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E51b_S4_House_of_Sand_and_Frog_1-crop-540x404 Ho riscoperto un libro carino che avevo un po’ accantonato durante il dottorato: Vita di casa, di Raffaella Sarti. Un’ambiziosa e dettagliata storia della vita “casalinga” nell’Europa moderna, tra contadini tedeschi che cedono per contratto la fattoria ai figli e lunghe case senza corridoio in cui, per arrivare in fondo, devi attraversare tutte le stanze.

L’autrice mi ha fornito la metafora perfetta per qualcosa che, qualcuno l’avrà notato, mi tormenta da un po’: la mia tensione tra moralismo e apertura mentale al momento di descrivere la mia generazione. Intanto ho scoperto, in ritardo, che ci definiscono millenials. O generazione Y. E io che ero rimasta alla X, descritta da un giovane Ethan Hawke nel già precario Prima dell’alba!

Ma tempo fa ho discusso col mio ragazzo sull’idea scrivere un romanzo su una “Young Adult” alla Charlize Theron, ma trapiantata a Barcellona. Una più-che-trentenne che faccia la stessa vita di una ventenne appena sbarcata in città, tra lavoretti in call center e appartamenti condivisi con coinquilini stranieri con cui sbronzarsi. Sentendosi eroica a non “cadere” nella trappola posto fisso – figli – mutuo da pagare.

La mia sensazione è che alcuni lo facciano per vocazione (ok, allora!) e altri si mettano in un limbo in cui né si precludono del tutto la trappola di cui sopra, né trovano un’alternativa che li faccia star bene. Come se fossero eternamente parcheggiati. Come la Theron nel film: secondo il link qui sopra (che sicuramente avrete aperto), è “incastrata in dinamiche affettive adolescenziali ma afflitta da problematiche adulte”.

Cosa te lo fa dire, insisteva il mio ragazzo. Semplicemente stanno bene così e nessuna normativizzazione di ciò che sia l’età adulta impedirà loro di fare ciò che vogliono.

E invece la professoressa Sarti è venuta in mio aiuto con le sue case di qualche secolo fa. Perché ciascuno, in fin dei conti, si arrangiava con quello che trovava (ricordo un contadino toscano che non poteva sposarsi perché non sapeva dove piazzare il letto, con dieci parenti a dormire nella stessa stanza!).

Ma quando c’era da edificare ex novo, spesso l’abitudine batteva la comodità, almeno per gli espatriati: che minchia ci facevano case col tetto spiovente in riva al mare?

Be’, la famiglia in questione veniva, mettiamo, dal Nord Europa, e aveva sempre fatto così.

Ecco, a volte mi sembra che i “giovani adulti” della mia età applichino alla loro vita strategie di costruzione che appartengano ad altri contesti, che magari li fanno sentire comodi per tradizione, ma poi li fanno soffocare sotto altri aspetti.

Un lavoretto part-time è una manna dal cielo quando hai 20 anni e stai facendo un Erasmus, ma se hai già due lauree e un master perché non ci provi nemmeno, a entrare all’università come lettrice? Se mi dici “Non fanno per me, i figli”, ti capisco, ma se cominci a spiegarmi che “vivi in un quinto senza ascensore, come porti su il passeggino?” o “gli uomini di oggi sono tutti bastardi, dove lo trovo un buon compagno?”… Mi chiedo due cose: perché a pari costo ti prendi un attico e non un primo piano? Perché il tuo reparto amici comprende quasi unicamente tizi arroganti, mediamente fasci e inclini alle battute sessiste?

Insomma, per dirla con Hipster Democratici, la metafora architettonica per descrivere la vita umana è mainstream dai tempi del Vangelo. Ricordate? La storia di quello che costruisce la casa sulla sabbia rispetto al saggio architetto che la fa bene, sulla roccia ecc.

E le case sulla sabbia, se pensiamo alle tende berbere, sono ottime in mezzo al deserto, ma edificate in una grande città… non so. Ci convengono? Se la risposta è sempre a me sì, andate in pace.

D’altronde, a Barcellona, non molto tempo fa, tra gli annunci di stanze in affitto c’era chi offriva una tenda da campeggio nel proprio salotto, non so per quante centinaia di euro.

Coincidenza?

Ma prometto ai miei giovani adulti, da adulta vecchia, che non scorderò più questa frase di Borges, che magari dà senso a tutto il mio sproloquio:

Nulla è costruito sulla pietra, tutto è costruito sulla sabbia, ma dobbiamo costruire sulla sabbia come se fosse pietra.

welcomeVolevo tornare su una questione che mi preme molto: quella della paura che più la evitiamo più si realizza.

E sì, mi vengono vari esempi, come il racconto orientale che è diventato Samarcanda di Vecchioni, ma ha un bel po’ di secoli all’attivo. Oppure, meglio ancora, il grande classico di Giona, il nonno scemo di Pinocchio. Va’ a Ninive a predicare, gli fa il suo Dio. E lui manco p’ ‘a capa, a Ninive troverò la rovina.

E invece la trova non andandoci, nella bocca di una balena. Insomma, di un pesce molto grande.

Quanto vi suona familiare, questo? A me tantissimo.

Tutte le volte che ho provato a fuggire da qualcosa, ci sono finita giusto dentro.

E per la cronaca, Ninive alla fine “pensavo peggio”, deve aver ammesso Giona quando si è accorto, una volta arrivato, di essere diventato presto il predicatore n. 1.

Perché con le paure succede questo, che la cosa di cui abbiamo paura, di per sé non è brutta come la dipingiamo. È ciò che veramente temiamo (per esempio, essere respinti), che in quel momento è rappresentato da quel lavoro, da quella telefonata da fare, che fa paura.

Io sto avendo un piccolo problema con l’appartamento nuovo. E lo so, sto al secondo trasloco in meno di un anno, ma passata l’urgenza iniziale di scappare dall’altro posto, non mi ci sento più tanto a casa. Ci resto, eh, un terzo trasloco mi ammazzerebbe e conosco problemi peggiori.

Ma la casa da cui scappavo, che avevo ereditato lugubre e piena della solitudine di chi ci viveva prima, si fa ogni giorno più serena, accogliente. Perché ci lavoro su, ci invito gente che la sa amare e trattare bene, la pianta è sempre innaffiata, le pareti imbiancate da poco sono più belle quando c’è qualcuno a riderci vicino.

Questa casa invece è stata una fortuna, è vero, presa in fretta e furia e in un giorno tremendo.

Ma ha un problema: un rifugio difficilmente diventa una casa.

Come una storia in cui entriamo non per chissà che amore, ma perché ci sentiamo al sicuro. Da una minaccia che magari, come Ninive, non era poi sto drammone.

E poi il rimedio è peggiore del male o, per dirla alla Watzlawick (che traviserò clamorosamente) il problema è la soluzione.

Negli amori tiepidi entriamo per sentirci al riparo dalla sofferenza, e in quella caschiamo, spinti dalle nostre stesse ambiguità.

La sofferenza che vedevamo rappresentata invece in un amore vero, la paura della dipendenza ecc, diventa più interessante di quest’incubo, di sicuro più sensata.

Un rifugio non è mai casa, ahimé.

Difficilmente lo diventa.

Che dite, cominciamo? A chiamare casa ciò che davvero lo è. Non quello che ci fa sentire al sicuro, ma quello che ci fa sentire pronti a uscirci al mattino e tornarci la sera.

Sapendo che fuori non sarà tutto rose e fiori, ma davvero, “pensavamo peggio”.

welivehereNotoriamente, ho il senso della casa e dell’ordine di un bufalo imbizzarrito che abbiano appena rinchiuso in un appartamento (non chiedetemi come ce l’abbiano portato). Le operazioni di disinfestazione di casa mia, per i parenti in visita, richiedono di solito un disinfettante, vari acquisti dal negozio di igiene per la casa del quartiere, e l’intervento non proprio facoltativo di un esorcista.

Finché i soliti amici psicologi non mi hanno fatto sospettare tutta una complessa metafora tra disordine interno e disordine esterno (ah, non era solo pigrizia cronica?) e mi hanno proposto di provarci, almeno. Non aspettare proprio l’emergenza sanitaria per fare più dello stretto necessario per sopravvivere.

Così, armata di scopa e ramazza e candeggina profumata (candeggina io?!) mi sono messa a pulire tutta la casa nello stesso giorno, impresa nel mio caso meno frequente dell’incontro con un ectoplasma. Quando finalmente mi sono concessa la meritata doccia, mi sono sentita strana. Cioè, l’idea di uscire da lì senza dovermi fare strada tra i relitti dell’ultimo trasloco era una rivoluzione copernicana. E non era niente male.

Solo che per qualche secondo ho avuto la sensazione di non essere più io, a quel punto. Perché una buona parte di me si identificava con quel caos interno ed esterno che faceva molto tipa figa e vittima di se stessa. E ora era svanito. Ho ripensato ai miei giochi infantili in giardino, al terreno che mi inzaccherava in ogni dove e ai poveri lombrichi estratti dalla terra. Ora che ho una cura maniacale almeno per la mia persona, mi sono resa conto che tutto quello sporco, prima che mamma mi buttasse di peso nella vasca da bagno, mi proteggeva.

Mi sentivo al riparo.

E forse se lasciavo casa mia in quelle condizioni, disboscandola solo per l’arrivo di ospiti, era per sentirmi come Horacio Quiroga in un racconto che lessi a scuola, in cui il protagonista e sua sorella si vedevano piano piano la casa invasa da… non si capiva bene cosa, e vivevano sempre più costretti in un angolino minuscolo.

Io sono un po’ così, è come se mi ritagliassi un angolino di casa (di solito il letto) che sia solo mio, e le mie incursioni nel resto dello spazio domestico siano solo piccoli incidenti, frutto della necessità di mangiare o lavarmi. È come se la casa possedesse me, e io mi permettessi di occuparne una minima parte, che mi faccio bastare da così tanto tempo che credo perfino che mi avanzi.

Ovviamente è un’ordalia a cui mi sottopongo da sola, per sentirmi al riparo.

È come se, dicevo in un altro articolo, per sentirmi al sicuro il pericolo me lo debba creare. Fa tanto campagna elettorale dei conservatori americani, ma se ci pensate non è così raro.

Diamo per scontato che “fuori” (di casa, dal letto) sia pericoloso, e allora non ci proviamo nemmeno. Ci ritagliamo il famoso angolino di cui si vaneggiava in precedenza, e ci sentiamo al riparo.

Di base c’è l’idea che non sappiamo vivere altrimenti. Che qualsiasi cosa ci aspetti fuori, che sia una montagna di panni da lavare o un lavoro da procurarsi, non siamo capaci di affrontarla.

E allora ci mettiamo al riparo. Da pericoli realmente esistenti (ripeto che non ci sono formule magiche per trovare lavoro, ce ne sono, e non così magiche, per gestire il fatto di non avercelo e continuare a cercarlo). E spesso, da pericoli che ci creiamo noi, per convincerci che siamo così bravi, e prudenti, a ripararci dalla vita.

Finché non ci accorgiamo che abbiamo passato la vita a metterci al riparo da noi stessi.

Continuiamo presto.

scatoleAdesso mi tocca il paradosso.

Passare da casa mia vecchia alla nuova, senza aver mai transitato davvero per questa che mi accoglie ora. Che mi ripara, vorrei dire, perché dal primo giorno in cui ci ho messo piede mi ha offerto un tetto e delle pareti da opporre al vento, ma proprio mentre facevamo conoscenza mi è crollata addosso, e non per colpa sua.

È stata la testimone di una vita spezzata, forse il trauma di due, e per ironia della sorte, da qualche parte dei ricordi di qualcuno, la tomba che questa casa è diventata per me nei mesi a seguire è solo la grande premessa di un dramma tutto suo, che già non mi appartiene.

Io stessa sono diventata una premessa, una parentesi. Ho accettato di diventarlo, un po’ perché non volevo accorgermene, un po’ perché, quando lo sei, sei sempre l’ultimo a saperlo, speri sempre che accada qualcosa che ribalti tutto.

E ora gli scatoloni che ho lasciato sigillati come le mie labbra, che per due mesi non si sono nutrite di cibo e da sei non lo fanno di baci, gli stessi scatoloni nei cui bordi sfasciati a volte sbircio, per spiare una vita che non c’è più, mi serviranno per il nuovo trasloco, in una vita che non c’è ancora.

Mi vedo sulla mia terrazzina nuova a farmi un lungo pianto, lungo lungo, un peana solidale con l’attico che lasciavo per la casa tutta per me, e la casa stessa, che tutta per me non lo è stata mai, perché ai suoi fantasmi si sono aggiunti i miei.

E ora è divertente, quasi, sedere su un vecchio divano semibarocco, non ancora coperto da una federa IKEA mai comprata, e scoprire che lì, una vita fa, quando ancora stentavo ad aprire la porta a me nuova, avevo messo la bustona con la roba del bagno vecchio, quella curiosa stanzetta a forma di L che gli aveva guadagnato il nomignolo di Bagno di Barbie.

I miei occhi sono ormai smaliziati, che le tombe di mattoni servono almeno a questo, e adesso forse quel bagno lontano mi apparirebbe per ciò che era: una bugia. Un angolino strappato coi denti a una soffitta che non avrebbe mai dovuto essere abitabile, da un proprietario ingordo che voleva altri 500 euro al mese.

Ma osservando curiosa le vecchie creme, i pettini ormai impolverati e odorosi di sapone, mi ritrovo di nuovo là, nella casa vecchia, prima serena e poi disperata e poi confusa, agli albori del trasloco.

Cosa diventerà, tutto questo, nella casa nuova? Mi porterò qualcosa degli scatoloni dei libri, il dispetto sincronico di Sofi Oksanen vicino a Eduardo Mendoza, che mi aveva fatto abbandonare ogni tentativo di ordinarli?

Non lo so, restando in tema di libri ho Grandi Speranze. Che è diverso da grandi aspettative.

E qui rido pensando a dieci case fa, al primo coinquilino e gli errori di traduzione di cui oggi rideremmo con la sua compagna. “Ma se te l’ho chiesto, l’altra notte, se avessi aspettative!”. “Ma io per aspettative intendevo un’altra cosa!”. E allora lui prendeva il vocabolario d’inglese e mi faceva vedere:

Expectation: a prospect of future good or profit: to have great expectations.

I have no more expectations, dearest. La differenza è questa.

L’inaugurazione di questa casa, tra tante aspettative, non l’ho mai avuta. La nuova la voglio inaugurare con un pianto, che sia di gioia, quando tra me e il cielo su Poble-Sec, che non è più il Raval e chissà che significherà questo, quando tra me e il cielo non ci saranno più tre piani e una vicina curiosa, non ci sarà più niente. Solo le lacrime con cui commossa e un po’ stanca chiederò protezione al primo sole.

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