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rainingpeopleL’altro giorno un pompiere altissimo, nel caos di una strada piena di ambulanze e polizia e folla curiosa, mi ha seguito per un lungo istante con lo sguardo e con un sorriso birbone, di chi sa di essere figo e sta dicendo sì, sto guardando proprio te.

La mia reazione? Passare avanti. Con la testa alla nazionale appena eliminata dal mondiale, e al paradosso con cui avevo iniziato la mia giornata: certi occhi bellissimi che incontro per strada mi raccontano una cosa diversa da quello che in genere mi dicono gli unici occhi che m’interessino (e che se applicassero a se stessi i loro standard ci andrebbero a perdere), ma io credo solo a questi ultimi.

Infatti la mia reazione a quella piccola attenzione maschile è stata simile a quella di molti di voi, mi sa, messi di fronte a un complimento:

Chi? Io?

Voi come reagite, ai complimenti? Di qualsiasi genere, eh. C’era una vignetta divertente in giro su Internet, raffigurava una che come reazione cominciava a balbettare, che ignorava l’interlocutore, che addirittura s’incazzava per le parole gentili.

Di solito per prima cosa, come ci hanno insegnato educatamente fin da piccoli, ci rifugiamo nella falsa modestia. Che, ripetuta per una vita, diventa modestia vera e si considera una grande qualità, anche perché con la schizofrenia che ci contraddistingue nella società 2.0 l’alternativa è un’apoteosi dell’ego.

E allora no, testa alta, occhi bassi, e qualsiasi evento che esuli dalla nostra insicurezza, che non ci confermi la visione che abbiamo di “non essere abbastanza”, viene passato sotto silenzio.

Da adolescente, quando mi guardavano per strada, mi dicevo “il reggiseno che mi sono messa oggi sarà troppo imbottito”. Oppure: “si sa che da queste parti sono tutti maniaci”.

“Si sa che in chat sono tutti maniaci”, mi sono sentita dire tempo fa, quando rivendicavo stupidamente un “certo successo di pubblico” che gli occhi riottosi di turno già mi concedevano, col malcelato disprezzo di chi è determinato a distinguersi dalla massa.

E mi sono sempre premurata di trovarmi occhi del genere, o almeno, hai visto mai, d’innamorarmi solo di quelli. Occhi da cercare di conquistarmi invano, che non mi facessero correre il pericolo di uscire dall’angolino in cui mi fossi chiusa da sola.

L’angolino di chi non ha nessuna colpa per non soddisfare tutti gli standard di bellezza di un’epoca di apparenze, e allora risolve la questione “cosa mi ha dato madre natura” buttandosi giù di default. Che come donna si è trovata di fronte al modello schizofrenico del “devi essere bella ma anche intelligente, e non puoi essere troppo entrambe le cose, neanche se ne avessi la possibilità”.

E non crediate che sia un discorso che riguardi solo le donne. Forse, anzi, negli uomini tutto questo prende una connotazione particolarmente dolorosa, perché chi tetiene il potere, direbbe Abatantuono, ha standard ancora più alti da soddisfare, prove di valore da fornire senza il conforto di tutta la riflessione che accompagna, invece, le categorie discriminate.

Quindi tutto congiura nella nostra vita perché, se un giorno ci capita qualcosa di bello o semplicemente di buffo, simpatico, di troppo bello per essere vero, per l’idea che abbiamo della vita come sofferenza, la nostra reazione sarà Chi? Io?.

Ho un paio di esempi carini da fare, ma li vedremo insieme la prossima volta.

Enea – Ma è quello il ragazzo di Montse?

La fila per il concerto a Santa Maria del Mar è lunga, cerco ‘nciuci per distrarmi.

– Sì sì – mi fa l’amico pettegolo. – Bel ragazzo, no?

Lo guardo. Pochi capelli, più robusto che alto. Senza Montse vicino non l’avrei manco notato.

– Eh – dico vaga. Saranno gusti catalani.
-Ehi, David, quello è il ragazzo di Montse? – alle nostre spalle si affaccia un’amica andalusa.
– Sì.
– Quant’è bello!

Quando mi succedono queste cose penso sempre a Enea, e alla faccia di Troisi/Tommaso quando vede per la prima volta il nuovo uomo della sua ex. Insieme al cammeo di Nuccia Fumo, è la mia parte preferita di Pensavo fosse amore, invece era un calesse.

Meraviglioso quando gli dicono “Vabbe’, adesso sei ancora scottato, non sei obiettivo”. Mi ricorda le volte che, diplomaticamente, provo a rispondere:

– Eh, forse i gusti italiani sono diversi.

Allora, se parliamo di una donna, mi si replica:

– È vero, scusa, non ha le labbra a canotto e un gommone per tetta.

E invece rivendico questa differenza di gusti, se si può sindacare su una cosa così mutevole. Il fatto che Desigual a Napoli non si faccia strada senza che qualcuno azzardi ancora lo scorrettissimo “Ma chi t’ha vestuto, Stevie Wonder?“. E che l’italico maglioncino sulle spalle, e i colori tetri che spesso completano il guardaroba, altrove sappiano un po’ di vecchio e “leccato”.

Ma non c’è niente di meglio della cultura pop per spiegare ciò che intendo. Prendete un tormentone come Tre metri sopra il cielo, paragonate lo Step italiano all’Hache spagnolo (senza scordare le rispettive Babi), e capirete di cosa parlo.

E dovrei pure starmi zitta, perché il cambio di gusti in Spagna va tutto a mio vantaggio. In generale mi sembrano più indulgenti dell’ipercritica Italia. Basta che tieni le gambe dritte, i denti a posto, i capelli più o meno sulla fronte, e schifo schifo non fai. Pure se vai in giro struccata, o sotto il maglione esibisci una tartaruga al contrario. Magari non è manco una questione di Spagna o della rilassata Inghilterra, che mi fece sentire un pagliaccio quando scoprii che su Oxford Road, a Manchester, ero l’unica truccata.

Ma non scorderò mai quando il prof del mio primo corso di catalano esibì una foto di Montserrat Caballé, con tanto di corna di scena (non so che opera fosse), e i latini della classe, maschi e femmine, dichiararono all’unanimità che in fondo era maca, carina anche lei.

Ribadisco, sono generalizzazioni, ma in Spagna da questo punto di vista mi sembrava tutto più rilassato, finché non ho ripreso a farmela con italiani. La critica del fenomeno la lascio fare a chi è più esperta di me. Ma è divertente passare da una comitiva in cui se hai abbinato la maglia alla gonna ti fanno “Qué guapa!“, a uno a cui leggi in fronte “Vabbe’, l’importante è che sei intelligente, poveretta, le tette ti spunteranno in un’altra vita”. Specie se l’individuo in questione, come spesso accade, ha un rapporto peso/potenza 1:1, e le misure di una caldaia.

Ok, chi è causa del suo mal…

D’altronde ho sentito così spesso dei connazionali maschi dire “Con chi mi metto, dopo quella sventola della mia ex?”, che ripenso al mio, di ex, quello britannico, dopo il quale con lo stesso ragionamento avrei dovuto infilarmi una cintura di castità e buttare la chiave.
Diceva:

– Voi italiani siete ossessionati dalla bellezza.

E in effetti lui, che passava inosservato tra le inglesi poco affascinate dai mixed race, una volta atterrato a Napoli diventava una piccola star, provocandomi qualche ulcera repressa con un sorriso finto.
E forse su sta storia della bellezza un po’ di ragione ce l’aveva.

Intendiamoci, come ossessione ho visto di peggio. Quello che mi dà veramente fastidio è la tendenza a credere universale la cosa più soggettiva e mutevole al mondo. Scordiamo che gli angeli di Victoria’s Secret, anche solo 50 anni fa, sarebbero stati messi all’ingrasso, oppure ce ne ricordiamo solo per condividere su fb la foto di una bella ragazza taglia 50 indicandola come la vera bellezza, con buona pace delle modelle Dove.

È questa superbia, che mi turba più di ogni altra cosa. E dire che quando Repubblica lanciò quell’appello alle donne perché si ritraessero con la scritta “Non sono una donna a sua disposizione”, imitate a stretto giro da Mafalda, le guardavo per ore dicendomi quanto fossimo belle, coi segni che la vita ci lascia addosso. I nasoni li vedevo anch’io, così come le rughe, ma io che m’annoio facile mi divertivo a constatare una volta di più che non esistessero due difetti uguali. E mi sembrava molto bello.

Qual è la cosa più banale che potrei fare, a questo punto?

Citare Totò dopo Troisi. Ma la banalità è come la bellezza, chi la definisce una volta per tutte?

In fondo, de gustibus non est sputazzellam.

Ops.

(già che ci siamo…)

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