, giornaletti condannati e poi rivalutati, e tempi comici da Drive In, poi Zelig, passando per gli strepitosi cammei della Gialappa’s.

Tutto questo sono io, e non posso farne a meno, né voglio. Ma quando scrivo si fa sentire tutto, e allora cerco di sfuggire a un’ovvietà a cui ho detto tante volte sì nella vita reale. Quando ripetevo tormentoni che su un foglio Word stanno come il cavolo a merenda, quando la passione per il trash mi portava a contaminazioni linguistiche che lascio volentieri agli autori pulp.

Insomma, è una guerra tra trincee a quadretti che ora si trasferisce sui vari borradores, i documenti di bozze, di Word, che mi ostino a mantenere in spagnolo.

Una guerra persa che però combatterei daccapo, ogni giorno, premiando vincitori e vinti (sempre io) con lo spuntino di samosas e dolcetti arabi che adesso mi fa da trofeo.
Se anche, in un mondo parallelo, ne conquistassi altri, non sarebbero altrettanto squisiti.

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