Archivio degli articoli con tag: sessismo

Traduco in fretta, ma volentieri, questo articolo necessario di Gemma Herrero, sull’ambiente in cui devono lavorare le giornaliste sportive.

Da Telecinco

Nel corso dell’ultima settimana, mi è risuonata un’idea in testa senza sosta, senza tregua. E poi le domande. Come è stato possibile arrivare a questo punto? Com’è successo che noi della stampa sportiva non abbiamo denunciato a sufficienza le azioni di Rubiales e compagnia? Come abbiamo potuto tollerare, normalizzare, applaudire, reggere il gioco quando c’erano tanti segnali allarmanti, sotto gli occhi di chiunque? Come abbiamo creduto con tanta facilità al discorso sulle quindici giocatrici giudicandole delle bambine viziate, capricciose, maleducate, ricattatrici, e lo abbiamo diffuso generando una condanna generalizzata nei loro confronti? In definitiva, come abbiamo potuto lasciarle sole, e soprattutto perché? E la risposta arrivava chiara, spietata, secca: perché anche nella stampa sportiva ci sono tanti Rubiales. Per questo non le abbiamo sapute raccontare, perché i muri, i pregiudizi maschilisti – se non misogini – si trovavano, si trovano, anche nelle redazioni.

Quelli che ci hanno toccato e baciato senza permesso né consenso, e il giorno dopo ci hanno informato, avvertito, che non era niente di grave, non esagerare e non ingrandire le cose. Quelli che ti hanno mandato messaggi vocali spiegandoti quanto gli piacevano le tue tette, e dopo fanno finta che non si ricordano, che non è successo proprio niente, e con costoro continui a condividere spazi di lavoro. Questi altri che ora sono famosi, e qualche anno fa ti chiedevano il numero di telefono per passarlo a un giocatore “perché vuole parlare con te e che ti costa, che fa”, questi che spiegavano ad alta voce nell’autobus che ci portava allo stadio come si erano divertiti la notte precedente andando ‘a puttane’, ed era tanto divertente, tutti ridevano, quelli che annunciavano guardando l’orologio che restavano un po’ di più in redazione perché così arrivavano a casa quando i loro figli avevano già fatto il bagnetto e cenato.

Quelli che si indignavano quando gli facevi notare che avevano comportamenti maschilisti, perché loro non hanno ucciso né picchiato nessuno, e come osi dire questo a me, che ho una madre, una moglie e delle figlie. Quelli che indicavano te come una donna acida, una pazza, stai dando i numeri. Quelli che ti davano una bella ripassatina con gli occhi, da capo a piedi. Quelli che quando ti salutavano stringevano più del dovuto. Quelli che ci hanno relegato ai nostri posti di lavoro e ci hanno ammonito perché abbassassimo il tono, perché stai esagerando, calmati, non ti arrabbiare. Quelli che hanno condiviso sui loro social foto di giornaliste con la bocca aperta in una chiara allusione sessuale, e ancora hanno colonne sui giornali, e spazio nei mezzi di comunicazione generalisti perché era uno scherzo, perdio. Quelli che non hanno mai te come punto di riferimento, come modello da imitare, e non ti citano né ti menzionano, ma in compenso si dedicano grandi elogi tra loro. Quelli che addirittura sono arrivati a imitarti, burlandosi di te, in un programma in diretta TV. Quelli di cui parliamo quando noi, le donne, le giornaliste, ci riuniamo per infonderci forza, trasmetterci calore, comprensione, amore, compagnia, affetto, quando ridiamo, ci liberiamo e iniziamo a fare una lista coi loro nomi per avvertirci tra di noi.

Soprattutto, quelli che non abbiamo denunciato perché come ti vai a mettere in guai del genere, non ti crederanno, dovrai dare tante di quelle spiegazioni su cosa ci facevi tu con un bicchiere di troppo, e questa storia ti perseguiterà per sempre. Se già lo sapevi che il giornalismo sportivo era così, perché ti impegoli. O ti ci abitui o non ti lamenti, non parli, taci. Perché non sarai mai più solo una giornalista, ma quella che ha denunciato, e per tutta la vita ti perseguiterà uno stigma, ti sbatteranno le porte in faccia, non ti assumeranno. Porterai la nomea di problematica, esagerata, pazza, mentre loro fanno i padroni, hanno incarichi con nomi lunghi in inglese, fanno carriera e si proteggono tra loro perché niente di ciò che fanno è in malafede, non fare così, che basta una denuncia di queste e gli rovini la vita con la tua testa calda. Il patto tra gentiluomini, l’omertà. Quelli che… not all men, che invece di mettersi dalla tua parte si impegnano a sottolineare che in fondo l’altro è un brav’uomo, un po’ pesante è vero, uno che fa tanti errori, ma una brava persona. Quelli che dubitano della tua parola, della tua esperienza, quelli che la sottovalutano, quelli che sono incapaci di provare empatia, di comprendere l’effetto che ha su di te, sulla tua autostima, sulla tua salute fisica e mentale, e continuano a farti sapere che hai la pelle troppo fina, la devi indurire di più e meglio. Perché, vediamo un po’, cos’è che ti sarebbe successo? Di cosa ti lamenti esattamente?

Non è la prima volta che racconto, che scrivo, che arrivai a Barcellona un settembre, e tre mesi dopo, quando ancora mi stavo ritagliando il mio spazio e stavo conoscendo la città, il lavoro e i miei colleghi, il Barça celebrò una cena di Natale e mi toccò sedermi al tavolo con un dirigente con cui non mi ero mai incrociata, e che passò tutto il tempo a fare commenti sessisti, presunti scherzi, doppi sensi, davanti ai quali i miei colleghi si scompisciavano: commenti tipo che era una buona cosa avere delle donne giornaliste, perché potevi far cadere a terra il tovagliolo e te l’avrebbero succhiato sotto il tavolo. Addirittura mimò la cosa a gesti. Lo shock e il mio desiderio di far parte dell’ambiente, di non rovinare tutto dall’inizio, mi spinsero a tacere in un primo momento. Sedute al tavolo c’eravamo due donne, due giornaliste, e quando l’altra dopo la cena si alzò per registrare il discorso del presidente, il dirigente se ne uscì con: “Che tette!”. E tutti risero. A quel punto esplosi ed esclamai, furiosa, che quando la mia collega tornava al tavolo doveva dirglielo in faccia. Il silenzio fu brutale. Il presidente cominciò in quel momento a parlare e, dopo aver terminato, un giornalista, uno solo, mi disse nell’orecchio: “Qui non siamo tutti così”. Il resto se ne andò senza salutarmi e la mia sensazione fu che avevo sbagliato. Io. La guastafeste. Si stavano divertendo così tanto…

Questa storia l’ho spiegata diverse volte in pubblico, e aspetto ancora che i miei colleghi mi chiedano scusa. So che gli è arrivata, so che mi hanno sentita, so che mi hanno letto, so che si sono avvertiti tra loro. E nessuno è stato capace di esprimermi in privato né le sue scuse né, ovviamente, nessun rimorso per quanto fosse successo, vent’anni dopo: il tempo non gli è mancato. Adesso già li vedo, li ascolto e li leggo mentre pontificano dai loro rispettivi spazi sul maschilismo, sull’avanzare del femminismo, sull’abuso di potere, sul patriarcato e sul sistema arcaico della Federazione spagnola di calcio che ha sostenuto Rubiales. Solennemente indignati.

Due anni fa, Maria Tikas ha pubblicato un reportage su Sport intitolato “Le giornaliste dicono basta”, in cui quindici giornaliste sportive – tra cui c’ero anch’io – raccontavano le mancanze di rispetto, gli abusi, gli insulti e le minacce che facevano parte della nostra vita quotidiana e che erano visibili, ben visibili, sui social. Quindici, che coincidenza. Le nostre esperienze erano identiche, dei veri e propri calchi, ma non è successo nulla. Qualche messaggio privato e pubblico qua e là, e molti silenzi, perché per i più non era niente di clamoroso; già sai come sono i social, anche agli uomini succede. Puttane, zoccole, non sai di cosa parli, non sai un cazzo, sei un’incapace e sei lì grazie a tuo marito, perché sei raccomandata, per le tue tette, per i capelli lunghi, perché lo stai succhiando al capo, che ne sai tu, grassona, spaventapasseri, vecchiaccia, ragazzina, scema. Insulti senza alcun dubbio misogini e maschilisti che sono stati, in generale, ignorati del tutto. Erano il prezzo che bisognava pagare.

Ambienti maggioritariamente maschili o mascolinizzati – con tutto ciò che questo comporta, uomini bianchi eterosessuali che da anni si applaudono tra loro ed espellono dall’ecosistema qualsiasi dissidenza. Quelli che fanno gli offesi quando li accusi, e poi i complici silenziosi, necessari per sostenere una struttura tossica, che adesso cercano di mantenere la loro patina di dignità. Quelli che applaudirono al grido di “sono con te” a Rubiales, nella notte degli sfigati e degli imbecilli totali. Quelli che il lunedì, dopo le scuse inaccettabili nelle quali il presidente della Real Federazione Spagnola di Calcio si stava giustificando, volevano già chiudere il caso perché “ha chiesto scusa e questo gli fa onore”, e che ancora sostenevano che il gesto in sé era una sciocchezza e la caccia alle streghe che si era sollevata era uno scandalo. Quelli che da un giorno all’altro, abracadabra, hanno sviluppato una coscienza femminista. Quelli che fingeranno ancora di non leggermi, quelli che risponderanno irritati a questo articolo esigendo che faccia nomi, perché altrimenti ne escono tutti infangati, che vergogna, che modi sono, che prove avrei?

Quelli che ti incitano a scrivere arrabbiata perché così lo fai meglio, senza rendersi conto, senza che gli importi il tuo logorio fisico e mentale. Perfino quelli che hanno bisogno della femminista di guardia al loro fianco perché poveretti, loro non sanno, è che li disegnano così, ed è uno sforzo titanico capire, leggere, ascoltare, rivisitarsi, e non hanno nessuna cazzo di voglia di guardarsi allo specchio perché in fondo molti sanno che sì, che sono così anche loro, e decidono consapevolmente di fregarsene. Quelli che torneranno oggi alle redazioni dove la presenza femminile è scarsa o inesistente, senza nessuna prospettiva di genere, e torneranno a spiegarci tutto, di nuovo. E non è finita, no. Magari lo fosse. Così che, alla fine, torno all’inizio, alla domanda martellante che mi perseguita da giorni: come facevamo a raccontare loro, se anche noi siamo circondate? E provo molta vergogna.

Te la sei cercata? Non basta: te la devi meritare.

Ma l’avrei scoperto solo a casa, il tempo di far cadere dal pero due commesse de La Central in c. Mallorca, che sembravano ignare di cosa fosse la… Cultura de la violación (2019, pubblicato inizialmente da Flâneur nel 2017). Poi una delle due ha scoperto quale fosse la casa editrice, e in un balzo mirabile ha sottratto alla mensola più alta questo libricino, che pareva un pamphlet. Sette euro.

Ero già pronta a leggerlo nel bar della libreria ma, quando mi sono arresa all’afa della terraza e mi sono installata all’interno, ho sperimentato la carrambata del secolo: seduto accanto a me c’era un compagno delle medie di mio fratello! Avevamo venticinque anni da riassumerci davanti a un café con hielo, e tra le tante novità c’era il fenomeno descritto da Giulia Blasi: sempre più uomini si fanno sentire anche in Italia contro la cultura dello stupro.

Dunque mi toccava tornare a casa, coi capelli appiccicati alla schiena sudata, per poter aprire il libro e… leggere della violenza a Brigitte Vasallo.

L’attivista non ne aveva mai parlato prima, ma ha ricevuto la prima gogna mediatica per le sue riflessioni sul caso de La Manada: una profusione di commenti sul fatto che a Vasallo, una “bollera malfollada” (“lesbicaccia che non scopa”), non poteva mai succedere ciò che era accaduto alla ragazza violentata (letteralmente) dal branco. E allora, avverte l’autrice, se le donne sono disumanizzate e considerate un oggetto, e se “l’unica possibilità di esistenza dell’oggetto è attraverso il soggetto”, si arriva al paradosso: te la devi meritare, la violenza. Devi esserne degna, perché nella cultura dello stupro diventa un “regalo di esistenza, una ricompensa per l’oggetto”. Le prove? L’immagine dei tweet ricevuti a proposito de La Manada, tra i quali per me vince ZoteParo: “A questa lesbicona femmigrulla non la stupra neanche il moro più in astinenza, aaarrrgggggg” (p. 17, l’ultima parola è copiata paro paro, il resto qui e in seguito è una traduzione mia).

Non è mica una questione di uomini e donne, spiega Vasallo: secondo il CDC, un bambino su sei e una bambina su quattro subiscono abusi sessuali prima di compiere 18 anni. Dunque, ciò che le vittime di stupro hanno in comune “non è il fatto di essere donne, ma il fatto di essere state violentate da uomini”. Lo stupro non si riduce a “uomini stupratori e donne stuprate”, ma a una questione di “potere strutturale spalleggiato da meccanismi di cosificazione”, che hanno come bersaglio le persone in posizione subalterna. Nelle campagne antistupro c’è il mostro cattivo, o la vittima che piange: mai che impugnasse una pistola, perché, come Vasallo segnala altrove, decostruire la mascolinità significa che gli uomini ora possono piangere, ma decostruire la femminilità non include l’idea che le donne possano usare la violenza. No, devono essere le vittime perfette. “Per poter disporre di un’altra persona, bisogna disumanizzarla, renderla irriconoscibile, esogena, alterizzarla” (p. 15). Mi viene da pensare all’immagine del “pezzo di carne” (che di certo, postilla vegana, non “alterizza” solo gli individui della mia specie!), ma Vasallo imperversa: c’è una dinamica dello stupro come castigo, come affronto che uomini di origini geografiche diverse si fanno tra loro, attraverso i corpi delle donne che rappresentano la patria. Ecco qua la prospettiva “razziale”: a Colonia quanti uomini bianchi commisero abusi? Quante donne razzializzate subirono quegli abusi? E Abu Grahib non è stato il tipico esempio di stupro usato verso degli uomini (anche da militari donne) come arma da guerra?

A questo punto entra in contropiede Úrsula Santa Cruz Castillo, nel secondo saggio del volumetto: può il genere come categoria di oppressione spiegare la violenza esercitata su donne razzializzate e impoverite dai colonialismi? “Continueremo a insistere sul patriarcato come sistema di oppressione comune a tutte le donne?” si chiede Castillo a p. 27, e mi ricorda la giovanissima attivista latina che non riesco più a rintracciare, ma che ironizzava su TikTok: “Beata te, se il massimo dell’oppressione che ricevi è per il fatto di essere donna!”. Anche Castillo non le manda a dire: “Il vostro universalismo ci nega e ci annulla”, in quest’Europa che promuove il modello della femminista egemonica “emancipata”, che l’8 marzo grida “Se toccano una, ci toccano tutte” intanto che lo stato guatemalteco assassina proprio un 8 marzo 43 ragazzine e adolescenti che non erano bianche, né europee, dunque non erano “donne”. Non sono donne neanche le molte migranti cis e trans che “si definiscono come lavoratrici sessuali, mettendo in discussione e decostruendo il discorso stigmatizzante, moralista e vittimista del femminismo abolizionista e molte associazioni di ‘salvatrici delle puttane'”.

Castillo è arrabbiata e sa che è un problema (vedesse quanto lo è in Italia, dove il tone policing la fa da padrone!): le femministe bianche si sentono “aggredite” dai sistemi di lotta delle razzializzate, ma se fossero nei panni di queste ultime capirebbero la necessità di togliersi “questi occhiali che vedono solo il genere” (p. 35), e ripenserebbero un po’ la tanto nominata sorellanza.

E qui, non venitemi a picchiare apposta, ho pensato all’ultimo accorato appello della scrittrice che ha unito e commosso mezza Italia, e che ci invitava a non dividerci tra noi facendo il gioco dei misogini: l’idea in sé mi trova d’accordissimo, anche perché non ho motivi particolari per sentirmi esclusa o incazzata più del dovuto. Ma capisco l’attivista di cui sopra che su TikTok chiosava: scusate, ma la sorellanza io ce l’ho con le mie compagne di lotta.

Certo, è così umano pensare che i “veri problemi” sono (letteralmente) i cazzi nostri. La moglie spagnola di un amico considerava delle piagnucolone quelle che non apprezzavano il catcalling, mentre spiegava a un mio ex che il suo problema era quello di mettersi sempre con delle femministe (ehm). Poi è scesa in trincea per i diritti delle donne (o meglio, i suoi), quando ha capito che nella sua azienda non l’avrebbero considerata al pari dei colleghi uomini. Antifemminista, mica scema.

Non so cosa risponderebbe a Deyanira Schurjin, che mi chiede: quella per arrivare in Europa è una “rotta” o un’avventura? Perché nel secondo caso chiunque può essere il tuo stupratore, torturatore o prosseneta, e nel primo, con un po’ di fortuna, ti violenta solo il tuo protettore, o al massimo qualche amico suo. In quelle che furono colonie occidentali, lo stupro è un’arma da guerra, o uno strumento perpetrato da organizzazioni criminali, mentre nel cosiddetto Occidente la vecchia struttura di dominazione maschile è presente “in un formato di minore intensità” (p. 41), reso invisibile e naturalizzato: la maggior parte della violenza di genere è costituita da atti individuali. Ma non ci inganniamo: anche quello porta alla vessazione e denigrazione e può degenerare nel femminicidio, perché “gli elementi centrali nella configurazione del dominio maschile sono esattamente gli stessi”. Nelle zone di conflitto, invece, “il corpo della donna si trasforma in un’ulteriore parte del territorio”, con un’aggravante in quei casi in cui le donne subiscono anche la violenza privata dei propri compagni, “allo stesso modo delle donne occidentali” (p. 42).

Inutile indignarsi con condiscendenza, formare associazioni al grido di “Mai più!”, e denunciare la violazione dei diritti umani, che ormai sono soprattutto “la base teorica del modo in cui si produce la ricchezza”, e invece di promuovere una distribuzione equa del potere perpetrano “i processi dominanti di divisione sociale, sessuale, etnica e territoriale” (p. 45). Dell’excursus, per me sconcertante, che l’autrice fa su Camille Paglia e le sue critiche al “femminismo egemonico”, vorrei segnalare soprattutto questa idea: per le donne razzializzate l’unica opzione è difendersi, invece di finire distrutte e senza risorse. D’altronde esiste un femminismo bianco “della vendetta”, che Schurjin individua in Despentes, Solanas, Salander e altre. Confesso che qui mi è venuto da pensare alle trappole del cosiddetto empowerment, tra cui quella di colpevolizzare le vittime, ma ancora una volta mi devo ricordare che, se violentano me, almeno ho il passaporto giusto per recarmi dalla polizia.

Concludo con i quesiti di Ana Llurba, che fa un excursus sul mito della partenogenesi nel Mediterraneo e mi ha messo in crisi sul “consenso” di Maria di Nazareth: non so il vostro parroco, ma il mio al catechismo lo dava per scontato! Ok, quell'”Io sono la serva del signore” arriva ex-post, però Dio è onnisciente… Vabbè. Da tutto questo retaggio culturale, secondo Llurba, ci è rimasta “un’eco misogina che difende la vittima solo se è stata previamente santificata” (p. 58), nella collaudatissima dicotomia (denunciata perfino da Jovanotti!) tra la vergine e la puttana.

Questo libro mi ha fatto riflettere anche nei punti in cui non sono d’accordo: è minuscolo ma ben compatto, su tutti i fronti. Spero venga tradotto presto in italiano, e…

… Ok, non resisto e concludo con un ultimo auspicio di Brigitte Vasallo:

“La decostruzione del razzismo, del maschilismo, della omo-lesbo-transfobia ecc. non è un privilegio di gente benestante con vite facili e stupide, senza nessun trauma e senza altre occupazioni che quella di psicanalizzarsi in eterno. Al contrario. Delle nostre ferite, possiamo farne un rizoma” (p. 13).

L'immagine può contenere: testo

Da Automatizzato comunismo memetico: seguite la pagina!

Ormai sapete come funziona.

“Esco, ti serve qualcosa?”, e faccio la lista.

La pasta mi serve sempre, ovvio, ma quale? Scrivo un nome, mostro una foto. La Garofalo nei formati lunghi è rara da trovare sotto casa, e io non amo la pasta corta, ma meglio che niente. “Quello che vuoi tu, ma che sia Garofalo”.

Il risultato lo scopro un’oretta dopo, in cucina. Appoggiato al microonde c’è un pacco che ha tutta la familiarità dei colori giusti: il rosso e nero della confezione, e il colore dorato di queste micropenne… Un momento, che formato è? Allora leggo meglio. Non è Garofalo, c’è scritto Gallo. “Maccheroni al huevo” (sic). Esasperata, apro il frigo. Ah, meno male, ha preso il latte di soia. Sì, aromatizzato alla vaniglia. Addio besciamella, maionese, pasta al forno. Ma tanto, con le micropenne della Gallo, cosa vuoi cucinare?

Tempo dopo vedo un meme che vuol essere divertente: una “lista della spesa per uomini”. Niente parole, solo fotografie del prodotto con la marca bene in vista. Beh, a casa mia s’è visto che magari neanche con quelle.

Ieri ho cominciato il discorso sul carico mentale delle donne, che è una cosa a cui in realtà non avevo mai pensato, per tre motivi: adoro vivere da sola; ho smesso di farlo da meno di tre mesi, e la casa appartiene a me; mi piace essere un po’ l’organizzatrice della situazione. Ma sì, è stressante a un certo punto essere tu quella che decide quando è indispensabile fare una lavatrice, col cielo che minaccia pioggia e un salotto dov’è complicato mettere uno stenditoio; o quella che riconosce che una parte dell’odiato compito di lavare i piatti consiste nel mettere a posto le stoviglie già asciutte, e non limitarsi a pulire solo quello che entrava nel lavandino. E non voglio neanche immaginare cosa diventi quando ci sono maggiori ristrettezze economiche, o bambini di mezzo.

Le donne della generazione di mia madre hanno sempre obiettato: “Che fa? Ti rovini la pace familiare per due scemenze che da sola spicci in quattro e quattr’otto?”. Quando non erano casalinghe, guadagnavano qualcosa come la metà del marito (e se succede il contrario, ho sperimentato sulla mia pelle, apriti cielo). Il marito non alzava un dito in casa, e le rare volte che lo faceva veniva o lodato come un bambino perché s’era riuscito a condire l’insalata, o trattato come un incapace, e tenuto lontano dai fornelli o dagli elettrodomestici (mantenendolo così, sospetto, in uno stato di necessità che compensasse almeno in parte la totale dipendenza economica di lei).

Se risaliamo addirittura alla generazione della mia prozia, recuperiamo l’eterno stupore di quest’ultima: “Mari’, ma i maschi che stanno allo studentato con te, come fanno? Cucinano le coinquiline? Ah, no? Mi stai dicendo che fanno tutto loro?”. E rideva.

Mica aveva torto. A volte, quando ho avuto ospiti italiani in solitaria, ho provato la stessa sensazione, declinata in modi diversi, di avere minori a carico. Per le donne, magari, si trattava di accompagnarle dappertutto, perché un’improvvisa libertà negli spostamenti era vissuta con sconcerto. D’altronde mi è sempre sembrato un po’ ricattatorio, il famoso: “Le strade sicure le fanno le donne che le attraversano”. E se non vogliono rischiare la pelle ad attraversarle, è colpa loro che siano insicure?

Con gli ospiti uomini, che avevano meno problemi di spostamento, devo dire che il più delle volte sono stata confortata: squisiti e invisibili, o magari visibili solo quando faceva piacere a me e a loro. Ogni tanto, però, anche con i coetanei mi sembrava di avere a che fare con un bambino incapace di qualsiasi attività domestica. Che non si rifacessero il letto erano fatti loro, magari non volevano e basta; ma cominciavo a sospettare qualcosa a tavola, quando, invece di fare le porzioni, una coinquilina si azzardava a mettere la pentola “palla al centro”, e che ognuno si servisse da sé. Allora vedevo il panico, e le strategie più strampalate: uno pretendeva di far scivolare le tagliatelle a cascata dalla pentola al piatto, invece di sollevarle con forchetta e cucchiaio!

Altri due, sono quasi sicura, non sapevano farsi il caffè: non saprò mai se fosse per il fornello a induzione, che avevano paura di usare, oppure proprio perché non avevano idea di come caricarsi la macchinetta. Altri si sorprendevano perché non facessi la spesa ogni mattina, o stendessi un bucato al giorno: sì, vivevano ancora a casa di mammà, poi per un matrimonio o un lavoro all’estero se ne sarebbero andati, ma intanto…

Per fortuna sta cambiando anche questo, ma adesso vi confesso una cosa che magari già sapete: anche io ero così, viziata dai salari bassissimi delle colf negli anni ’80 e ’90 – almeno in paese – e da una mamma che non voleva per i figli lo stesso lavoraccio in casa toccato a lei, nei ’60. Anch’io devo aver fatto i primi caffè dopo i venti, con risultati alterni, e non ero sola: ricordo un’amica che verso i trenta chiedeva su Facebook, dalla casa in cui villeggiava, “come scegliere il programma di lavaggio”. Lei adesso sarà cambiata, io non tanto: mi hanno garantito che con la quarantena perfino io avrei fatto le pulizie generali, e sto ancora aspettando che mi venga la voglia. Intanto, passo dai miei manoscritti alle letture, e faccio solo l’indispensabile, concetto di cui ho una definizione molto al disotto degli standard di chiunque: mia madre e mio fratello, quando venivano a farmi visita, si mandavano bollettini quotidiani su “cosa fossero riusciti a sistemarmi in casa” (e grazie mille ma bontà loro: erano problemi di cui neanche mi accorgevo!).

La condizione di ex impedita cronica nelle faccende domestiche e questioni pratiche, che ho superato per mera sopravvivenza e non certo per volontà, mi fa essere piuttosto empatica nei confronti dei miei compagni di specie: il che non vuol dire che siamo sullo stesso piano. “Sei piuttosto disordinata, per essere donna” mi sono sentita dire sia da parenti anziani che da un conterraneo del compagno di quarantena: uno che si vantava pure di essere moderno, “mica come gli italiani”. Avrei dovuto rispondergli: “Grazie!”.

“Sciattona” è stato uno degli insulti più bonari mai ricevuti, insieme a “intellettuuuale” (scusate il termine) da pronunciare con tre u. Certo è che, come Marta Rojals, ho scoperto solo andandomene di casa a ventidue anni – presto per un’italiana di classe media, tardissimo per le mie prime coinquiline inglesi, a volte minorenni – che non erano le fatine a farmi il letto e la colazione, che tutto quello che avevo dato per scontato era lavoro. E, soprattutto, lavoro tutt’altro che intuitivo: il caffè, i piatti, la lavatrice, sono come l’uovo di Colombo. “Facile, quando sai come si fa” dicono in inglese. Chi sostiene che non ci vuole l’arca di scienza è liberissimo, ma spero che prima di affermarlo ci abbia almeno provato. Nel mio primo incarico d’insegnamento mi accorsi di prendere cinquanta centesimi l’ora in meno della domestica a ore che mi aveva aiutato col trasloco, e vi giuro che la cosa mi sembrò avere molto senso: so insegnare l’italiano, ma sono incapace di pulire un pavimento senza lasciare strisce.

La differenza coi compagni di specie, appunto, è che nel loro caso lo stato di ignoranza, se per “ignorare” intendiamo anche “fingere che non stia succedendo”, può protrarsi vita natural durante. Cioè, per fortuna non fanno tutti così (e mi sembra anche di trattarli come dei cretini a doverlo ribadire, ma a quanto pare alcuni ne hanno bisogno): ma in linea di massima possono farlo, il che fa tutta la differenza. Su di loro gravano altre aspettative ingiuste e pesanti, ma il carico mentale non è tra queste. Un amico napoletano affermava tra il serio e il faceto che contava di passare la vita intera senza stirarsi una camicia, e si premurava di accompagnarsi a ragazze insicure e servizievoli che avverassero questa profezia.

Io il ferro da stiro non ce l’ho, lo trovo inutile se non fai certi lavori. Ho la consapevolezza che il lavoro di casa o viene svalutato, o viene relegato a donne con un potere d’acquisto minore rispetto a chi le impiega: a volte, almeno per i giornalisti di Repubblica, come soluzione politica alla disparità di genere (…).

E invece, purtroppo, s’ha da fare. Il minimo indispensabile, almeno. E la risposta alla domanda “Perché vuoi rovinare la ‘pace familiare’?” è: in realtà è una guerra, di nervi. Magari ad alcune non costa davvero niente, ma ho visto cosa faccia a tante donne mandare avanti la casa quasi da sole, come le corroda a poco a poco e le renda propense a discutere con i compagni per mille futili motivi, invece di affrontare quei due o tre che contano, tra cui il logorio costante di doversi sempre incaricare di tutto.

È un equilibrio dettato spesso da condizionamenti economici, e psicologici, che nessuno dovrebbe accettare a cuor leggero: ne va più di una pasta al forno scotta con micropenne della Gallo.

Che comunque è una bella metafora del rischio che corriamo, a far finta di niente.

 

 

 

Risultati immagini per fancy sunglasses

Se rubo questi voglio l’assoluzione

La notizia è che Ángel Boza, membro della notoria Manada, ha provato a rubare degli occhiali da sole al Corte Inglés, e poi è scappato in auto, rischiando d’investire due vigilantes. La notizia si commenterebbe da sola, ma vorrei tradurre l’eccellente brano che ha postato Paula Marín, psicologa, sulla sua pagina Facebook:

“Credo proprio che esporre degli occhiali lì, come se niente fosse, sia un invito al furto.
Che cazzo, se non vogliono che nessuno se li prenda senza pagare, non li lasciassero sotto gli occhi di tutti, no?

Inoltre, qualcuno gli ha detto di non rubarli??? Qualcuno gliel’ha detto? Gli hanno detto chiaramente di NO? E allora??? Come volete che lui sappia, che non vogliono che li rubi???

E quelli della sicurezza, bisogna conoscere anche la versione di Boza, che non si può parlare per parlare. Adesso siamo diventati tutti giuristi?!

Lo sappiamo tutti, che ci sono denunce false, e magari quello che volevano era rovinare la vita a questo povero ragazzo, dicendo che ha provato ad investirli, però OCCHIO! Magari si erano piazzati lì in mezzo proprio perché volevano essere investiti, è anche vero che alla gente piacciono, queste cose, e poi si sono pentiti, hai visto mai li riprendessero le telecamere, e poi ovvio, per come vanno le cose oggigiorno, sicuro che hanno denunciato per farsi un po’ di soldi.

E questa storia di guidare senza patente, parliamoci chiaro, chi non ha fatto questo tipo di cose, qualche volta? Se fosse una donna sicuramente non direste niente, vi accanite contro di lui perché è un uomo.

E la presunzione d’innocenza, dove la mettiamo?

E dagli con la corsa dei tori a Pamplona, che questa è un’altra questione e non c’entra niente!

Conosco un tipo che è stato denunciato da un vigilante per tentato investimento ed è finito in galera, senza prove né niente. Ed è un bravissimo ragazzo e sono convinta che non ha fatto nulla!

Feminazi, siete solo delle feminazi”.

Risultati immagini per cary grant memes

Qual è la legge del contrappasso per una femminista? Avere un compagno che rivendichi il diritto di capovolgere anche lui gli stereotipi di genere, magari cacciando urletti quando vede video di gattini che si buttano vicendevolmente giù da un davanzale, o accogliendoli su facebook, quando glieli mando, con un cuoricino di apprezzamento.

Lo so, è dura anche per me. Niente della nostra educazione, neanche quella dei più aperti al cambiamento, ci ha preparati per uno scenario simile senza pensare “è gay”, oppure “è scemo” (e per qualcuno, ancora nel 2016, non c’è differenza). A me è successo di avere un ragazzo, quando vivevo ancora in Italia, che mi regalasse solo trousse e astucci a fiori, quando chiunque mi conoscesse appena sapeva che anelassi libri. Ne abbiamo riso col senno di poi, con lui, considerando quanto volesse ridurmi alla sua rassicurante idea di femminilità.

Ma l’operazione inversa, accettare che un uomo possa essere gattaro e felice, non ha l’allure di secoli di battaglie per il diritto al voto, o di pantaloni indossati come un guanto di sfida in una società di gonne sotto al ginocchio.

Mi piace pensare che le mie personali remore siano dovute a un ribrezzo spontaneo per tutto quanto trovi lezioso (tante cose), che ho cominciato a coltivare addirittura da quando ero leziosa io, con tanto di maniche a sbuffo, vestitini a fiori e calzini bianchi ricamati (ho le foto). Sì, ma io bacetti e micetti mai.

Però non la do a bere a nessuno: ricordo un ex bassetto quanto me che si applicava ogni mattina una crema antirughe sul viso, con piccoli movimenti esperti delle manine abituate a suonare. Quello che vedevo era lontano anni luce da qualsiasi idea di mascolinità avessi assimilato, a partire dai principi della Disney che, col senno di poi, mi sembrano usciti dall’annuncio di una chat per soli uomini.

Ma siccome sono una rivoluzionaria rispetto a commenti che leggo in Internet di donne che vogliono “l’uomo vero”, a me pare che i ruoli di genere siano ancora più blindati per gli uomini che per le donne.

E i motivi per cui ignoriamo questo dato sono gli stessi che dovrebbero spingerci a dedicargli la massima attenzione:

  • il fatto che gli uomini, nella nostra società, godano ancora di vantaggi socioeconomici, per cui facciamo fatica a vederli come “vittime” (e in effetti non è questo il punto);
  • l’idea che esista una parte geneticamente determinata che ci faccia uomini o donne, e se deviamo da quella “qualcosa è andato storto”;
  •  l‘equivoco opposto: nella lotta agli stereotipi di genere tutta l’appropriazione di cliché altrui sarebbe una conquista, e non semplicemente una possibilità.

Per cui gente che condannava Sex & the City per la scia di consumismo che spandeva insieme ai suoi profumi cari difende il diritto degli uomini a diventare schiavi della moda.

Che mi ricorda il curioso fenomeno per cui, ultimamente, l’infedeltà femminile sia indice di coraggio e quella maschile, rovesciando i cliché, sia indice di quanto siano porci gli uomini.

Sì, porci quanto vuoi, ma ci piacciono così, vero? Che ci conquistino. Siate uomini, perdio, scrive la Lucarelli, e tutte a metterle mi piace. La classica pagina per nostalgici fa una retrospettiva di Terence di Candy Candy, e tutte a vantarsi di aver sempre preferito il bad boy al mieloso Anthony.

Io che preferivo Anthony ne ho avuti un po’, di Terence, nella mia vita, e in genere una volta eliminato il fattore irraggiungibilità era finita là: erano uomini come tanti, meno interessanti di altri che non ricorressero a una cappa di mistero per coprire la loro inesorabile normalità.

E sapete perché è un peccato, sta storia dei generi blindati?

Perché forse farebbe bene alla causa dell’emancipazione femminile guardare al grande insieme. A tutte le fonti di discriminazione cui siamo soggetti come esseri umani sessuati, appartenenti a una certa etnia e a un determinato ceto sociale.

Personalmente non vedo degli uomini in giro con la frusta a sottomettere donne incapaci di difendersi, non ce n’è bisogno. Vedo donne e uomini educati secondo determinati cliché che ne condizionano gusti e scelte, e vengono chiamati naturali. Quanto c’è di naturale in questi? Non lo so, non lo sa nessuno nonostante le garanzie di Focus. Possiamo solo sospettare col sociologo australiano Bob Connell che nella migliore delle ipotesi il bilancio tra natura e cultura sia mutevole e soggettivo.

E allora, per un uomo che provi sgomento per la mia depilazione approssimativa (non amo i peli per tutti i generi, ma spesso mi scoccio di togliermeli), c’è chi comincia a difendere la scelta delle donne di non depilarsi. Invece, in tante rabbrividiscono davanti a un uomo depilato, o che semplicemente non sia il machoman che hanno insegnato loro a sognare da piccole.

Non fraintendetemi, non c’è niente di male a volere donne froufrou e uomini che non debbano chiedere mai. È solo una delle opzioni possibili.

E negare che possiamo scegliere di essere quello che vogliamo, indipendentemente da chi ci abbiano insegnato a essere, non ci porterà tanto lontano.

 

Progetta un sito come questo con WordPress.com
Comincia ora