No, sentite, Beethoven oggi venderebbe cervezabeer a Barceloneta.
Non c’è più pathos, Sturm und Drang, poesia nel mondo. Una non può andare appena albeggia al porto di Barcellona, sparse le trecce morbide sull’affannoso petto, occhi rossi e gonfi e sguardo perso nel vuoto, che si ritrova tutto lo staff dei Mondiali di nuoto a seminare enormi cavi per tutto il molo? Con tanto di atroce versione in inglese di Aicha sparata a tutto volume dagli altoparlanti. Non puoi manco dire addio al mondo crudele e buttarti a mare, che sta l’intera Croce Rossa catalana in gommone a pattugliare non so cosa.
Accadeva un paio di settimane fa, con l’effetto di persuadermi definitivamente che di questi tempi la tragedia, oltre che inutile, è ridicola.
Venendo a più miti consigli, quindi, sono andata a Barceloneta. Tanto la traduzione dall’italiano al catalano non se ne scende granché, ad agosto, e allora mambo.
Anzi, no, pizzica. Era da un po’ che non ci pensavo, che secondo me si evoca col cuore leggero, ma poi ho pensato che in fondo generazioni di donne l’hanno usata, si dice, per cacciare pensieri pesanti il doppio dei miei. E poi c’erano queste onde ficcanaso e spumose, che si mangiavano la spiaggia artificiale all’ombra dell’Hotel Vela, che insomma, ho scartato i pochi nudisti e mi sono messa a battere pensosamente il piede nell’acqua.
Lu rusciu te lu mare è multu forte / la figlia te lu re si ta la morte.
Al che guardo l’enorme macchia grigiastra che minaccia le uniche due ragazze col pezzo di sopra (io l’unica vestita) e mi dico anche no, almeno a Capri, da piccola non mi spaventavano i fantasmi di Krupp, Fersen, Norman Douglas? Noblesse oblige.
E poi i versi seguenti, con la figlia te lu re che si marita, li vedo poco probabili, a meno che non acceda alla richiesta di Baba Ji che cerca moglie per farsi il permesso di soggiorno. Secondo il cameriere della pizzeria preferita, che racconta a destra e a manca di aver spuntato 5000 euro dalla sua russa (“due consumazioni obbligatorie a settimana”, o era al mese? spero al mese), io potrei aspirare a un bel po’. Dovrei sentirmi lusingata?
La figlia te lu re sta va a la Spagna.
Ma se lo sanno tutti, che Catalonia is not Spain! E se ce lo siamo scordati, ce lo ricorderanno tra un mesetto, l’11 settembre, quando i lavoratori di TV3 faranno sciopero e i nazionalisti catalani si indigneranno: non la festa nazionale, con l’indipendenza o stai a favore, o contro. Le stesse argomentazioni del 1918, giuro, quelle delle citazioni che almeno non devo tradurre in catalano.
Su la figlia te lu re, la zita mia, uno dei due nudisti può ammirare l’unica donna vestita in spiaggia volteggiare tra la spuma, che manco Venere uscita dalle acque e fatta tricheco.
Ok, meglio ritirarsi in buon ordine.
… e vola vola vola, palomma mia
ca jeu lu core meu
te l’aggiu dare.
Di questi tempi avere un cuore da dare già è un lusso.
Questi 5 giorni sono stati un buco spazio-temporale che ha visto mio fratello e la sua ragazza cimentarsi in una delle più difficili missioni umanitarie al mondo: trasformare la mia tana in una casa per esseri umani. La gatta non era proprio entusiasta, ma si è fatta accarezzare dai nuovi venuti, tralasciando perfino i resti del pollo entrato in casa mia a beneficio dei due carnivori.
Domani ti porto le fotocopie, ho dichiarato due ore fa all’ennesimo interessante incontro per farvi conoscere i miei soldati della Grande Guerra. Domani è sabato, mi ha ricordato la mia interlocutrice. Ma avevo appena lasciato i miei beniamini sulla navetta per l’aeroporto e per me è lunedì. Tanto più che, se non hai un lavoro d’ufficio e vivi nel Raval, un giorno vale l’altro. Magari il venerdì stanno tutti vestiti a festa per andare in moschea, la domenica qualcuno chiude il negozio, e c’è il mercato su Rambla Raval. Ma poca roba.
Lo so, eh, che è passata una settimana, ed è stata interessante anche nelle ore che non mi hanno vista alle prese con Gaudí e con i tour gastronomici per la Barcellona multietnica.
Interessante nel bene e nel male. La mia solita risposta ai periodi no (fare cose) mi sta portando dritta a un altro collasso che vi propinerò in diretta. Ma per ora reggiamo, vecchie ossa permettendo. Adoro creare, nei limiti nel creabile.
Invece mi è spiaciuto vedere meno gente di quanta sperassi alla commemorazione di Íñigo in Plaça St Jaume. C’era Nicola alle prese con le candele, maledetto vento, e pure Esther.
Di lei mi è piaciuto che pubblicasse una foto di quando di occhi ne aveva due, dicendo che a vedersi sui giornali con la benda e tutto, si era sentita brutta, e voleva rivedersi allegra e sorridente dall’ultima vacanza.
Non sa quanto mi ha fatto riflettere sulla bellezza, su quanto possa essere una gioia e una risorsa per arricchirsi la vita, e quanto una padrona spietata, se lasci che t’invada casa secondo le sue regole. Che sono sempre quelle, irrazionali e contraddittorie, del mondo di fuori in questo esatto momento. In quel caso, altro che ventose per appendiabiti o ganci per la spazzatura, casa tua ti crolla addosso lo stesso. Se vuoi sentirti inadeguata ci riesci sempre, c’è chi non ti trova abbastanza accogliente o abbastanza tormentata, abbastanza burrosa o abbastanza pelle e ossa. Le donne le vogliono o rassicuranti o infelici, sono modelli di fascino. L’ho fatto anch’io, a suo tempo, con gli uomini, e mi sono sentita stupida troppo tardi. E sospetto che per gli uomini che ci cascano coi modelli maschili sia peggio, hanno meno strumenti per uscirne, o anche per capire che hanno un problema.
Viva Esther, quindi, Esther che sorrideva e che ora fa più fatica, ma là stava, in piazza.
E, detto en passant, bello che nella tua casa addomesticata, ripulita e piena di ventose, l’amore trionfi. Anche se per cinque giorni. Un amore giovane ma collaudato, fatto di refrain in comune e una profonda conoscenza dell’altro, anche nei suoi limiti. Una profonda accettazione, un profondo rispetto.
Vedo la differenza con gli amori tormentati, scusate l’ossimoro, quelli a cui abitua il caos di città come Barcellona. Quando hai quelli pensi solo perché non chiama, perché non vado bene, perché non va bene, perché. Quando hai l’altra cosa perlopiù non pensi, almeno non a quello che dovresti semplicemente vivere, senza rimuginarci troppo su.
Ed è bello vederlo in azione, ti riempie una casa più delle ventose.
Ti ricorda che la tua preziosa solitudine dovresti barattarla solo con qualcosa del genere, e nient’altro.
(attenzione: questo articolo è un’accozzaglia di luoghi comuni senza fondamento)
Siccome vivo nella caverna di Dracula, con stalattiti appese al soffitto e ragnatele secolari un po’ dappertutto, non ricevo molti ospiti. Immagino che anche il sesto piano senza ascensore non aiuti. Ma ho guardato un po’ gli ospiti altrui e credo che gli italiani in visita a Barcellona vadano suddivisi perlopiù nelle seguenti categorie:
10) l’aspirante guiri. I guiris nel gergo locale sono gli irriducibili stranieri, di solito nordici, che sembrano eterni turisti anche se vivono in loco per secoli. Quelli che comprano la t-shirt con la sagoma del toro, il sombrero messicano (chissà perché) e magari le nacchere. A noi italiani riservano il simpatico epiteto di italianini, ma con un po’ d’impegno questa categoria può far dimenticare i capelli scuri e gli occhialoni a goccia e trasformarsi nel guiri perfetto: basterà sedersi sulla Rambla appena sbarcati (meglio se dalla nave, l’aereo fa paura), e dopo essersi rifocillati con tapas e sangría andarsi a perdere nell’Apple Store a Plaça Catalunya . Mi raccomando, che il vostro spagnolo non vada mai al di là delle parole cerveza e Belén Rodríguez (non scordatevi di pronunciare la u), e credeteci, che quella pizza gorgonzola e peperoni su Passeig de Gràcia sia autentica di Benevento;
09) coppia gay che non ci può credere, che finalmente può girare mano nella mano senza che la corchino di mazzate o la sfottano stile cinepanettone (siamo un povero paese). Si è preparata tutto un itinerario artistico (in questo è simile al superorganizzato), che include anche alcuni negozietti mirati di souvenir. D’estate si mostra critica coi nudi maschili esibiti per la Barceloneta, operazione che personalente invidio perché io non vedo un difetto a cercarlo col lanternino. Pretendono che il Gaixample sia il Carnevale di Rio,rimanendo delusi quando scoprono l’amara verità. Non è infrequente che almeno un membro della coppia ritenga che tutti i bei ragazzi incontrati siano gay;
08) l’ospite del radical-chic. Per fortuna è simpatico/a, e viaggia spesso in coppia. Ma tra tutti gli amici che potevano ospitarlo s’è scelto la vecchia amica italiana che fa un master all’Autònoma di Barcellona ed è tra i 95 che hanno votato Vendola alle primarie. Morirebbe dalla voglia di fare un po’ di sano e becero turismo, invece si trova catapultato tra feste clandestine in centri sociali appena sorti, e feste italocatalane in cui si alterni il grido independència a Osteria numero 9, passando per le serate di pizzica , e l’immancabile capatina al Mariatchi , o in un vecchio bar del Raval, a collassare tra birra economica e vecchi che ci provano con ragazze insicure e ubriache. Il pub irlandese? Troppo commerciale anche se c’è musica folk;
07) il superorganizzato: ha due-tre mappe di Barcellona e una guida sconosciuta ai più (la Lonely Planet è commerciale). Specie se donna, si è trovato su Internet tutta una serie di negozi e ristoranti raccomandati da altri turisti per caso, rigorosamente vicini alla Rambla. Ha una macchina fotografica da paura che tiene sempre a tracolla. Primo giorno: Sagrada Familia, poi, come l’aspirante guiri, corsa in zona Rambla per un pranzo a base di paella e sangría (a meno che qualche conoscente in loco non gli abbia consigliato un ristorantino sul mare). Segue Museo Picasso, che a Montjuïc meglio dedicare tutta la mattina dopo. Infine, cena a base di tapas e a letto relativamente presto, che domani bisogna farsi tutti gli altri musei. Senza trascurare la nightlife barcellonese (definita proprio così, magari col trattino). Non si sa come, i suoi elaborati itinerari prevedono sempre l’attraversamento del micidiale tunnel della metro di Gràcia Al terzo giorno lo mandate da solo al Parc Güell sperando che non sappia più tornare, o se lo mangino le salamandre;
06) l’anima romantica: musei? Hai voglia. Ma quello che vuole vedere davvero è la gente per strada, e la sua macchina fotografica, se è possibile, supera quella del superorganizzato. Si fermerà ogni 2-3 minuti ad annotare impressioni sulla Moleskine, finché, esaurita la Pilot, non dovrà comprarsi una volgare Bic. Troverà qualcosa di tipico e poetico pure in Plaza Tripi alle 2 di notte del sabato, tra ubriachi che vomitano negli angoli e spacciatori (ovviamente la segnerà come Plaça George Orwell, e insisterà nel fare la ç catalana). Le tapas? Scontate. E la paella, si sa, è valenciana. D’altronde anche a tavola vuole vivere come quelli di qua, quindi finirete in un forno a Hostafrancs a fare un tipico spuntino catalano: empanadas argentine e pizza al taglio;
05) quelli che… è meglio giù da noi. Ok, in questo caso ho più esperienza coi miei compaesani, che quando si mettono a glorificare Napoli possono diventare davvero molesti. Se viaggiano in coppia, di solito lui è quello simpatico e goliardico, addetto alle public relations [sic], e lei, spesso carina e rigorosamente vestita di scuro, gli fa da spalla finché non si tratta di ballare (e se è un ballo di gruppo, si metterà al centro per non fare figuracce). Barcellona è “bella e pulita”, e “a misura d’uomo”, ma non ci vivrebbero mai. Il flamenco va bene per una sera, ma non lo ascolterebbero sempre. Perché pisciano per strada, questi, i bagni non ce li hanno? Segue critica dei vestiti colorati, scambiando il daltonismo per tossicodipendenza. Potrebbero girarsi a ogni coppia gay mano nella mano, magari commentando: “Io non ho nulla contro i gay, ma non mi piacciono quelli che ostentano“. Pretenderanno di mangiare pasta al dente nel Gotico e diranno che la paella in fondo somiglia al risotto alla pescatora. Con la giusta dose di sangria in corpo potrebbero confessare al cameriere, rigorosamente latinamericano, che il catalano è tale e quale al dialetto del paese del loro nonno;
04) quello che sa. Pericolosa variante, generalmente maschile, di quelli di cui sopra. In paese è quello un po’ “originale” e ha viaggiato più della media dei suoi compaesani, dunque conosce il mondo. Veste informale, per essere italiano, e sfoggia continuamente le due parole d’inglese che ne facevano il primo della classe allo scientifico. Segretamente gli mancherà la pasta il secondo giorno, ma ostenterà noncuranza e insisterà per andare a mangiare sushi, mettendoci ben 5 minuti a desistere con le bacchette. Poi farà il simpatico con le coinquiline di chi lo ospita: se nordiche, dichiarerà che le bionde hanno una bellezza speciale, se latine, che è meglio la bellezza mediterranea (pazienza se in Colombia c’è l’Oceano). Al pub irlandese, tra camerieri scozzesi e clienti americani, si farà un punto d’onore di ordinare la Guinness;
03) il popolo della notte. Questi per fortuna li ho incrociati raramente, perché non aspiro granché a frequentare Vila Olímpica a botta di 20 euro e oltre per entrare in un locale (con loro non si riesce mai ad arrivare all’Opium coi pass gratis prima delle 2). E se, arresisi, faranno il giro dei localini squallor intorno al porto, ancora peggio. Se uomini, viaggeranno in 2 con una collezione di camicie tinta unita per ammaliare le nordiche, salvo metterti una mano sul fianco quando vedono che le danesi non se li filano. Se donne si slogheranno sul tacco 12 nella speranza di sfogare certe loro esigenze che in paese, a parte gli incontri in chat, non tanto possono soddisfare. Di queste ultime conosco solo le terrone come me, che in mancanza dei consueti fischi e sguardi malati di fronte alla mini inguinale dichiareranno che i catalani so’ fridde ‘e chiammata. All’uscita dalla discoteca pretenderanno il cornetto, e non si rassegneranno all’idea che i pakibeer al massimo offrano le samosas, appetitose frittelle di verdure che nascondono nei tombini in strada;
02) aspirante punkabbestia: è la quarta-quinta volta che torna a Barcellona. Le altre ha dormito nei migliori centri sociali, che chiama correttamente casas de okupa, poco prima che li sgomberassero. In quelle occasioni non ha imparato granché lo spagnolo, ma non lo sa. Ha uno zaino formato paracadute e vestiti neri e “pratici” che al secondo giorno puzzano di canna. Se ha tempo si fa fare gratis da un’amica quella che chiamo la capa a mohicano, un must tra i colleghi perroflautas barcellonesi insieme alla frangetta a metà fronte. Trova sempre il modo di mangiare gratis, anche fosse rosicare radici in qualche huerta popular tenuta da amici suoi, una categoria che sembra non estinguersi mai e che vanta viaggi spettacolari tra Tibet e Indonesia (quella non turistica, però). Non necessitando di ospitalità, ti verrà a lasciare lo zaino prima di andare a un concerto punk in una casa de okupa a 20 fermate di metro, per poi bussarti alle 4 per riprenderselo, perché il concerto non era granché (leggi “non c’era proprio”);
… and the winner is…
01) l’ex Erasmus. Di solito è un uomo. Il riferimento all’Erasmus è indicativo, in ogni caso ha vissuto qualche tempo a Barcellona, in un passato più o meno remoto, frequentando peraltro gli stessi luoghi dell’aspirante guiri. Nonostante le sue domande “esperte” (Qual è la programmazione del Razzmatazz? Ah, ricordo ai miei tempi…), pretende che le cose stiano esattamente come le ha lasciate, che quel baretto arabo vicino alla Rambla serva i migliori dolci (poco importa se l’hanno chiuso) e che le ragazze che incrocia agli eventi gratis che trova nella Guía del Ocio cartacea (vagli a spiegare che ora esiste butxaca.com) abbiano con lui quella giocosa attitudine Erasmus che le rendeva disponibili a fornire il proprio numero, e rispondere pure al telefono. A fine serata si cimenterà in una strenua trattativa coi paki di Rambla Raval per avere la sexybeer a meno di un euro, perché “ai suoi tempi costava meno”.