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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Quelle che servono

 

Da plumens.com

Non è lui. Lui è un sintomo.

Avevo fame e ho trovato lui, e invece dovevo saziarmi di me.

Dopo l’ultima frase a effetto, la Petulante poggia la penna sul taccuino. Resta sempre un po’ stronza, ma ha ragione. Un giorno darò della stronza a me stessa, per quell’ostilità cocciuta verso la mia terapeuta. A conti fatti ha sbagliato solo due cose, una più grave e una meno.

La meno grave è stata farmi sentire come una crostatina del Mulino Bianco, col suo discorso su come non fossi proprio “da dieci”. Ma ora so cosa voleva dire: a Bruno le donne piacevano fatte in un certo modo (“affilate”, a quanto pareva), mentre io ero fatta in un altro. Quel dettaglio non mi aggiungeva e non mi toglieva niente.

La cosa più grave è stata il suo martellare perché lo lasciassi perdere. Un giorno sentirò delle esperte in rapporti di coppia (e violenza di genere) affermare che l’ultima cosa da dire in certi casi è: “Devi lasciarlo”. Come se la tizia in questione non lo sapesse già.

Per il resto, la Petulante aveva ragione: il mio corpo è stato l’unica guida mentre la testa svariava. Il ventre contratto mi ha fatto da bussola in quei giorni di finta estate, di strategie surreali e di ciclo bloccato, che in un anticlimax mi va tornando man mano che smetto di cercarmi le cose in valigia e “prendo possesso” della casa, o almeno ci provo.

Questo linguaggio del corpo segue un percorso a me ignoto, diverso dai miei soliti schemi mentali.

“I segnali che ti mandava il corpo ci sono sempre stati” sorride la Petulante. “La differenza è che adesso impari anche a notarli”.

Magnifico: io non vedevo i segnali, e Bruno non vedeva me. Nei suoi occhi ho trovato solo le mie paure.

“Avevi perso i punti fermi” chiosa la Petulante. “Risentivi della condizione di straniera, del licenziamento, dell’università che non ti pagava neanche l’assegno di ricerca promesso…”.

Insomma, a un certo punto pensavo di non valere niente, e mi sono trovata qualcuno che fosse d’accordo con me. E siccome ritenevo impossibile cambiare la mia vita, ho provato a cambiare lui.

Dio santo. Quello che mi spiazza di più è che pensavo di avere le cose sotto controllo, e invece ero del tutto fuori strada. Mi perdonerò mai per questo? La Petulante infierisce.

“Vedi cosa succede a non essere in contatto con le proprie necessità? Credevi di aver comprato la casa ideale, anche se piaceva solo ai tuoi. Credevi di aver trovato il corso che ti avrebbe riportato all’università, anche se il titolo che rilasciava era carta straccia…”.

Annuisco. Soprattutto, conclude lei, pensavo che un tipo con difficoltà evidenti a innamorarsi (o almeno, a innamorarsi di me) fosse ormai “tornato sul serio”, solo perché in quel momento gli serviva una spalla su cui piangere.

Mica solo una spalla, faccio per dire, ma sono troppo annichilita per scherzare, e la Petulante preme perché ammetta una cosa: l’intuizione, o almeno la capacità di capire cosa voglio, è importante almeno quanto la logica. E sì, passa per le sensazioni del corpo.

“Pensa a quante strategie hai elaborato per tenerti Bruno: com’è andata? Al primo soffio è crollato tutto il castello di carte”.

Castello di carte? No. Di carta, semmai. È bastato un imprevisto idiota, uno scambio linguistico con la bionda sbagliata (o quella giusta, magari…), e l’illusione che tutto volgesse al meglio è andata distrutta. Anche gli “esercizi” della Strategica erano trucchetti da baraccone, ma almeno mi hanno fatto capire una cosa: è ora di cambiare strategia. Sul serio.

Voglio trovare la forza di tradire Bruno con me. Anche se in questo momento sono l’ultimo dei suoi pensieri, ho ancora questa sensazione: progettare una vita senza di lui è un tradimento. Ed è anche l’unica scelta che ho.

Se per qualche tempo devo affondare in un pozzo nero, voglio che almeno mi serva a cambiare, una volta per tutte. Questo qui è un “almeno” che potrei amare. La Petulante solleva la testa dal taccuino:

“Sarà un po’ come imparare di nuovo a camminare”.

Sgrano gli occhi:

“Quante cazzo di volte bisogna imparare a camminare?”.

La Petulante mi sorride:

“Tutte quelle che servono”. 

A venerdì per il seguito!

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Non convinco

Si addormenta dopo cena.

Dopo la sua breve performance da fidanzato si è incupito: è stanco, dice, il giorno dopo deve tornare a casa presto. Mi appare davanti un’immagine che mi perseguita da un po’: un gatto a cui provo invano ad abbassare la testa. La bestiola gira il collo, mi schiva la mano. Ogni volta l’immagine svanisce prima che io sappia se ci sono riuscita, se il gatto è domato.

Perché Bruno è rimasto a dormire, visto che deve fare una levataccia? Ma quando si alza è giorno fatto, e io sono al computer.

Mi è arrivata la risposta della casa editrice appena fondata, che mi aveva richiesto la scheda di un libro. La mia intermediaria è dispiaciuta: le editrici non sono convinte. Manca il confronto tra il libro che mi hanno incaricato di leggere (un romanzo di cinquecento pagine sui lupi mannari) e altri volumi del genere. Sono livida: per cinquanta euro a scheda volevano pure un trattato di letteratura comparata sulla licantropia?

Eravamo rimaste che mi pagavano, chiede l’intermediaria, o la prova era gratuita? Nel primo caso, mandassi pure il mio conto corrente.

Segnalo a Bruno di farsi il caffè, poi inizio a martellare la tastiera: quelle pezzenti delle “editrici” si tenessero pure i loro quattro soldi! Pretendevano di sfruttarmi a cinque euro l’ora e si chiedono pure se mi devono pagare… Sono già alla frutta prima ancora di iniziare, e in ogni caso si meritano la rovina.

Mentre serve il caffè nelle tazze, Bruno si unisce alla mia indignazione: le delusioni lavorative sono un argomento che riesce a unirci. Ma lui è svogliato nel consolarmi, e io sono furibonda. Non è solo per la mail, o per le ore perse a leggere un libro di cui non mi fregava niente. Lui siede davanti a me, finisce la colazione e poi annuncia: “Rimango un altro po’”. Come se il tempo che si è prefissato di dedicarmi non fosse ancora scaduto. Ma ha lo zaino già in grembo, gli auricolari pronti.

Esito a lungo. Se sto zitta andrò a cena da lui, conoscerò quell’amica che a quanto ne so è dalla mia parte. Dimostrerò a Bruno che è il caso di ammettermi ufficialmente nel suo mondo, visto che lo abito già da un pezzo.

Invece non riesco a tacere. Sento qualcosa bloccarmi il respiro, come il residuo vischioso di un raffreddore. Se non lo sputo via resterà lì anche dopo la benedetta cena con l’amica di Bruno. Resterà sempre, non potrò più respirare.

Punto gli occhi su di lui e sparo. Non sono arrabbiata solo per il lavoro perso: c’è qualcosa di strano nel modo in cui lui mi ha trattata l’altra notte, e mi sta trattando adesso. Sta recitando un copione che non sembra neanche aver letto. È evidente che non crede a una parola di ciò che dice.

Non dimenticherò mai lo sguardo che mi rivolge. I suoi occhi si spalancano un istante, poi si fanno tristi, rassegnati. L’ho colto sul fatto.

Per quanto si sforzi, in fondo di me non gliene frega niente.   

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Paesaggi

Adesso abbiamo un nome.

“Fidanzati” non lo dice mai, ma dice tutto il resto. Tutt’a un tratto aumenta il tempo che passiamo a parlare in terrazzo, godendoci la primavera tra le antenne del Raval. L’uomo col mastino spiasse pure: sono contenta lo stesso, avevo ragione ad aspettare. Bruno ce la sta mettendo tutta, prima aveva solo un po’ di paura.

Continua a farne una questione “etica”: ho ragione io, non va bene che si passi la notte insieme e al mattino ci si tratti da sconosciuti. È uno che prova sempre a fare la cosa giusta, non vuole sbagliare proprio con me.

Ora che l’amore sembra filare, mi apro al resto. Mi lascio invitare al bar dalla mia ex insegnante di scrittura creativa: forse c’è un lavoretto per me, in una casa editrice appena nata. Pagano una miseria, ma si tratta di leggere un libro in inglese e compilarci una scheda. Accetto senza pensarci, mentre il barista fa una battuta discreta sul colore dei miei occhi. La vita è bella.

Bruno mi incoraggia, anche lui è tornato a cercare lavoro. Ancora non usciamo “insieme”, intuisco che davanti agli altri gli ci vuole tempo, anche se insisto perché lui smetta di evitarmi, o trattarmi come un’amica quando va bene. E allora si impegna: quando partecipiamo a un evento in rappresentanza dello Spazio mi abbraccia una volta o due, mi resta vicino. È un inizio, mi dico. La prova del nove sarà allo Spazio, nel territorio che io gli avrei usurpato.

Presto inaugureremo una mostra di paesaggi.

La coppia che espone è di Napoli: con loro sono io a prendere accordi, mentre Bruno si incarica di appendere i dipinti alle pareti dello Spazio. Ho evitato di andare di persona a sovrintendere, a lui non piacerebbe. La profezia sulla mia inesperienza col “progetto” non si sta realizzando: il calo di entusiasmo si è verificato prima che subentrassi io, e a detta di tutti (escluso Bruno, che non si pronuncia), mi sto rivelando un buon acquisto.

Incontro la coppia di Napoli dopo la seduta dalla Petulante. Ho un tubino bordeaux con foulard abbinato, e una linea scura sugli occhi. Quando mi ha vista così in tiro, la Petulante mi ha assecondata con un sorriso di circostanza: aspetta, sembrava dirmi, e vedrai se conciarti così serve a qualcosa. La Petulante è una stronza.

Sotto al portone dello Spazio sono trattenuta da una telefonata, e segnalo alla coppia di salire: ad accoglierli ci penserà “il nostro incaricato”.

Quando Bruno apre la porta anche a me, l’istante di gioia che gli leggo negli occhi cede il posto a una specie di sorpresa. È come se non mi associasse a quel luogo, e al tempo che ha appena trascorso a lavorare lì dentro. Ancora una volta non sono che un’estranea, una che ha invaso il suo Spazio.

La coppia ha qualcosa da ridire sulla posizione delle luci, e lui assecondando le richieste diventa quasi professionale: è il padrone di casa, io sono un’intrusa. Mentre riposiziona i quadri devo osservarlo in disparte, come una potenziale acquirente che è arrivata troppo presto.

In fondo è un’opera d’arte anche il suo talento nell’ignorarmi.

Stavolta rimando le spiegazioni a un momento più tranquillo. Gli accenno soltanto, via messaggio, che dopo la mostra vorrei un chiarimento importante. Ma in fondo non sono preoccupata: è questione di tempo, benedetto tempo. Il mattino dopo, con la coppia di Napoli montiamo un video divertente sulla Rambla per promuovere l’esposizione, e finisco per cantare ‘Na sera ‘e maggio con un gruppo di argentini. Quando mi lascio trasportare, ricordo che c’è vita al di là di Bruno.

Solo a casa mi rendo conto del messaggio, ricevuto ore prima: non viene alla mostra. Gli dispiace informarmi adesso, ma non gli è riuscito di mandarlo più presto. Non accenna nemmeno al fatto che gli voglia parlare, che gli abbia detto che è urgente. Ha delle cose da fare, e gli sembra di essersi sbattuto fin troppo negli ultimi tempi.

Forse, se lo chiamassi un momento, sentirei in sottofondo il rumore della lavatrice.

A lunedì per il seguito!

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Alla più bella

Arriviamo insieme.

Arriviamo trafelati e in disordine, ma davanti agli altri dello Spazio lui si comporta come se ci fossimo appena incontrati sul portone.

Decido di ignorarlo. Vivo a Barcellona, ci sono cause migliori da perdere. E lo Spazio ha il problema di tutti gli spazi: prima era meglio. A sentire gli habitué se n’è andata troppa gente, lasciando le redini al Figo e alla sua claque di Morti. È una situazione che all’improvviso voglio cambiare, che so cambiare. Voglio implicarmi in qualcosa, e questo desiderio si traduce sia in spagnolo che in catalano con “voglio bagnarmi”. A Bruno lo scrivo in catalano, per non dare adito a equivoci imbarazzanti: sto per occupare uno Spazio che lui considera più suo che mio, memore com’è di una presunta epoca d’oro che io mi sarei persa.

Comunque sia, mi pare, lì dentro c’è posto per entrambi.

Come risultato lui torna a “passare” da me proprio il giorno della mia prima riunione, “così ci andiamo insieme”. Dice che si ripromette sempre di non tornare, ma poi lo fa, e io non riesco più a mandarlo via.

La riunione è partecipata, c’è addirittura qualche donna. Progettiamo esposizioni, feste per raccogliere fondi, e una serata di beneficenza che si terrà a novembre: con l’entusiasmo della neofita avanzo proposte anche a verbale concluso. Quando restiamo in quattro gatti, e pure Bruno si è eclissato, uno dei Morti di Figo propone di reclutare una bella frequentatrice dello Spazio come cassiera alla prossima festa, a patto che sfoggi una scollatura da antologia. La trovata crea imbarazzo perfino tra gli uomini presenti. Lo racconto poi a Bruno mentre restiamo a chiacchierare sul letto: mi diventa femminista.

“Facciamo tanto i compagni” commenta “e poi, come strategia di marketing, mettiamo alla cassa la più bella!”.

Ancora classifiche. Ancora il promemoria che la più bella è un’altra, è sempre un’altra. Quando è arrabbiato con qualche Morto di Figo, Bruno ne critica prima i difetti, poi i successi, come se fossero stati usurpati a lui. La fidanzata “gnocca” rimane in fondo all’elenco, una postilla alle attestazioni di status, ma intanto sta con uno stronzo, mentre lui prova a fare sempre la cosa giusta… E si deve accontentare di me. Quest’ultima parte non ha bisogno di dirla. Quando glielo farò presente mi risponderà che “ci siamo accontentati a vicenda”, senza rendersi conto che intendiamo cose diverse: io mi sono accontentata delle sue attenzioni a metà, e lui di me, di me e basta.

A volte lo guardo con una pena che non so più provare per me stessa, e per la mia ostinazione a resistere, aspettare. Cosa direbbero allo Spazio, se sapessero di noi due? Chi di noi due si starebbe “accontentando”?

“So che hai un buon successo di pubblico” commenta lui quando, come una bambina, gli riferisco i complimenti di qualcun altro. È lui a consegnare il premio della critica, e io non sono neanche nella rosa finale, altrimenti mi tratterebbe meglio, questo mi è chiaro. Allora continuo a sforzarmi per vincere questo cazzo di premio.

Ma nessuno allo Spazio si fa domande: da me vogliono altro.

Alla fine di un pranzo collettivo in cui ho cucinato per quaranta persone (scuocendo la pasta perché Bruno non si decideva ad assaggiarla), mi chiamano da parte in due o tre. Voglio essere la coordinatrice dello Spazio? Solo per qualche mese. È vero che sono iscritta da poco, ma lavoro duro, e poi mi aiuteranno. Ci penso solo un momento.

A quanto pare non bisogna essere la più bella, per diventare quella che si sbatte di più.

A venerdì per il seguito!

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Nessuno è fesso

Ci separiamo per un po’.

Non voglio essere “il premio di consolazione” di qualcun altro. Anche a Bruno sembra ingiusto, ma non sa come evitarlo, dice. Ci sono perfino lacrime, non solo mie. Al mio compleanno lui mi porta il pranzo, preparato con le sue mani, poi spera che con questo gesto gli sia risparmiata la cena con gli altri al ristorante. Non lo forzo, ma neanche gli nascondo il mio disappunto. Ho pure tentato di dissuadere l’amica Occhiblù dal raggiungerci con le stampelle: ha avuto un incidente e viene apposta a festeggiare me, e io mi sento un verme, ma non voglio che Bruno faccia il cascamorto con un’altra davanti ai miei occhi. Cosa sto diventando? Alla fine lui arriva a cena quasi finita, mentre Occhiblù sta spiegando che il suo soccorritore, dopo l’incidente, ha finito per chiederle il numero di telefono. Il nuovo venuto approfitta per commentare: “Chiamalo fesso”.

Ma qua nessuno è fesso. A un evento dello Spazio conosco un bel ragazzo moro.

Anche stavolta ho disertato la riunione organizzativa, ma mi è sembrato giusto contribuire ai preparativi, portandomi dietro i vestiti da indossare dopo: tubino nero, calze traforate, e un fiore di stoffa riciclata, per adornare un collarino anni ’90. La regressione all’adolescenza è completa. Quando mi cade il fiore dal collo, lo infilo ridendo nella scollatura, e colgo un momento di imbarazzo nei due invitati a cui verso il vino: davvero a qualcuno viene l’idea balzana di guardarmi? Beh, c’è questo bel ragazzo moro che mi fissa da quando è entrato.

È un architetto, immerso in giri più fricchettoni dei miei. Mentre gli riempio il bicchiere mi parla di una Barcellona notturna e clandestina, popolata da artisti vagabondi e cani che gridano alla luna. Mi racconta di gente che non può permettersi neanche una stanzetta come la mia, rubata a un terrazzo condominiale: i paesaggi urbani che progetta lui comprendono anche quella gente lì, invece di riservare tutto lo spazio al miglior offerente. Vorrei che mi portasse con lui, una volta, in questo suo mondo notturno, ma mentre glielo dico fa il suo ingresso Bruno, tra applausi ironici: finalmente ha ritrovato la strada! Lui non ha voglia di scherzare: annuncia che andrà via presto perché “ha da fare”, poi si accascia contro una parete, e io provo a resistere, ma niente. A un certo punto abbandono la lezione di architettura per accovacciarmi davanti a Bruno. Tutto bene?

Per un momento il suo sguardo è simile a quello del ragazzo moro, e alle occhiate oblique sul fiorellino caduto. Poi lo vedo sorridere, come se mi avesse colta in flagrante:

“Hai le calze sfilate”.

Mi osservo le gambe: un foro nella trama di filo è più grande degli altri, si nota appena. Lui l’ha notato. La scoperta sembra risollevarlo.

Alla fine aggiungo a Facebook il bel ragazzo moro, ma il primo allarme mi scatta a un evento che mi ha consigliato, in un centro sociale a rischio sgombero. Non è un vero appuntamento, mi sono perfino portata dietro un’amica, ma lui si presenta a spettacolo finito, e inizia a conversare con mezzo mondo come se io fossi lì per caso. Posso aspettare “un po’”, mi chiede infine, per bere qualcosa insieme? Lo guardo fisso, gli sorrido, e vado a cenare con la mia amica. Qua nessuno è fesso. Al secondo incidente di questo tipo (un appuntamento rimandato a pochi minuti dall’incontro), la breve fitta che avverto allo stomaco mi annuncia che ho visto abbastanza, di questo bel ragazzo moro, e che nella mia vita non mi serve altro caos.

La Petulante si complimenta: finalmente ascolto il corpo! Però, aggiunge, l’istinto di fuggire dai guai si manifesta con un ragazzo che mi attrae da subito, e nonostante i tentativi frustrati sembra desideroso di vedermi. Con Bruno, invece, non avverto nessun mal di pancia premonitore. Ho qualche conclusione in merito? Sì, una: la Petulante è stronza forte. Ma non glielo dico.

Il ragazzo moro non sarà l’unico a distrarmi dalla mia ossessione, ma sarà quello che più mi farà dire: chissà. Una sera mi scrive mentre sono seduta sul letto, con la finestra aperta a sfidare l’uomo col mastino, che fa rumore sulle scale. Sono stanca di temere il suo rancore, e stanca di Bruno, che mi ha appena contattata in chat per sfogarsi sulla sua vita. Così, solo quella sera, mi godo i complimenti del bel ragazzo moro, e mi scopro a mettere su Pino Daniele. Sensazione unica, perché la musica ti prende anche l’anima

Le mie mani si muovono nell’aria che si sta facendo tiepida, promettendomi una primavera precoce.

Se il letto si muove, stavolta, è solo per seguire ritmi miei.

A mercoledì per il seguito!

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Gol!

Mi spiega che io sono un traguardo.

Sono la prima ragazza normale con cui riesce a stare! Un tempo le voleva troppo fighe, anche i suoi amici gli dicevano che doveva abbassare gli standard. Lo dice tranquillo mentre quasi sonnecchia, perché a me può dire tutto.

Non mi nasconde di mandare foto mie ai suoi amici, come mandava a me quelle della Bella Stronza (come se ci fosse paragone!). I commenti che mi riporta sono l’ovvia risposta alla domanda “che ne pensi?”. Di solito dicono che posso andare. Uno aveva fatto un’osservazione sulle mie origini napoletane. Solo una sua amica latina era entusiasta, ma aveva sbagliato a scrivere il mio nome in chat, e adesso lei e Bruno mi chiamano tra loro con quel nome storpiato. Sono stata ribattezzata a mia insaputa.

Ormai ho imparato a contare fino a dieci, quando mi dice queste cose. Cerco sempre una risposta che sia ragionevole e non polemica. Se lo critico per questioni del genere, si scalda molto: è solo uno sincero.

Il bello è che anche lui ha segnato un cambiamento, per me: da quando ero a Barcellona badavo di più all’attrazione fisica, perché se mi piaceva qualcuno mi scoprivo più spesso ricambiata. Con Bruno hanno prevalso altri fattori, però di lui non pensavo che fosse bello o brutto: non pensavo niente. Adesso so che sotto i vestiti che lo infagottano ha un bel corpo, e che non ci crederà mai.

Lui, invece, è felice di farcela “anche” con me. Mi fa strano sentirmi spiegare questo nella mia lingua, subito dopo una siesta. Nella penombra delle imposte chiuse ho come un’allucinazione: attraverso Bruno mi sta parlando l’Italia intera. Te l’ho detto che non valevi granché. Era inutile partire per averne la conferma.

Fin da quando l’ho richiamato, le settimane sono state tutte così: felici o tristi, senza vie di mezzo.

Quando va bene ridiamo, c’è il sole in terrazzo, a volte parliamo pure.

Quando va male non succede all’improvviso, mai. Un giorno ti dici che di ritardi ne ha sempre fatti, che se non ti scrive da due giorni sarà impegnato, che se ti parla delle altre è normale, no? Anche tu puoi parlargli degli altri.

L’unica volta che l’ho fatto pranzare da solo, perché intanto che arrivava avevo già digerito, l’ho lasciato davanti alla tavola apparecchiata, dichiarando che avrei schiacciato un pisolino. Gli sembrava strano, più delle due ore di ritardo con cui si era presentato. Io invece ero fiera di me. Poi mi sono pentita e sono tornata nella stanza a fargli compagnia.

Una notte, pur di addormentarsi nel suo letto lascia casa mia alle quattro. Mi richiama mezz’ora dopo: gli hanno scassinato casa. Gli inquilini erano ancora immersi nel sonno, se lui non fosse tornato a quell’ora avrebbero fatto la scoperta col sole già alto. Mi chiama per sfogarsi e per rassicurarmi di una cosa: non dirà a nessuno dov’era prima di rincasare. Si sente molto nobile per questo, il proverbiale gentiluomo che gode e tace. Io non mi sento così lusingata: cosa staremmo facendo di male? A meno che lui non si vergogni di me. La sua omertà è la soluzione a un problema che si è creato da solo. 

No, non succede all’improvviso. È come la storia della rana nell’acqua fredda, che non è neanche vera. Ma le frasi di Bruno lo sono, e io sono un traguardo, dunque, un “goal” che ha infilato alla vita. Abbiamo litigato pure su come si scriva goal: per lui esiste la versione italianizzata e si deve usare quella.

Io sono stanca di dover italianizzare tutto.

Ciò che non mi stanca ancora è sentirmi dire che non valgo niente.

A lunedì per il seguito!

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Due pensieri veloci, all’indomani dal mio ritorno da Roma.

Quando sono in Italia mi sento sempre un pesce fuor d’acqua a vivere altrove, con due gatti per figli, e due ex a completare la famiglia allargata. Però anche l’Italia si fa strana nel senso che piace a me, nonostante le difficoltà.

Ieri ho incontrato due rappresentanti di Oxfam sotto la Coin di San Giovanni in Laterano: uno era “romano di Caianello”, come si è definito, e a 10 anni passava l’estate dai nonni giù. L’altro doveva essere figlio di romani di Quito, ma voleva venire a Barcellona ad aprire una consulenza di marketing. Attento alla concorrenza, gli ho detto. Intanto, proprio da Barcellona, mi arrivavano i messaggi disperati di una romagnola che rischiava di dormire sotto un ponte ieri sera, finché un paio di consigli miei e un trait d’union di napoletani a Barcellona le hanno trovato una sistemazione.

In quel momento, chiamatemi illusa, ho vissuto l’Italia come quello che vorrei fosse sempre: un’entità più che un territorio, o una bella parte della mia terra che si chiama Europa, e non è quella che vediamo in TV. In questa Europa che conosco io, l’inquilino ucraino ospita conterranee in fuga per València, e nel mio paese si apre un progetto per la numerosa popolazione che proviene dalle zone di guerra, compreso Massimo/Maxim, 11 anni, che odiava la casa di fronte alla mia perché era “in costruzione da quando lui era alle elementari”.

In realtà, si diceva, quella casa era in costruzione da quando io andavo all’asilo.

Ma questa è la volta buona, Maximino: stavolta la stanno costruendo davvero. E sì, pare tutta storta, troppo grande in certi punti e troppo scoperta in altri. Ma intanto cresce, ora che di fronte non ci sono più io.

Per fortuna la vedo anche da qua.

Rachel Brice - Alchetron, The Free Social Encyclopedia
La mia “prof.” di danza, da alchetron.com

Mi fa paura scriverlo, ma in questi momenti critici ho il lusso di stare bene, perché ho anche l’altro lusso, che è la chiave, di fare ciò che più voglio al mondo.

Nel mio caso è scrivere, ed è un privilegio incredibile, il fatto che possa dedicarmi solo a questo. Un tipo che mi ha ispirato un certo libro sta cercando di conciliare la stesura della sua autobiografia con la necessità di mangiare: adesso proverà la strada del lavoro part-time, che gli consenta di affittare almeno una stanzetta. È una precarietà difficile da accettare, per lui che viene da un paese in cui a trent’anni hai un lavoro fisso e due figli. Ma lui ritiene ancora più difficile passare una vita ad avere qualcosa che non vuole (tipo un lavoro fisso e due figli), mentre ciò che cerca davvero è una stabilità emotiva. Decliniamoci ciò che desideriamo in termini che abbiano un senso per noi.

Fare ciò che vogliamo non dovrebbe essere un privilegio, ma ho notato che ci sono molte esperienze che, con qualche accorgimento, possiamo viverci anche senza rimandarle a quando avremo più tempo o soldi. Uno dei ragazzi senzatetto che ospitavo nei mesi scorsi è tornato in strada, nonostante le opzioni di alloggio e lavoro che gli sono state presentate (soffre di ansia, e la salute mentale non è ancora gratuita). Mi sa che non ha neanche il coraggio di chiedere l’elemosina. Però ama leggere e non ha mai smesso, nonostante tutto: lo ammiro, perché io al suo posto starei già bestemmiando in trecento lingue diverse, altro che centellinarmi Proust!

Nei limiti del possibile, dunque, dedicatevi a ciò che vi fa stare meglio, fossero anche cinque minuti di danza del ventre! (Sul serio, mi sono iscritta a una scuola online di fusion: ogni volta che alzo un piede da terra viene Archie ad azzannarmelo…). Diceva Watzlawick che il più piccolo dei cambiamenti influisce su un intero sistema.

E fare ogni giorno, almeno un po’, la più accessibile delle cose che amiamo, cambia davvero il quadro.

(Presto mi vedrete ballare proprio così. Sì).

PREPOSITIONS 1 - Cuestionario

Stavolta c’eravamo quasi.

Nell’A.D. 2003, esasperata dall’inglese parlato a Manchester, ho un’illuminazione improvvisa sul vero scopo della mia vita: poter pronunciare in circostanze non forzate le parole “The book is on the table”. E che cavolo, ai miei tempi quella era l’unica frase di senso compiuto che insegnasse la scuola italiana! O giù di lì.

Nell’A.D. 2021, in particolare sabato scorso, metto insieme tutto il mio inglese per fare il più scrauso dei test: quello di Duolingo! In barba alla dittatura IELTS, alla mia nuova università pezzotta va bene pure quello. Regole del test: 1) non spostarsi dalla webcam, 2) non parlare con nessuno, 3) non muovere il cursore dalla casella delle prove. Se entra qualcuno nella stanza, il test è annullato. Ovvio che, intanto che vado avanti con le prove, il caro gattino Archie: 1) si sveglia, 2) salta sul tavolo, 3) beve con soddisfazione dal mio bicchiere d’acqua, 4) mi salta in grembo, 5) mi morde il cavallo dei pantaloni, 6) si dispone tronfio a dormirmi sulle gambe. Il tutto, senza che io possa battere ciglio. Chissà i risultati del test, adesso.

La sera sono già a letto a mezzanotte, quando mi accorgo che manca qualcosa: il mio ebook! Sto leggendo il romanzone di Hilary Mantel sulla Rivoluzione francese. Come sta andando? Diciamo che adoro, ma mi concilia il sonno. E mi sono dimenticata di riporlo sul comodino. Per fortuna, il compagno di quarantena è rimasto sveglio a placare quella belva di Archie.

“Per favore” grido in inglese, “mi prendi il romanzo di Mantel? L’ebook è sul…”.

Indovinate dov’era l’ebook.

E sì, sabato scorso avrei dovuto dire “l’ereader“, ma degli oltre cento libri che ho sul Kobo volevo leggere proprio quello di Mantel. E sì, davanti alla sospirata parola book c’era quella maledetta “e”. Ma ormai, per problemi di spazio e per la difficoltà a trovare libri non tradotti, sono quasi costretta ad andare di ebook: dunque, il mio sogno di usare la parola “libro” è sfumato, forse per sempre.

Che dire? Questa è la prova più cretina e lampante di ciò che predico da secoli: bisogna adattare i nostri sogni ai cambiamenti della vita!

Come quando i test di fertilità mi suggeriscono che sia meglio adottare, e a quel punto i salti mortali per fare la scrittrice parassita risultano meno allettanti di uno stipendio, almeno agli occhi di chi dirige un orfanotrofio.

Come quando dovevo diventare Claudia Schiffer, ma poi capirete, ho deciso di non privarvi di questo fantastico blog.

Come quando dovevo sposarmi con Kim Rossi Stuart, ma lui ha scelto un’altra (cos’avrà lei che io non ho?), e allora ho formato la famiglia più improbabile di Barcellona: The MArvians! Dalla crasi dei cognomi Marchese-Servian, featuring la “Ar” di Archie. Kardashians, chi?

Così me ne resto qua al computer, disputandomi un atroce caffè solubile con Archie che vuole assaggiare, mentre il compagno di quarantena fa colazione con dei capellini cotti nel microonde, su cui ha schiaffato una scatoletta di tonno: il tutto, a un millimetro dal mio ebook.

Perché l’ebook, ovviamente, è sul tavolo.

(I miei nuovi miti di sempre!)

All’improvviso, mentre sto facendo colazione nella veranda del Buenas Migas, le casse del locale anglo-italiano passano una canzone che conosco bene, per usare un eufemismo.

Era un mio tormentone. Era il tormentone. Lo era diventato anche per i miei amici, che un po’ mi schifavano per questo. Prendete il commento tipico del mio migliore amico: “‘A gente fa primma a se scurda’ ‘e muorte!“. Per chi ci legge da fuori Napoli, “Le persone tardano meno a obliare i cari estinti”.

Perché la canzone parlava di un amore che sconfiggeva pioggia e sole, e che sopravviveva a tutto, specie al tempo. Credevo (più che altro, temevo) che sarebbe successo a me con un tizio che, inso’, forse un pochetto mi piaceva. Ma giusto un po’.

Oggi ho preso la canzone come un regalo inaspettato, e mentre la canticchiavo per la gioia dell’unico spettatore (un catalano filiforme che sorbiva un frappuccino con la cannuccia), mi sono divertita a vedere come i rumori di Barcellona partecipassero a modo loro al mio “momento nostalgia”:

Pioggia e sole abbaiano e mordono (wrooom!)

ma lasciano (din don) lasciano il tempo che trovano (din don, ripetuto altre otto volte)

E il vero amore può (“Bueno, acompánala en este proceso desde el amor.”) nascondersi, confondersi (“Nadie es eterno.”)

ma non può perdersi mai… (“Ahora te dejo que tengo que desayunar”)…

Nonostante le campane e i clacson, mi sono resa conto di una cosa: la canzone aveva ragione. Quando la ascoltavo spesso, ero troppo giovane e scema per capire che l’amore si trasforma, cambia qualità e funzione, e pure intensità. Forse l’unico modo che ha di sconfiggere il tempo è trasformarsi.

Con la persona che associavo alla canzone ci sentiamo anche a distanza, e ci sosteniamo ancora nei momenti più epici, nel bene e nel male. Altrimenti, il mio mondo sarebbe stato orfano di un pezzo importante del suo passato, e del presente.

Se questa pandemia mi ha insegnato qualcosa, è che le distanze non cancellano tutto, e che a volte non vedersi non cambia niente. Ci si ritrova sempre lì. Sempre e per… tutto quello che si vuole ancora condividere, con gioia rinnovata e con una sola certezza.

Mi troverai.

Non si sa come, né dove, ma mi troverai.