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Rachel Brice - Alchetron, The Free Social Encyclopedia
La mia “prof.” di danza, da alchetron.com

Mi fa paura scriverlo, ma in questi momenti critici ho il lusso di stare bene, perché ho anche l’altro lusso, che è la chiave, di fare ciò che più voglio al mondo.

Nel mio caso è scrivere, ed è un privilegio incredibile, il fatto che possa dedicarmi solo a questo. Un tipo che mi ha ispirato un certo libro sta cercando di conciliare la stesura della sua autobiografia con la necessità di mangiare: adesso proverà la strada del lavoro part-time, che gli consenta di affittare almeno una stanzetta. È una precarietà difficile da accettare, per lui che viene da un paese in cui a trent’anni hai un lavoro fisso e due figli. Ma lui ritiene ancora più difficile passare una vita ad avere qualcosa che non vuole (tipo un lavoro fisso e due figli), mentre ciò che cerca davvero è una stabilità emotiva. Decliniamoci ciò che desideriamo in termini che abbiano un senso per noi.

Fare ciò che vogliamo non dovrebbe essere un privilegio, ma ho notato che ci sono molte esperienze che, con qualche accorgimento, possiamo viverci anche senza rimandarle a quando avremo più tempo o soldi. Uno dei ragazzi senzatetto che ospitavo nei mesi scorsi è tornato in strada, nonostante le opzioni di alloggio e lavoro che gli sono state presentate (soffre di ansia, e la salute mentale non è ancora gratuita). Mi sa che non ha neanche il coraggio di chiedere l’elemosina. Però ama leggere e non ha mai smesso, nonostante tutto: lo ammiro, perché io al suo posto starei già bestemmiando in trecento lingue diverse, altro che centellinarmi Proust!

Nei limiti del possibile, dunque, dedicatevi a ciò che vi fa stare meglio, fossero anche cinque minuti di danza del ventre! (Sul serio, mi sono iscritta a una scuola online di fusion: ogni volta che alzo un piede da terra viene Archie ad azzannarmelo…). Diceva Watzlawick che il più piccolo dei cambiamenti influisce su un intero sistema.

E fare ogni giorno, almeno un po’, la più accessibile delle cose che amiamo, cambia davvero il quadro.

(Presto mi vedrete ballare proprio così. Sì).

puppy-eating-shoelaceHo imparato tardissimo ad allacciarmi le scarpe.

Ed è stata tutta colpa del fiocco sul grembiule, a scuola.

Quando mi si scioglieva, me lo rifaceva qualche compagna di quelle che facevano le O e le aste con grazia infinita, disegnavano bambine coi capelli biondi perfetti e bocca a cuoricino, e quando avrebbero imparato a scrivere l’avrebbero fatto con quelle grafie rotonde e nitide, con puntini sulle I che a un certo punto, molti anni dopo, si sarebbero trasformati a loro volta in cuoricini, su qualche “Smemo”.

Ma no, ai tempi del fiocco vivevano per complessare me: prendevano i due lati del nastro che pendeva inutile, li piegavano in due graziosi circoletti con altrettante codine equidistanti, annodavano i circoletti, ed ecco il fiocco perfetto. Esattamente quello che non sapevo fare. E una cosa è non sapertelo fare al grembiule, che maestre arpie a parte non ti arreca troppi danni, e una cosa è non fartelo alle scarpe.

Quando mi si slacciavano le scarpe potevo mai chiedere a qualcuno di abbassarsi? Specie quando già ero grandicella, a 6, 7 anni (e ne dimostravo una decina, tra l’altro)… Che fare?

Finché una coppia di zii, quella figa che dici “sono i miei zii preferiti” (si erano conosciuti in una radio indipendente, negli anni ’70!), decise di aiutarmi: oltre alle varie prodezze di sposarsi in Comune al mio paese in pieni anni ’80 (le anziane della famiglia sarebbero morte credendoli sacrileghi), di viaggiare in Turchia e comprarci gioielli da vendere e svilupparsi le foto da soli (ovvio che mi regalarono la prima e unica Polaroid), mi insegnarono ad allacciarmi le scarpe.

E, sorpresa: non dovevo per forza fare la cosa del fiocco! Non dovevo raccogliere le stringhe in due cerchietti con codina equidistante ecc. Mi riusciva più facile fare un cerchietto alla volta? Perfetto, il nodo si faceva uguale. Magari non così artistico, ma chi minchia ti guarda il “fiocco” alle scarpe? Poi, la questione nodo, doppio nodo… Insomma, svoltona.

Ci ho ripensato ieri, riflettendo ancora una volta su ciò che vogliamo e ciò che ci serve davvero. E non è colpa mia, è una cosa che trovi in un sacco di canzoni in inglese! È proprio un luogo comune, “you get what you want but you don’t get what you need”, con una sfumatura che, detto tra noi, in italiano ci sfugge pure, non è così ovvia.

Ma c’è, e ora la percepisco. Ora capisco che ho fatto spesso come coi lacci delle scarpe, ho rinunciato a farmeli rischiando di cadere, perché credevo che ci fosse un solo modo, perfetto, di farlo. Quello degli altri. Mentre alla stessa cosa ci arrivi per vie diverse, col fiocchetto simmetrico e il nodino improvvisato, con un cerchietto solo, col doppio nodo o meno. Il problema è pensare che ce la fai solo nel modo che credi tu, solo per quella strada. Perdendo tempo che potrebbe servirti a correre con le scarpe belle che allacciate.

Insomma, basta pensare che ci sia un solo modo di arrivare alle cose: ci creiamo un falso problema. Come quando crediamo davvero che comprandoci quella crema idratante in mousse saremo felici, e senza il nuovo tablet nostro cognato ci sputtanerà al cenone di Natale. Come quando crediamo che avere il fisico palestrato ci porti alla stima altrui, mentre ci porta al massimo a un’ammirazione che per me non vale tempo e sudore. Come quando crediamo che solo quella persona ci possa fare felici al mondo e ora che non c’è possiamo anche morire, o solo quel lavoro può darci un senso, e ora che ci hanno licenziato non possiamo fare nient’altro.

No, ci sono molti modi per allacciarsi le scarpe. E l’obiettivo ultimo non è farsi il nodo perfetto. È correre.

Comunque io, ormai, metto solo stivali.

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