Archivio degli articoli con tag: amore corrisposto

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Di Già

Dove "sembro più io", ma ormai lo so già.
Da online.scuola.zanichelli.it

Certe cose non riaffiorano più.

Si sono perse nel pozzo da cui risalgo a poco a poco. Resta una frattura tra me e il mio corpo nudo, e l’idea di condividerlo con qualcun altro. Ma succederà di nuovo, ora lo so. Solo che non sarà più come prima.

A volte mi guardo le braccia e mi sembra che i lividi siano ancora lì. Almeno sono spariti da un pezzo alla vista. Con questo “almeno” qui, posso far pace.

Con l’anno nuovo inizio a insegnare italiano, e saluto l’Amico che non tornerà. Lui non lo sa ancora, è convinto di dover allontanarsi qualche tempo per questioni familiari. In realtà è entrato di diritto nell’esercito di indecisi che arriva a Barcellona in estate, prova svogliato ad ambientarsi, e infine approfitta delle vacanze di Natale per svignarsela di nuovo in Italia, a raccontare a chiunque come sia difficile vivere “fuori”. Però mi ha aiutato tanto nei mesi più difficili: quelli di assestamento, dopo un lutto.

Prima che se ne vada usciamo con l’Amica che mi aveva presentato Bruno, e lei si porta dietro la Divina, quella che era troppo bella perché lui la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. È sopravvalutata, sentenzia l’Amico, e allora gli mollo uno scappellotto mentre le sbircio il vestito lungo e prego che sia così alta perché si è messa i tacchi: davanti a una che piace a Bruno, entro ancora nella spirale ossessiva.

Lei a sua volta mi osserva l’abito senza fronzoli, e i capelli corti che sono tornati al loro biondo ambiguo, oscurato dal tempo.

“Stai molto meglio così” si complimenta. “Non che stessi male prima, è che adesso… come dire? Sembri più tu”.

Vorrei abbracciarla e chiedere scusa, non solo a lei: anche all’amica Occhiblù, alla Bella Stronza, alla Biondissima… A tutte quelle che ho considerato mie rivali in una gara che non esisteva. Ma riesco solo a dirle che ha ragione, adesso sembro più io.

E questa me che impara di nuovo a camminare smette pure di voler risolvere le vite altrui: lascio partire l’Amico senza fare storie, abituandomi al pensiero che non tornerà.

È appena arrivato, invece, il ragazzo alto e serio che a una conferenza dello Spazio alza la mano per fare un’osservazione antipatica: manca qualcosa, il conferenziere ha trascurato un argomento importante. Che faccia tosta! La conferenza è durata un’ora, come si fa a concentrarsi solo su “ciò che manca”? Poi lo sconosciuto si vede offrire un microfono, e a quel punto si prodiga in un ragionamento che mi sorprende. Ciò che invece mi spaventa di Giacomo, detto Già, è che leghiamo soprattutto per l’affinità di pensiero: quello lì è un mondo in cui mi perdo, e poi viene fuori che ho fame. Manca la connessione improvvisa, la notte perfetta in cui ho riso con Bruno fino alle quattro… Ed ecco che sto facendo lo stesso errore di Già alla conferenza: mi concentro anche io su ciò che manca.

Perché, stavolta, non bado un po’ a quello che c’è?

Ci rifletto su mentre contemplo una vetrina, all’uscita della scuola di lingue in cui ho ottenuto il mio primo incarico come insegnante. Nessuno sembra comprare quei quadri, eppure mi rilassano: interni domestici molto stilizzati, con vasi sul tavolo e gatti acciambellati sul divano. All’improvviso voglio abitare anch’io quella serenità, ma senza dover frequentare corsi di danza Bollywood, o bramare a tutti i costi un ascensore nel palazzo! Deve esistere una mia via alla felicità, e la troverò.

Una sera Già, ignaro di ciò che sta facendo, trascina Bruno fino a casa mia dopo una riunione allo Spazio: l’ora di cena è passata, e io ho ancora un po’ della zuppa avanzata a pranzo. Una volta che si è riempito lo stomaco, Bruno inizia a lamentarsi del lavoro che ha dovuto accettare per non rimanere in bolletta. Già e io lo ascoltiamo poco, intenti a passare in rassegna i pochi libri che ho portato nell’attico gelido: ho ancora difficoltà a leggere narrativa contemporanea, ma Già non mi sfotte per questo, anzi. Scopriamo di amare lo stesso personaggio di Trono di Spade, che è anche il più odiato dai nostri amici italiani.

“Che ossessione, con Trono di Spade!” insorge Bruno. Lui non legge “quelle robe lì”, e non guarda neanche la serie, okay? Lo lapidassimo pure!

Invece lo ignoriamo. Non ho neanche il tempo di sperare che Bruno si ingelosisca: mi interessano davvero le opinioni di Già. Sarà lui a confessarmi che uscendo da casa mia aveva chiesto: “Secondo te ho delle speranze, con lei?”. C’era dell’affinità, aveva borbottato Bruno, che si traducesse in qualcos’altro era tutto da verificare.

Lo “verifichiamo” a un concerto che si tiene allo Spazio: uno di quelli che di solito Bruno diserta, perché si balla. Nella foto che posteranno poi sul sito risulto sfocata, un faretto rossiccio mi trasforma il sorriso in uno scippo sul volto. La mia felicità è quasi oscena, ma la vita non è certo tornata con Già: è entrata solo quando ero pronta ad accoglierla di nuovo.

Alla fine Bruno è venuto al concerto, ma nelle foto non c’è mai. Rimaneva immobile accanto a noi mentre Già mi avvolgeva le spalle, poi scambiava la mia confusione per abbandono e mi cingeva la vita. Quando mi ha vista impallidire, non ha avuto bisogno di chiedermi nulla: a un mio cenno ha avvisato Bruno che andavamo a prendere “una boccata d’aria”.

Quando sono tornata a scorgere Bruno, lui usciva dal portone dello Spazio e io ero lì fuori, che baciavo Già. Era un bacio da ragazzini, così lungo che a un certo punto ho riaperto gli occhi.

Ho fatto in tempo a intravedere Bruno che indugiava un momento, come a valutare se raggiungerci o no. Era rimasto solo e forse era seccato, o un po’ geloso, o inesorabilmente contento per me, e soprattutto per il suo nuovo amico.

Poi a un certo punto non l’ho visto più.

A venerdì per l’ultimo capitolo!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

camera con vista2  C’era questo signore cinese che occupava una stanza d’albergo attigua alla mia, a Milano, secoli fa. Passava le giornate a cantare una nenia stonata che voleva essere lirica (talmente cattiva che non si capiva se fosse opera cinese o italiana). Quando chiedemmo spiegazioni in reception, un portiere spiegò appunto che il Farinelli di Macao si preparava per uno spettacolo (il cui pubblico, ovviamente, raccomandammo a Nostra Signora di Sheshan).

Insomma, amanti non corrisposti, immaginiamoci come questo qui, chiuso in camera tutto il tempo a provare eternamente questa melodia stonata in vista di non so che rappresentazione. Solo che la nostra, la resa dei conti con l’amato bene, potrebbe non venire mai.

Il fatto è che la tristezza da rottura o da due di picche, se coltivata, diventa sul serio una stanza a parte in cui ci rifugiamo ogni giorno. Lì ci creiamo un nostro mondo di sconfitta e sollievo di cui anche la persona amata diventa un abitante, un fantasma che aleggia solo lì, ma con la sua presenza rende inquietante la casa intera.

La stanza dell’amore/dolore ci serve quasi a proteggerci dal vuoto che ci siamo creati, visitarla ogni giorno diventa un rituale come andare a parlare con una lapide al cimitero. Una piccola morte che invece di essere salutata e lasciata andare diventa una parte della vita e la manda in cancrena.

Nella stanza, l’oggetto del nostro amore non ha più niente a che vedere neanche con l’originale: se lo dovessimo incontrare (e su questo non avete mezze misure, o evitate drammaticamente i posti che frequenta o ci andate sempre a finire) magari ci sorprenderemmo di trovarlo lì e non nella nostra stanza del pianto, mentre lui si sorprenderebbe del nostro sguardo da stoccafissi.

È vero, la “fase stanza” è un’anticamera che ci serve, a volte, per passare oltre, varcare quel corridoio che sembra così grande e passare ad altro, accenderci il fornello e farci la cena, o sederci in soggiorno a guardare il tramonto tra le antenne.

Il problema è quando la nostra vita ormai si consuma solo là.

Perché quando l’amore non è corrisposto, o non sappiamo pensare ad altro o ci avvelena tutto quello che facciamo. 

Quando è corrisposto, invece, succede il contrario: non ci concentriamo più su quello e possiamo pensare a tutto il resto.

L’amore corrisposto non è una stanza, è come aria che rinfresca tutta la casa.

Ma quando riusciamo a uscire di lì, quando abbiamo il coraggio di premere la maniglia e affacciarci a vedere il casino che è diventato intanto il resto della casa, succede tutto il resto.

Allora lo sentiremo come un tradimento, quasi, verso il fantasma. Scusa perché non abito più il nostro amore che tu hai già lasciato da tempo. State certi che saremmo scusati, se gliene fregasse qualcosa. Ma deve fregare a noi l’ottimo proposito di tradirlo per smettere di tradire noi stessi.

E allora su, su, cominciate a dare un’occhiatina, a ricordarvi com’era fuori, prima che vi muraste vivi.

Se lo fate bene, verrà il momento in cui l’amore sarà solo profumo, un mazzo di fiori depositato all’ingresso, e prenderà dolcemente tutto lo spazio che vuole.

spring-field-haworthNon fraintendetemi, Indietro non si torna non significa che non possiamo svolgere di nuovo quel lavoro che ci realizzava, o rimetterci insieme a quella persona.

Semplicemente, intendo dire che non torneremo mai alle condizioni di prima, come non si può crescere di cinque centimetri e poi perderli all’improvviso.

E invece no, non c’è pericolo che si torni a quel punto ormai passato in cui eravamo tutti concentrati sulla soluzione, o non-soluzione, del problema che ci affliggeva: le angherie di un tutor/capoufficio troppo pieno di sé o l’amore non corrisposto che ci risucchiava energie che manco a 16 anni, col controllo ossessivo dei messaggi per vedere se ci avesse scritto.

Ecco, immaginate di risolvere questo, di avere la questione lavorativa più o meno avviata e quest’amore finalmente realizzato o, più credibilmente, sostituito con un altro. Come vi sentite, ora?

Se foste un po’ onesti, qualcuno di voi farebbe un sospirone come se gli mancasse l’aria. Quando siamo abituati da troppo tempo a costruire la vita intorno a un problema, la sua soluzione spiazza. Ovvio che ci metteremmo la firma, ma questo strisciante dubbio inconscio di essere ormai tutt’uno col problema che abbiamo ci trasmette una sorta di horror vacui che ci fa chiedere: e mo’?

E mo’, dicevo l’altra volta, c’è tutto il resto.

C’è una specie di miracolo: prima i nostri pensieri partivano da noi, dal nostro problema, e a noi arrivavano, in una sorta di circolo vizioso. Adesso partono da noi e si espandono tutt’intorno. Adesso che possiamo fare spazio al resto del mondo, quello ci invade riprendendosi il suo posto. E allora, col nuovo lavoro, possiamo finalmente pensare a fare progressi. Ma intanto torneremo a dipingere, o a mandare avanti quell’idea di suonare questo strumento, o faremo le cose che davvero ci riempiono e, ahimè, abbiamo relegato al tempo libero.

Oppure, ora che finalmente siamo amati e corrisposti e non dobbiamo provare a noi stessi di esser capaci di suscitare sentimenti simili, possiamo fare una cosa incredibile: costruire insieme, invece di fare ad acchiapparello con l’altro che fugge sempre e noi che cerchiamo invano di raggiungerlo. E quando si costruisce insieme non bisogna per forza pensare subito a mettere su famiglia, basta sostenersi nelle debolezze reciproche, regalare all’altra persona un pomeriggio, farci assistere durante una brutta influenza… Fare tutte quelle cose che sembrano banali ma che valgono più di mille problemi per dimostrare all’altro che siamo lì per ascoltarci a vicenda e sostenerci.

Niente horror vacui, dunque. Quello che chiamiamo vuoto, in realtà, è lo spazio giusto per essere noi stessi. La stanza tutta per sé che non serve solo alle scrittrici, ma in forma virtuale è la cosa più importante da mantenere, in ogni occasione.

Solo, abbiamo lasciato che un solo problema, una sola ossessione, ce la riempisse di cianfrusaglie che non ci servono.

Non vi dico di non ripetere più l’errore. Quando vi accorgerete di come si stia bene senza, verrà spontaneo.

Della differenza, parleremo tra qualche giorno.

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