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Francisco Goncalves Photo

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Sento l’italiano e mi giro a guardarla, nel supermercato. La trovo alta, ma non mi accorgo della pelle ambrata. L’accento mi pare del sud, è lontana e non so con chi parla. Lo scopro alla cassa.

Con una bambina.

I capelli mai visti. Come quelli della mamma, sospetto paziente mentre la cassiera sbriga non so che faccende. Solo che la mamma, che ha la pelle più scura di lei, se li è stirati un po’, sempre mossi ma addomesticati. Quelli della piccola sono ancora anellini di lana, che vorresti passarci le mani dentro, proprio ora che si arrampica annoiata sul parapetto accanto alle colonnine antitaccheggio.

Che bei capelli che hai, vorrei dirle nella nostra lingua, perché lei almeno è italiana, la madre no. O forse chissà, non è italiana manco la bimba, ufficialmente, perché qualche idiota in Parlamento o fuori ritiene che non lo sia anche se in Italia c’è nata. O ci avrà vissuto la maggior parte dei suoi 5 anni. Infatti, quando tutto è ormai in busta, alla mamma dice Guarda, e non nel senso spagnolo di conserva. Proprio guarda.

Sono tornata ad accorgermi di queste piccole scene, perché è primavera anche se non si vede, o non sempre.

Mi sono accorta anche che è meglio così, un po’ di quasi-primavera ci sta. Non che sia di quelle che procrastinano i piaceri. Ma in questi giorni da convalescente, e a volte lo si è senza aver mai avuto l’influenza, mi rendo conto che certe sensazioni le sottovalutiamo. Il primo giorno in cui stai meglio. Non bene, che manco ti accorgi di starci. Meglio. Il corpo di nuovo in vigore, e la mezza speranza di vedere qualcosa di buono, uscendo. Come una bimba coi capelli di lana che si arrampica alla cassa di un supermercato.

Così è aprile, che certi sommi poeti considerano il mese più crudele, e sfottute cantantesse nostrane dipingono piovoso, dopo lunghi e tormentati inverni . Io finora ci vedo accenni. Di serenità, speranza. Di lutti quasi elaborati, di sogni ammuffiti riconsegnati a cassetti tarlati. E piccole lezioni sull’imprevedibilità della vita, che mi fa pure comodo perché non devo pensare a tutto io.

Mi posso pure riposare sul prato di filo del copriletto verde, mezzo pieno, che ha sostituito quello viola complicato dalle matasse di coperte e dal freddo invernale. Ora tra me e il materasso c’è solo il piumone smilzo e una coperta a fiori, che se mi ci infilo col vestito estivo ereditato da Alessandra (ma con la giacchina sopra) mi manda riflessi azzurri. Tra me e la finestra, una gatta, quando passa.

E allora, dopo una riunione per la città della Scienza, mentre ricordo di avere il frigo vuoto e mi allungo verso il cinese di Villaroel (un cinese per europei, ma il riso alle verdure è buono), mi sembra bello pure il capannone bianco del nuovo Mercat de Sant Antoni. Quello degli alimentari, già sprangato per l’ora tarda. Perché? Boh, decido, è qualcosa nell’aria. Ho il cappotto ma è fresca, non ti accarezza ma neanche punge.

A volte serve anche questo.

iomammapapà2Il mio paese è pieno di nonne tristi, che si chiedono perché il Signore ha donato loro una longevità che non volevano. Le loro parole escono come lamenti dalla lunga mantella fatta a mano, lente e stanche come i loro gesti.

Ci sono anche madri nervose, che hanno imparato dalle nonne tristi che questo mondo è pieno di pericoli. Che non importa cosa tu faccia, cosa t’inventi per migliorare la tua vita e quella di chi ami. Andrà sempre male. Sono fragili come le loro unghie, ma non lo danno a vedere, o così credono. Ogni rumore le fa saltare, ogni istante di quiete è come rubato a un destino ineluttabile.

Ci sono anche figlie, interrotte. Come il film. Hanno mangiato la pasta e lacrime delle nonne tristi, inseguendo i pesciolini che immaginavano nei riflessi del frigo, senza sapere che a inseguirli sarebbero andate molto lontano. Dove le madri ansiose non avrebbero mai immaginato di capitare, una volta all’anno, con una valigia piena di medicine in caso si raffreddassero.

Ma è inutile andare lontano se una parte di te è rimasta in una stanza bianca e rosa dal parato lezioso e il letto a una piazza. Su cui ti siedi a leggere queste parole di quando credevi di risolvere i problemi con un sorriso:

La ansiedad y el tormento del pasado afloran en la psique con carácter cíclico. Aunque una profunda purificación elimina buena parte del antiguo dolor y la antigua cólera, el residuo jamás se puede borrar por completo. Tiene que dejar una ligera ceniza, no un fuego devorador.

E dalle ceneri di un sonno pomeridiano ti alzi e ti avvicini alla finestra, osservando la pioggia tra le fessure della persiana. Gli occhi sono più grandi, le pupille no. Allora lo fai. Saluti la bimba del parato a fiorellini e lo ammetti, perché si perdona e si va avanti solo dicendo la verità, ammetti che è stata anche felice.

Ora tocca a te.

breast-feeding-statueÈ quando alzo gli occhi dal piatto, distrutta dall’immensità della razione di riso, che lo vedo.

Scende incerto le scale tra il bancone e i tavoli, le scarpe minuscole come gli occhietti che sembrano graffi, ma allegri, sul nasino che è quanto un pollice.

Lo riconosco subito, ed è strano.

La prima volta che l’ho visto non era ancora nato.

E io andavo di fretta. Nell’appartamento che avevo lasciato di corsa, precipitandomi nel ristorante cinese di sua mamma, si stava consumando una piccola tragedia gastronomica. Di quelle che succedono quando dei sardi di buona volontà hanno il gentile pensiero di invitare ANCHE il tuo ragazzo.

– Ma lui è musulmano, ragazzi. Sicuri che…?
– Ma certo, figurati!

Appena arrivati ci era venuta addosso la padrona di casa, il cappotto infilato a metà:

– Scendo un attimo, ci siamo scordati di comprare l’acqua!

In tavola solo vino e birra. Al ritorno della gentile donzella, un altro dubbio per il cuoco:

– Ma il ragù con che carne l’hai fatto?
– Di maiale.

Panico.

– Tranqulli – avevo fatto io, sbirciando l’amato bene seduto sul divano – il secondo piatto basterà. Vedo una pentola di zucchine e gamberetti, no?

– Ah, meno male – aveva risposto il cuoco, versando mezza bottiglia di vino nella wok indicata.

Ed eccomi qui, al ristorante cinese, a ordinare riso alle verdure SENZA carne. Stupita perché la graziosa cameriera che mi serviva, che sembrava poco più di una bambina, aveva un pancione più grande di lei. Quanti anni poteva avere? E il pancione la rendeva più bella, o era sempre così?

Avevo ignorato i commenti del signore ubriaco, che in seguito avrei sempre trovato lì, a guardare la televisione e spiare le clienti, ed ero corsa via col prezioso fardello, da unire ai tortelli improvvisati sul momento.

Anche adesso pago direttamente alla cassa.

– Quanto tempo ha, il piccolo? – chiedo alla mamma che gli sistema le maniche.

Ormai mi conosce così bene che quando mi vede dice subito pasta de aLLoz sin caLne. Ma il fagotto intravisto una volta sola in una culla, in cima a delle scale, era sparito insieme al pancione.

– Un anno e mezzo – risponde contenta, come se le avessi fatto un complimento.

Già.

E in quest’anno e mezzo abbiamo imparato tutti e due a camminare.

Lui piano, cadendo in continuazione, piangendo o magari osservandosi stupito avere fame e sete e sonno, senza sapere che i suoi occhi a virgola sono diversi dai miei che ora lo ammirano più grandi del solito.

Io… Pure. Incespicando tra certezze instabili e solide precarietà, sbagliando le scorciatoie e infilando tutte le strade che allungano il percorso.

Chissà se per lui sarà così. Se dovrà imparare anche lui a camminare più e più volte.

Quante volte…?, mi chiedo ogni tanto, esasperata.

Finché qualcuno non mi ha risposto:

– Tutte quelle necessarie.

Amen.

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