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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Da healthshots.com

Prima del silenzio

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.

Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.

È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.

A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.

Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.

Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.

A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia. 

A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.

Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.

Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).  

Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.

Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.

Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.

L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.

Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.

La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.

Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.

Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.

È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.

Finalmente ho trovato una canzone per noi.

Grazie per aver letto Fame!

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Di Già

Dove "sembro più io", ma ormai lo so già.
Da online.scuola.zanichelli.it

Certe cose non riaffiorano più.

Si sono perse nel pozzo da cui risalgo a poco a poco. Resta una frattura tra me e il mio corpo nudo, e l’idea di condividerlo con qualcun altro. Ma succederà di nuovo, ora lo so. Solo che non sarà più come prima.

A volte mi guardo le braccia e mi sembra che i lividi siano ancora lì. Almeno sono spariti da un pezzo alla vista. Con questo “almeno” qui, posso far pace.

Con l’anno nuovo inizio a insegnare italiano, e saluto l’Amico che non tornerà. Lui non lo sa ancora, è convinto di dover allontanarsi qualche tempo per questioni familiari. In realtà è entrato di diritto nell’esercito di indecisi che arriva a Barcellona in estate, prova svogliato ad ambientarsi, e infine approfitta delle vacanze di Natale per svignarsela di nuovo in Italia, a raccontare a chiunque come sia difficile vivere “fuori”. Però mi ha aiutato tanto nei mesi più difficili: quelli di assestamento, dopo un lutto.

Prima che se ne vada usciamo con l’Amica che mi aveva presentato Bruno, e lei si porta dietro la Divina, quella che era troppo bella perché lui la aggiungesse a Facebook in contemporanea con me. È sopravvalutata, sentenzia l’Amico, e allora gli mollo uno scappellotto mentre le sbircio il vestito lungo e prego che sia così alta perché si è messa i tacchi: davanti a una che piace a Bruno, entro ancora nella spirale ossessiva.

Lei a sua volta mi osserva l’abito senza fronzoli, e i capelli corti che sono tornati al loro biondo ambiguo, oscurato dal tempo.

“Stai molto meglio così” si complimenta. “Non che stessi male prima, è che adesso… come dire? Sembri più tu”.

Vorrei abbracciarla e chiedere scusa, non solo a lei: anche all’amica Occhiblù, alla Bella Stronza, alla Biondissima… A tutte quelle che ho considerato mie rivali in una gara che non esisteva. Ma riesco solo a dirle che ha ragione, adesso sembro più io.

E questa me che impara di nuovo a camminare smette pure di voler risolvere le vite altrui: lascio partire l’Amico senza fare storie, abituandomi al pensiero che non tornerà.

È appena arrivato, invece, il ragazzo alto e serio che a una conferenza dello Spazio alza la mano per fare un’osservazione antipatica: manca qualcosa, il conferenziere ha trascurato un argomento importante. Che faccia tosta! La conferenza è durata un’ora, come si fa a concentrarsi solo su “ciò che manca”? Poi lo sconosciuto si vede offrire un microfono, e a quel punto si prodiga in un ragionamento che mi sorprende. Ciò che invece mi spaventa di Giacomo, detto Già, è che leghiamo soprattutto per l’affinità di pensiero: quello lì è un mondo in cui mi perdo, e poi viene fuori che ho fame. Manca la connessione improvvisa, la notte perfetta in cui ho riso con Bruno fino alle quattro… Ed ecco che sto facendo lo stesso errore di Già alla conferenza: mi concentro anche io su ciò che manca.

Perché, stavolta, non bado un po’ a quello che c’è?

Ci rifletto su mentre contemplo una vetrina, all’uscita della scuola di lingue in cui ho ottenuto il mio primo incarico come insegnante. Nessuno sembra comprare quei quadri, eppure mi rilassano: interni domestici molto stilizzati, con vasi sul tavolo e gatti acciambellati sul divano. All’improvviso voglio abitare anch’io quella serenità, ma senza dover frequentare corsi di danza Bollywood, o bramare a tutti i costi un ascensore nel palazzo! Deve esistere una mia via alla felicità, e la troverò.

Una sera Già, ignaro di ciò che sta facendo, trascina Bruno fino a casa mia dopo una riunione allo Spazio: l’ora di cena è passata, e io ho ancora un po’ della zuppa avanzata a pranzo. Una volta che si è riempito lo stomaco, Bruno inizia a lamentarsi del lavoro che ha dovuto accettare per non rimanere in bolletta. Già e io lo ascoltiamo poco, intenti a passare in rassegna i pochi libri che ho portato nell’attico gelido: ho ancora difficoltà a leggere narrativa contemporanea, ma Già non mi sfotte per questo, anzi. Scopriamo di amare lo stesso personaggio di Trono di Spade, che è anche il più odiato dai nostri amici italiani.

“Che ossessione, con Trono di Spade!” insorge Bruno. Lui non legge “quelle robe lì”, e non guarda neanche la serie, okay? Lo lapidassimo pure!

Invece lo ignoriamo. Non ho neanche il tempo di sperare che Bruno si ingelosisca: mi interessano davvero le opinioni di Già. Sarà lui a confessarmi che uscendo da casa mia aveva chiesto: “Secondo te ho delle speranze, con lei?”. C’era dell’affinità, aveva borbottato Bruno, che si traducesse in qualcos’altro era tutto da verificare.

Lo “verifichiamo” a un concerto che si tiene allo Spazio: uno di quelli che di solito Bruno diserta, perché si balla. Nella foto che posteranno poi sul sito risulto sfocata, un faretto rossiccio mi trasforma il sorriso in uno scippo sul volto. La mia felicità è quasi oscena, ma la vita non è certo tornata con Già: è entrata solo quando ero pronta ad accoglierla di nuovo.

Alla fine Bruno è venuto al concerto, ma nelle foto non c’è mai. Rimaneva immobile accanto a noi mentre Già mi avvolgeva le spalle, poi scambiava la mia confusione per abbandono e mi cingeva la vita. Quando mi ha vista impallidire, non ha avuto bisogno di chiedermi nulla: a un mio cenno ha avvisato Bruno che andavamo a prendere “una boccata d’aria”.

Quando sono tornata a scorgere Bruno, lui usciva dal portone dello Spazio e io ero lì fuori, che baciavo Già. Era un bacio da ragazzini, così lungo che a un certo punto ho riaperto gli occhi.

Ho fatto in tempo a intravedere Bruno che indugiava un momento, come a valutare se raggiungerci o no. Era rimasto solo e forse era seccato, o un po’ geloso, o inesorabilmente contento per me, e soprattutto per il suo nuovo amico.

Poi a un certo punto non l’ho visto più.

A venerdì per l’ultimo capitolo!

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Ricambio

Nella stanza mi assale l’aria.

Mi arroventa la pelle con un odore dolciastro, e la sua immobilità mi colpisce più della stanza stessa: è rimasta uguale a quando ci dormivo e venivo svegliata dalle auto che correvano in strada. Bruno non mi ha aperto la porta coi libri già in mano, come avevo sperato, poi si è sorpreso di vedermi nei jeans che all’improvviso preferisco ai soliti abitini. Adesso si stende sul letto, gettandosi addosso la coperta che doveva avvolgerlo un istante prima. Dà per scontato che siederò alla scrivania, di fronte a lui, ma non mi osserva per sincerarsene. Con lo sguardo fisso davanti a sé, come quando mi stava mollando, mi parla di una malattia che di solito è innocua, ma che a sentirlo quasi lo ammazzava.

La vera malattia è un’assenza che io non posso colmare. Posso solo agguantare i libri e trovare una scusa per filarmela, ora che sul serio mi viene l’affanno. Almeno non ho bisogno di chiedergli dove sia il bagno. Mi fa sorridere la tazza sbreccata, orfana del mio spazzolino. Poi poso gli occhi sullo specchio e soffoco un grido.

Ho delle macchie rosse sul petto. Anche il collo è picchiettato da puntini dello stesso colore. Che sia una risposta cutanea alla mia agitazione? Ma no, mi succede anche quando faccio docce troppo calde… In ogni caso, pochi minuti in quella stanza mi hanno lasciato quei segni addosso.

Tornando in camera non resisto: mi offro di aprire la finestra. Bruno non risponde subito, l’idea sembra spaventarlo un po’. Ma non si oppone, abituato com’era a me che provavo a fargli del bene. A volte ci riuscivo pure. Mentre recupero la borsa, un fruscio smorzato mi ricorda l’altra missione da compiere.

“Biancheria!” grido come un’imbonitrice, mentre la bustina cade sul letto. “Tienili pure, che non sono della mia misura…”.

Lui osserva i boxer puliti che aveva lasciato a casa mia una delle ultime volte. Non sono stata in grado di buttarli, né di restituirglieli prima di adesso. Non cambia espressione, sembra riflettere.

“Meno male” sentenzia infine. “Un ricambio mi serviva proprio”.

Adesso ho abitato il suo dolore.

Me lo sono visto addosso, e mi sono accorta che ne conoscevo ogni tratto. Tutto ciò che posso fare è lavorare il mio, di dolore: trasformarlo in noia, nell’esercizio quotidiano che ci vuole a star bene. È una routine impeccabile, interrotta solo dai nostri incontri sporadici. Tutti ridicoli.

“Dobbiamo trovare una fidanzata al nostro Bruno!” ammicca una ragazza alla festa di tesseramento dello Spazio. Lo dice come se progettasse una spedizione in Antartide. Mi limito a un sorriso e a un’alzata di spalle: in quel caso perfino lui, a evento finito, mi manda un messaggio per dirmi che gli dispiace per “l’incidente”.

Ma sono esposta di continuo a situazioni del genere. Una settimana prima, dei Morti di Figo mi avevano proposto davanti a tutti, a mo’ di sfida, di “sedurre Bruno”, che aveva gli occhi altrove. Io avevo scherzato: “Ah, no, Bru’, lo sai che con me non hai nessuna speranza!”. Non avevano riso, ero passata per una che se la tirava.

Un’altra sera lui è molto loquace, mi afferra le spalle come se ci si volesse appoggiare, e io mi irrigidisco a quel tocco ormai estraneo. Poi mi scopro a osservarmi le braccia come se quel gesto, da solo, potesse lasciarmi addosso dei lividi.

Un istante dopo, dalla piazza su cui affaccia lo Spazio ci giungono accordi che riconosco subito, e Bruno deve interrompere il suo sproloquio per osservarmi. Scusa, faccio, questa canzone mi mette un po’ d’ansia. Lui sorride all’idea: perché Mr. Brightside dovrebbe mettermi ansia? Non rispondo. In testa mi risuona il rullare monotono della cyclette, lo strusciare delle mie gambe magre, la battuta d’arresto delle ruote mentre visualizzo lui a letto con la Biondissima, a schermi unificati.

Prima o poi parleremo sul serio, ora lo so.

Il momento arriva quando meno me lo aspetto, a una serata in cui siamo complici almeno nella determinazione a sentirci esclusi. La padrona di casa se ne accorge, e ruba tempo ai suoi ospiti fighetti per parlare con noi due: forse ci tiene entrambi nel suo elenco di persone strane, e ci intrattiene come i bimbi che siamo (o eravamo), fino alla fine della festa.

La questione viene fuori all’improvviso, mentre sotto i lampioni di Gràcia dividiamo la strada per la metro. C’è subito accordo su una cosa: lui non vuole parlare della Biondissima, e io approvo in pieno la sua risoluzione.

Riusciamo lo stesso a fare le quattro, davanti alla metro ormai chiusa. A un certo punto lui alza la voce:

Dopo non sono mica tornato da te con la coda tra le gambe!”.

Lo rivendica come se quella fosse una gran prova di rigore morale. Io non gli dico che mi sono scoperta a scrutare le invitate anche alla festa di quella sera: di sicuro gliene piacevano almeno un paio, se soprassedeva sulla scarsa altezza di una. Non gli parlo dei digiuni, né dell’istante sul balcone. Inizio a indottrinarlo sulla vulgata junghiana, come farei con le “seguaci” del mio blog.

Non fare come me, gli dico, non restare con la fame. Prima o poi, la parte di te che stai ignorando si libererà dall’angolo in cui l’hai rinchiusa, e ti trascinerà nella prima esperienza insalubre che le dia l’illusione di saziarsi. Tanto vale che la nutri tu, concludo. È l’unico modo per non esserne schiavi.  

La parte più convincente della predica è quella in cui scoppio a piangere.

Un istante dopo, mi ritrovo premuta contro i bottoni della sua giacca. È un abbraccio diverso da tutti quelli che mi ha dato. È l’abbraccio di due che hanno sofferto insieme senza accorgersene.

Quest’abbraccio qui non lascia lividi.

A mercoledì per il seguito!

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Fiori da un’amica

Ottocento è troppo, seicento è giusto.

Ma un fesso disposto a cacciare mille euro sarebbe facile da trovare, per il bell’uomo brizzolato che mi mostra l’attico gelido. È una casa che funziona per esclusione. L’unica stanza degna di questo nome va adibita per forza a camera da letto, trasformando così in salotto lo spazio che la unisce a una sorta di insenatura oblunga: la cucina. Da quella, tre gradini portano a una piattaforma spoglia che è stata sottratta al terrazzo condominiale, insieme a un terrazzino delimitato da una staccionata a rombi. Al di là della staccionata intravedo piantine di marijuana, e la bandiera indipendentista che, mentre arrancavo sulla strada in salita, ho visto svettare sulla facciata color bianco sporco. Le pareti sembrano fatte di carta velina: sentirò tutto ciò che dicono e fanno i vicini. A quanto pare sono pochi, e quasi tutti musicisti, il che non mi rassicura sui rumori molesti… Ma sarà una convivenza pacifica, mi promette il proprietario, e capisco che è cresciuto lì dentro come l’uomo col mastino era cresciuto nel palazzo che reclamava come suo. Solo che questo bell’uomo brizzolato, che nel profilo gmail sta facendo yoga, possiede il suo palazzo per davvero, l’ha ereditato dal padre. Forse è per questo che sfodera un sorriso zen, quando gli chiedo il prezzo e mi preparo a trattare: ottocento è troppo, seicento è giusto.

“Voglio solo quattrocentosettanta euro” annuncia lui.

Ho la faccia di culo di chiedergli uno sconto.

Ovviamente respinge la richiesta, ma si vede che gli sto simpatica. Quello che non sa è che, due ore prima del nostro incontro, mia madre mi ha chiamato per annunciarmi che la nonna era morta. Poche settimane prima, a Pasqua, nonna mi aveva rimproverato benevola perché non ero andata da lei.

La reazione immediata alla notizia è stata quella di “fare cose”: dopo una ricerca folle quanto vana per partire quella notte stessa, ho acquistato il biglietto aereo per presenziare almeno al funerale. Poi mi sono sciacquata il viso: non potevo permettermi di aspettare oltre, dovevo aggiudicarmi l’attico prima di partire.

Salutato il mio nuovo padrone di casa, per omaggiare la nonna visito tutte le chiese che trovo: mi incuriosiscono le madonne sugli altari. Quella del Carme quasi si dimentica di reggere il bambino, che sembra schiaffato lì a giustificare la presenza di una donna su un altare cristiano. La Grande Madre è ancora tra noi, direbbe la junghiana.

Mia nonna era la grande madre della “famiglia degli gnocchi sfatti“. La sua, di madre, l’aveva messa a balia quando era ancora più piccola di quel bambino sull’altare, e la balia era come una madre per lei. Quando la famiglia di sangue se l’era “ripresa”, lei aveva pianto molto. Ti riportiamo a casa, le avevano promesso. Chissà se nonna si sentì mai a casa da qualche parte.  

È come uno strappo che nella mia famiglia, saltando qualche generazione, si trasmette di donna in donna: la separazione da una casa reale o immaginaria, che resta lontana anche quando ci siamo dentro.

Gli uomini che ci procuriamo “noi dello strappo” sembrano più brillanti, più interessanti di noi, ma è così evidente che siamo noi a sostenerli che mi chiedo come il particolare sfugga ai più. Mentre accenno un inchino alla madonna del Carme, mi rendo conto che da quando sono adulta mi deve ancora succedere, che uno sostenga me.

***

Chi vive fuori arriva sempre tardi.

Ammesso che fai in tempo per l’addio, non sei stata lì fin dalle prime ore. Sei eternamente in difetto con chi resta.

Io sostengo mia madre nella camminata rituale dietro al feretro: vedere mamma struccata in mezzo a tanta gente mi dà la misura del suo dolore, dello scompiglio portato da un lutto. Stringo mani, mi faccio strada tra volti che non riconosco più, mentre cerco una risposta adeguata alle condoglianze.

Quando mamma annuncia al cimitero che le ossa del nonno riposeranno insieme alla moglie, senza pensarci commento: “Certo che lui sarà entusiasta!”. Lo dico perché coi cugini, passeggiando tra i viali costeggiati da lapidi, abbiamo appena rievocato i litigi un po’ comici di quella coppia d’altri tempi. Anche mamma risponde con uno scherzo, ma si vede che c’è rimasta un po’ male.

“Too much” commenterebbe forse Bruno. Penso a lui solo in quel momento, e penso pure allo Spazio. Devo ripartire la mattina presto per quella sorta di tirocinio che inizia proprio l’indomani: perché l’omologazione funzioni, la frequenza dev’essere obbligatoria. Mia madre è livida al pensiero che io riparta già, ma le ho promesso che tornerò.

Penso a tutto questo mentre vedo la nicchia richiudersi sulla mia infanzia, sui nonni e sui loro litigi davanti agli gnocchi che si sfrangiavano nel cucchiaio. A riscuotermi è una voce che ricordavo giovane. Girandomi mi trovo davanti un uomo distinto, dai capelli bianchi.

“Questa signorina da piccola era splendida, e adesso è solo bellissima!”.

Ci metto un po’ a riconoscere il mio “primo amore”: così lo chiamavano ridendo, in famiglia, quando a quattro anni lo invocavo per giocarci insieme. Lui di anni ne aveva una ventina, e mi trovava molto buffa, e adesso che ha una moglie della mia età è tra quelli che ancora mi ricordano come “una delle più belle bambine mai incontrate”.  

“E poi cos’è successo?” provo a sorridere.

Ma lui me l’ha appena detto con adulazione affettuosa: da bambina ero meravigliosa, adesso sono “solo” bellissima. Tra me e me lo correggo: più che altro sono “solo” io, io e basta.  

Prima di lasciare il cimitero, un fratello di mio padre ha sottratto dei fiori freschi alla nicchia appena chiusa: li ha portati alla mia nonna paterna, che non ho mai conosciuto. Le mie due nonne erano colleghe a scuola, ed erano cresciute insieme come sorelle. Lo zio è soddisfatto del suo furto innocente:

“A mamma ho detto: ‘Te li manda l’amica tua’”.

Il giorno dopo, mentre scendo dall’aereo che mi ha ricondotta a Barcellona, mi accorgo che non sono tornata da sola: mi sono portata dietro tutte le donne della mia famiglia.

D’ora in avanti camminano tutte insieme a me.

A mercoledì per il seguito!

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Il Mondo

L’amico scuote l’aureola.

“No!” grido.

L’ho stupito: osserva meglio la madonna di legno che sta torturando.

“Vuoi dire che questo cerchio non serve ad appendere la statuetta?”.

Sorrido. Ormai dovrei sapere che ciò che è sacro per qualcuno è ridicolo per qualcun altro. L’amico è un ex vicino del Raval, ha partecipato anche lui alla mia mudanza col carrello da spesa che ha parcheggiato nell’androne: gli cedo gratis le madonnine kitsch e i quadretti che tre mesi prima, al mio compleanno, mi avevano raccomandato di provare a vendere. Ma io voglio sgomberare la casa prima possibile.

“E questa cos’è?” interroga l’amico.

Non vedo subito l’oggetto che mi ha indicato: sto controllando di nuovo il cellulare. Un tempo aspettavo i messaggi di Bruno, adesso a farsi desiderare è il proprietario dell’attico gelido, che a quanto pare è ancora in affitto. Ma sono tenace: ho trascorso il pomeriggio di Pasqua nei pressi del palazzo dove si trova l’attico, in un parchetto del Poble-sec dalle pergole ricoperte di glicini. A vivere da quelle parti, mi rimetterei più in fretta. Ho ripensato a mia nonna, che si rammaricava da Skype perché non ero da lei per Pasqua, ma uscendo dal parco ho sorpassato palazzetti bassi dai colori pastello, e gli edifici moderni del Passeig de l’Exposició, coi balconi di lamiera colorati da qualche bandiera indipendentista. La mia sorpresa mi ha divertito: un quartiere di Barcellona che fosse ancora abitato da barcellonesi? Qualcuno in quelle case sperava in un futuro migliore, e in quello, almeno, volevo credere anch’io.  

“Vabbè, questa roba te la lascio”.

Finalmente mi giro, sorprendendo l’amico nell’atto di cacciarsi un Gesù Bambino nella sporta già piena: l’oggetto che mi indicava prima era la mangiatoia.

“Con ‘questa roba’ il bambinello vale di più” gli assicuro.

“Allora è una culla? Anche se è piena di paglia?”.

“Serviva a nutrire un bue”.

Quello crolla il capo. Forse si chiede a che prezzo possa vendere quella paccottiglia incomprensibile.

Anche io ho tante domande su ciò che farò: il trasloco, il mezzo tirocinio che mi inizia allo Spazio… E poi la Petulante mi ha già bocciato il progetto principale.

“Mettiamo pure che trasformi casa tua in un AirBnb: di tutte le persone che te lo potevano gestire, hai scelto proprio…?”.

Non è come pensa, mi ripeto salutando l’amico che si allontana col carrello pieno. Non so ancora niente di licenze turistiche, di permessi e lotte alla gentrificazione, ma sono sicura di una cosa: con Bruno non ci sarebbero contatti. Se accetta la proposta di gestirmi la casa, ci sarà un solo incontro, per un rapido scambio di chiavi, e il resto saranno comunicazioni di servizio e versamenti bancari. Bruno ha bisogno di soldi, e io ora so che, semmai fosse possibile, dovrebbe tornare lui da me e non viceversa. Rinunciare a lui non significa smettere di volerlo aiutare.

È anche per questo che sgombero casa: l’amico agente immobiliare ha già portato degli studenti a vederla, ma nessuno la vuole, è troppo vecchia e lugubre.

Dopo che ho inviato a Bruno la “proposta indecente”, sono così tesa che uscendo dimentico la penna. Me ne accorgo che ormai sono a un passo dalla biblioteca, in una zona senza cartolerie, e per non darmi della cretina mi appello a quei manuali fumosi che sto leggendo sulla sincronicità junghiana: che la mia sbadataggine porti con sé una lezione?

Forse devo accettare con umiltà i miei errori più scemi, oppure devo imparare a chiedere quando ho bisogno di qualcosa, fosse anche una penna in prestito! Ma no, perché? Per una volta mi godrò le letture junghiane senza l’ossessione di prendere appunti…

Entro in biblioteca e, proprio accanto ai tornelli, la vedo.

Chiedo un po’ in giro ma no, non appartiene a nessuno; una penna in biblioteca, che coincidenza incredibile! Il bello è che, rapita dai miei pensieri, quasi non la notavo: forse questa è l’unica lezione possibile.

L’ho appena raccattata, quando mi telefona Bruno.

***

Mentre mi parla inizio a camminare.

Sto avanzando verso la Rambla del Raval, ma stavolta non seguo la strada del mare. Sono solo affari, ricordo, e lui è un po’ impacciato ma gentile: prima di discutere del progetto deve darmi una notizia che “forse già conosco”. Si sposa, decido. La Biondissima è incinta e si trasferiranno nel suo paese, dove lui insegnerà italiano e saranno felici, e…

“Parto”.

Guardo davanti a me la strada sozza, e penso subito a un tarocco che nei mesi più bui pescavo spesso, se mi interrogavo su Bruno: il Mondo. Spesso indica un viaggio. Che scema che ero: Bruno non parte mai. Minaccia sempre di farlo, poi resta. Almeno so per certo che con la Biondissima è finita: dal tono di lui è evidente che quella partenza è una fuga.

All’improvviso c’è qualcosa di nuovo a unirmi a questo Bruno sconosciuto. È una sorta di pietà, forse reciproca: un’umanità di amanti sconfitti, distrutti dai propri sbagli.

Lui invece non afferra i miei accenni ad analisi mediche, alle compresse che ancora prendo per assicurarmi di non produrre latte… In che senso, vuole sapere. Forse gli verrebbe più facile credere di avermi messa incinta, piuttosto che immaginarmi insonne e inappetente (e piena di latte!) per qualcosa che lo riguardi in prima persona.

Quando riattacco non so ancora che Bruno farà il prezioso per un po’, poi respingerà la mia offerta. È facile da immaginare, ma sono troppo distratta dalla scoperta che il mondo è uguale a prima. In fondo, alla Biondissima avevo dato tre mesi, e poi mi viene in mente una frase lapidaria di mamma al telefono, nel caos dei primi tempi senza mangiare.

Che lui stia con un’altra o entri in convento, a te che importa? L’unica questione che ti riguarda è che non vuole stare con te.

Il bello è che stavolta non gli servirei neanche per consolarsi: è chiaro che a questo dolore qua non vuole rinunciare. E io?

Io sono occupata a nutrire questa forza che non mi molla più, che dopo anni di abbandono pretende tutta la mia attenzione.

Il mio corpo, adesso, è aperto solo a lei.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

A lunedì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

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Presenze

Da cosedinapoli.com

Non mancano i volti buoni.

Nella Casa degli spiriti approdano due amici di passaggio per Barcellona, reduci entrambi da una rottura sentimentale. Uno dei due, napoletano, non fa che ripetere che “noi donne” siamo questo e quest’altro, al punto che resto zitta solo perché non ho le forze per replicare. L’altro, madrileno, l’ha presa così bene che il tempo di posare la valigia e sta già chiacchierando su Skype con l’ex. Alla fine ci tornerà insieme e avranno due bambini, ma intanto ci indottrina: si no puede ser, no puede ser. Perché noi italiani la facciamo così tragica? Tutta colpa del Vaticano! Io e l’altro napoletano dovremmo dare uno schiaffo morale al papa e coricarci insieme: almeno ci facciamo compagnia…

“Perché non ci dormi tu, con me?” lo sfotto, strizzando l’occhio al napoletano. “Voi spagnoli parlate tanto, ma poi…”.

Lo vediamo filare nella stanza degli ospiti, e ne ridiamo. Quella volta non mi sveglio alle cinque del mattino per piangere.

Viene anche mia madre, per “aiutarmi coi lavori in casa”: forse quello è il primo viaggio che fa da sola. Mi hanno sempre affascinato le donne della mia vita, coi loro gnocchi sfatti e le scelte così diverse dalle mie. Mamma mi porta tante cose da mangiare, e La Settimana enigmistica, che diventa il suo passatempo barcellonese insieme alla lettura delle notizie: al contrario di me non ama uscire, e adora la casa che io detesto.

Non saprò mai in che lingua riesca a litigare col capomastro, un giovedì che rincaso tardi per ritirare della paella da asporto. Dai monosillabi di lui capisco che mamma si è “permessa” di suggerire un colore diverso da quello concordato per tinteggiare le stanze, e lui non può prendere ordini da due clienti diverse. O da due donne? Non glielo chiedo. È ormai evidente che si era accollato la tinteggiatura solo per aggiudicarsi l’impianto elettrico (per il quale poi non mi rilascerà l’apposito bollino). Anche stavolta il mio corpo agisce prima di me, e mentre accompagno alla porta il furfante sto già chiamando un imbianchino suggerito da un altro frequentatore dello Spazio: un artista che pretenderà subito le chiavi, per poter dare priorità ad altri incarichi, e dopo un mese di tinteggiature notturne e capatine alla dispensa non mi praticherà lo sconto promesso.

Se i lavori in casa sono un inferno, quelli a Barcellona lo sono di più.

L’artista-imbianchino si farà aiutare proprio dall’amico che me l’aveva consigliato (altra coincidenza strabiliante!), e che mi saluterà ironico al mattino, quando mi vedrà uscire dalla stanza a mezzogiorno passato.

Non gli spiegherò che a volte piango fino all’alba, quindi mi addormento tardissimo, e comunque mi tengo il computer sul comodino, in caso sia abbastanza lucida per seguire il corsetto online. A tinteggiatura finita, sotto la mano di pittura fresca scorgerò ancora brandelli di parato.

Poco prima che mia madre riparta, un’attrice napoletana viene a propormi un progetto artistico che non andrà in porto, e a darmi una dritta: nel suo palazzo al Poble-sec si sta liberando un atticuccio piccolo e gelido, e a buon mercato. Aspetto che mamma prenda l’aereo per contattare il proprietario. La Casa degli spiriti sfida ogni mio tentativo di sentirmici bene.

Per qualche giorno mi fa visita pure una madre che mi sono scelta io: la professoressa che mi ha iniziata al femminismo accademico, e che tutta entusiasta farà avanti e indietro con dépliant di musei e bigiotteria da mercatino, chiedendosi perché io sia così refrattaria a divertirmi.

In suo onore invito gente dello Spazio, armata di bombolette e striscioni intonsi: parteciperemo al corteo dell’8 marzo! In mailing list ho scherzato sul fatto che stavolta non griderò lo slogan “La taglia 38 mi stringe la patata!”, e un’attivista queer si è prodigata in una filippica sull’uso dell’ironia nella lotta al patriarcato. Ho capito, replico, ma ormai la 38 non mi stringe un bel niente. Dovrei forse restare a casa?

No. Mentre prepariamo gli striscioni, qualcuno chiede notizie di Bruno: a quanto pare non frequenta lo Spazio da un po’ (come me, d’altronde), e non si trova in un periodo felice. Prima che gli altri possano replicare, scappo a preparare altro caffè.

Alla manifestazione mi diverto, grido slogan, mi commuovo. Un video dei The Jackal mi ha confermato che l’8 marzo in Italia significa ancora mimose e spogliarelli, e questa cosa a quanto pare farebbe molto ridere. A Barcellona, mentre il corteo si prende tutto il centro, la vetrina di un negozio italiano di intimo viene bombardata di scritte, con sommo scandalo della figlia di un Guardia Civil, trascinata alla manifestazione da una collega che bazzica lo Spazio. Io fisso come ipnotizzata quei reggiseni di pizzo dozzinale, imbottiti pure se vestono una terza abbondante. A seppellirli è bastato un colpo di bomboletta: “Stop alla pressione estetica!”. È la prima volta che mi imbatto in quell’espressione.

“Noi uomini pretendiamo troppo da voi” aveva ammesso Bruno una volta. La frase mi aveva infastidito anche così: qualsiasi pretesa era troppo, non importava se fosse grande o piccola…

Scaccio via il ricordo e agito di più lo striscione.

Qualsiasi cosa pretenda Bruno, non è più affar mio.

A mercoledì per il seguito!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

L’unico invitato

Da Decopompoms, su Etsy

Ma sì, proviamo.

Ormai mangio almeno due pasti al giorno, e dormo più di cinque ore. E poi quand’è che ricompio gli anni di Cristo? Inoltro l’invito a tutte le mailing list, e poi chi viene viene.

Gli psicodrammi mi invadono casa prima ancora che la festa inizi. Il tipo che mesi prima mi aveva chiesto di mediare con la ex mi chiama ora per sapere se può portarsi dietro “un’amica”. Avvisata della richiesta, la ex annuncia che non parteciperà più, anche se il tipo intanto ha deciso a sua volta di rinunciare al suo “+1”. Alla fine il tipo si presenterà da solo, verificherà l’assenza della ex e telefonerà all’amica per farsi raggiungere. Continua la saga dei trentenni con vite sentimentali da scuola dell’obbligo, e io non posso fare la morale a nessuno.

Per mediare invano tra le parti in causa, arrivo un po’ in ritardo all’appuntamento con la parrucchiera: voglio rimuovermi dai capelli il biondo giallastro che mi rendeva un incrocio tra Shakira e Lady Gaga, e ritrovare il mio colore naturale, anche se tutto ciò che posso fare è avvicinarmici con un’ulteriore tinta, un’altra finzione. Tempo al tempo, mi consiglia questa latina di Miami che nella mia vita ha sostituito le catene di parrucchieri, con le apprendiste che mi facevano troppo bionda e si dileguavano in cerca di un lavoro migliore. Questa qui, invece, promette di rimanere.

A casa recupero ombretti e pennelli, ma il correttore non mi riesce a nascondere le occhiaie, e sul volto smunto il mio naso sembra enorme, la bocca larghissima. Il vestito è nero e stretto, con l’orlo di pizzo sulle coppe preformate: fasciata in quello, sembro ancora più magra.

Per l’occasione Bruno è tra i primi ad arrivare. A meno di non contattarlo apposta, mi era impossibile verificare se venisse, né sapevo cosa sperare. C’è come uno scollamento tra il pensiero costante di lui e la visione di quest’uomo coi capelli più lunghi, che come regalo mi ha portato anche quest’anno qualcosa da mangiare. È in bolletta e non trova lavoro, o così gli sento spiegare, in inglese, a una donna alle spalle del buffet. Quando mi giro a vedere chi sia la sua interlocutrice soffoco un’imprecazione: a lei non avevo pensato. Mi ero preparata alla possibilità che Bruno passasse il mio compleanno a sdilinquirsi, come l’anno scorso, davanti all’amica Occhiblù, che si è presentata subito dopo il lavoro facendomi sentire un verme, per il diradarsi dei nostri contatti.

Invece non avevo pensato a questa ex collega dell’azienda che mi aveva licenziata: è proprio il suo tipo, magra e squadrata, gli occhi verdi spalancati in un’espressiome di eterna meraviglia. E la Biondissima, allora? Non devo chiedermelo, devo badare agli altri invitati. Una ragazza che mi ha regalato una crema profumata si lamenta: e la torta? Non ci avevo neanche pensato, né a quella né alle candeline… Avrei avuto paura a esprimere il desiderio.

Il mio stato d’allarme dura poco: Bruno finisce per isolarsi da tutti, gli occhi puntati sul cellulare. Mi tocca tornare a rispondere alla gente che mi dice che sto benissimo in quel vestito, ma cavoli, tanti chili persi saranno salutari?

Verso mezzanotte, i pochi invitati rimasti si stanno organizzando per andare in un bar, a prendere il bicchiere della staffa. Incapace di accompagnarli mi piazzo sulla porta di casa, per il rituale dei saluti.

Ancora auguri, grazie per la festa. Grazie a te.

Ciao, auguri, alla prossima. A presto.

Solo Bruno mi passa davanti in silenzio, gli occhi incollati al telefonino. Riesce a scendersi mezza rampa di scale prima che qualcuno lo rimproveri: che fa, non saluta la festeggiata?

Allora alza la testa tutto confuso, come quando dormivamo abbracciati e si risvegliava troppo presto, svegliando anche me. Stavolta sembra sorpreso di trovarsi su quelle scale, e per un istante deve strizzare gli occhi per mettermi a fuoco.

“Ah, sì, ciao” mugugna, tracciando un gesto nell’aria. E torna al telefonino.

Un giorno mi accennerà che associa la Casa degli spiriti a un brutto ricordo, una brutta notizia ricevuta proprio alla mia festa. Non ho voluto approfondire finché non ho iniziato a scrivere queste pagine, e d’altronde non era necessario. La Casa degli spiriti, teatro delle mie ore più cupe, era per lui associata al ricordo di un’altra. Dell’altra.

Ma sul momento ignoro tutto questo. So soltanto che un unico invitato, tra tutti gli amici e i conoscenti e gli imbucati senza preavviso, un unico invitato se ne stava andando senza salutare, senza neanche riuscire a scorgermi mentre lo guardavo desolata.

Così concludo la serata tra il divano e il balcone, distesa a piangere su un tappeto rosso su cui qualcuno ha fatto cadere dello champagne.

A lunedì per il seguito!

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Mr. Brightside

Ballatoio della palestra Can Ricart, in una foto di TimeOut

Perché no?

Dall’Italia sono partita con qualche etto in più, e con la rinnovata usanza di mangiare tre volte al giorno (anche se lascio il piatto a metà). D’altronde l’I-Ching mi dava spesso come responso l’esagramma 27, “Gli angoli della bocca”. Dovevo mangiare. Ma l’oracolo definitivo era stato mia nonna: se me lo ordinava lei, recuperare l’appetito era un obbligo!

A questo punto, perché non tornare in palestra? Se mi sento troppo debole, mollo dopo un quarto d’ora e torno a casa.

Mentre mi immergo nel riscaldamento (venti minuti di cyclette) considero che anche l’Amico per eccellenza mi ha fatto bene, con la sua presenza muta e solidale nella mia cameretta di bambina. Sta parlando di “venirmi a trovare” a Barcellona, ed è un’ottima idea: così lui si trova un lavoro decente, o migliore di quelli che becca in paese, e io mi godo il suo sostegno. L’isolamento in cui sono caduta è un problema.

Approfittando di questi passetti da formica, sto provando a rendere abitabile la mia Casa degli spiriti: c’è da rifare l’impianto elettrico, altrimenti il pericolo per me non saranno certo i fantasmi… Comincia a premermi la mia incolumità, ed era ora, dopo quattro mesi passati in quello scenario da horror. Il capomastro mi è stato consigliato all’unisono dal Figo e dai suoi Morti: che sia un loro compagno di bevute? Con una certa spavalderia, quell’uomo latino coi capelli già bianchi mi ha annunciato che, per mille euro in più, potrebbe perfino tinteggiarmi le pareti ingiallite… Ma a incarico ottenuto ha cominciato subito a pentirsi dell’azzardo.

Mentre accelero la pedalata sto scegliendo il colore da dare alle stanze, e intanto mi guardo intorno: non sono l’unica a fare progetti! Il ballatoio degli esercizi cardio è cambiato, come pure la sala attrezzi al piano di sotto. Da quanto tempo manco? Quella fabbrica riqualificata dal comune inizia a prendersi sul serio. I pannelli che ho visto esposti all’ingresso mostravano la sua trasformazione in club sportivo a vocazione multietnica. Forse era per questo che l’uomo col mastino detestava l’“ambientaccio”, e i giovani immigrati che lo popolavano. Ma l’uomo col mastino è finito chissà dove, dopo il suo sfratto senza gloria, e io sono ancora lì, a rimettermi in sesto insieme alla palestra multietnica.

Fortuna che ho scovato l’unica cyclette libera sul ballatoio. Continuo a pedalare a velocità moderata, con gli occhi rivolti ai monitor accesi lungo la parete di fronte. La tuta mi scende troppo sui fianchi e rimango subito col fiatone, ma mi perdono anche quello. Comincio a perdonarmi un bel po’ di cose.

Ho abbassato gli occhi un momento per risollevarmi i pantaloni, ma li ripianto sul monitor, ipnotizzata da un giro di chitarra che mi pare angosciante. Quello lì è il cantante dei The Killers? Sì, e la canzone dev’essere vecchiotta, ma il video sembra recente: una ragazza dalla pelle di latte è contesa tra un attore famoso e il cantante stesso, che appare angosciato sul serio mentre vede flirtare la fidanzata col rivale… Oddio, i pedali. Dove sono finiti?

But she’s touching his chest now

He takes off her dress now

Let me go…

I miei piedi rallentano senza riuscire a frenare. I raggi della bicicietta seguono un ritmo loro.

I just can’t look it’s killing me

They’re taking control

Ed eccoli, su tutti gli schermi: Bruno e la Biondissima. A reti unificate i loro capelli si confondono sullo stesso cuscino. Il mio.

Jealousy

Turning saints into the sea

Qualcuno spenga i monitor, o inizio a urlare.

But it’s just the price I pay

Destiny is calling me

I miei piedi si devono riabituare al suolo prima che mi giri troppo la testa. Tanto la mia pedalata non portava in nessun posto. E poi la Petulante me lo raccomanda sempre.

Open up my eager eyes

Quando sono imprigionata nella mia testa, dice la Petulante, devo premere i piedi sul pavimento…

Cause I’m Mr. Brightside.

Così me lo ricordo subito.

I never… I never…

Così ricordo subito che il mio presente è qui.

A mercoledì per il seguito!

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Risonanze

La bara è lunga e fa un rumore strano.

Lì dentro ho tutto il tempo di ripensare alla sera dell’evento di beneficenza, e a quando poi sono riuscita a mangiare.

L’ho fatto a casa, lontano da Bruno che ho lasciato a lamentarsi con una delle fumatrici sotto il palazzo: una che non gli piaceva, ho valutato odiandomi. Lui spiegava alla fumatrice che per poco non si perdeva l’evento, con tutte le cose che aveva da fare, e nel vetro della porta illuminato da un lampione l’avevo sorpreso a scrutarmi le calze. O magari me l’ero sognato. Magari aveva notato anche stavolta qualche smagliatura nella trama.

Papà invece mi ha squadrato le gambette ossute nei leggings, mentre metteva la mia valigia nel portabagagli, e mi ha subito annunciato che detestava i tarocchi: era un uomo di scienza, lui! “Santa Madre scienza”, l’ho sfottuto.

Da allora lui storpia il nome dell’I-Ching, e conia massime in napoletano contro Jung. Soprattutto detesta il mio corpo, com’è adesso: alla vigilia ho mangiato solo broccoli e lui ha paura, è convinto che io abbia qualche male fisico. Le analisi mediche che mi ha subito inflitto sembrano confermare la sua teoria.

Così sono finita in questa bara oblunga e buia, ad ascoltare rumori strani. I miei livelli di prolattina sono molto alti: da che avevo il ciclo ritardato, adesso potrei addirittura star producendo latte! Interpellata a distanza per gli auguri di Natale, la psicologa junghiana si è premurata di annunciarmi che “mi sto partorendo”.

E invece mio padre mi ha seppellita qui dentro: giorni fa, andando in cucina, ho capito dai sorrisi dei miei familiari che quella era un’imboscata. Avevano già prenotato in clinica, tutto quello che dovevo fare io era sottopormi alla risonanza, e ricordarmi che l’avevano fatto per me. Una volta in clinica, quel distratto cronico di mio padre pretendeva pure che trovassi io il reparto, con la solita notte insonne alle spalle. A quel punto gli ho soffiato in faccia: “Guarda che possiamo aiutare solo chi lo desidera”.

Nel sarcofago divento cintura nera di meditazione: trascorro i venti minuti della risonanza in un viaggio astrale, o qualcosa del genere. Tanto il mio stomaco è talmente vacante che potrei pure vedere la Madonna.

Ovvio che la risonanza non rileva niente di irregolare. In compenso, mi rivela una volta per tutte che ne ho abbastanza. Cristo, sono diventata una lagna! Dai bassifondi della mia mente riaffiora un briciolo di ironia.

Una sera di quelle anonime tra Natale e Capodanno, gioco con due amici su Facebook a storpiare i nomi dei quartieri di Barcellona, associandoli a libri e film famosi: vince a man bassa “Il diario di Hostafrancs”. Rido come una scema, poi me ne accorgo. È questo che voglio per me.

Voglio divertirmi come sto facendo con questi scherzi idioti, e come facevo con Bruno la prima notte passata a ridere, a dirci scemenze fino alle quattro. Quelle risate le ho pagate abbastanza, le rivoglio.

Anche quest’anno mi capita di riascoltare quella canzone napoletana che tradotta si chiama “Uccidimi“, e non andava mica presa alla lettera, ma ormai è andata così.

Prima di capodanno, arriva il terremoto. Il mio istinto di sopravvivenza funziona abbastanza da catapultarmi fuori dal bagno senza scaricare.

In corridoio trovo mia madre appoggiata allo stipite della cucina, come se in quel gesto reggesse tutta la casa. Allora mi appoggio anch’io a una porta a vetri troppo fragile per non tremare tutta. È come se quella fragilità fosse l’unica cosa da salvare.

Ci guardiamo, mamma e io, come vestali assorte in un rito strano, finché le oscillazioni non si fermano. Allora fanno capolino anche gli uomini di casa, che erano rimasti chiusi nelle stanze ad aspettare. Mio padre si mette a cercare su Google, in tutte le lingue, come si dice “È passato il terremoto”.

A quel punto me ne rendo conto: la prima cosa che ho pensato, subito dopo la mia fuga dal bagno, è stata che mi toccava sprofondare in un vortice di detriti senza salutare Bruno. Senza dirgli che lo amavo, e che in fin dei conti non mi dispiaceva, pensarlo felice.

Adesso, però, voglio esserlo anch’io.

A lunedì per il seguito!

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Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Implacabile

Sul palco mi assale il silenzio.

L’unico faretto rosso è puntato sul mio abito corto, sulle calze traforate, e sul trucco che all’improvviso, più che gli Hunger Games, mi sembra richiamare Jem e le Holograms.

Allora mi passa davanti tutta la vita, o almeno l’ultima settimana.

Lunedì c’è stata la delusione della Strategica: come mi permettevo di essere ancora in quelle condizioni? Come se il suo metodo fosse fuffa…! Almeno, per l’evento di beneficenza che preparavo da mesi, dovevo presentarmi tutta fiera e ben vestita, come se dovessi andare sul “red carpet”. Invece, due ore prima di salire su questo palco ero ancora sul letto, in pigiama e calzini di spugna, col mio lauto pranzo (una tazza di tè con due fette biscottate) e una copia di The Hunger Games.

Martedì l’amico omeopata mi ha accostato le mani alla parte alta del petto, senza toccarmi, e tornando dal suo studio ho starnutito un muco denso e nero. L’amico, avvisato via messaggio, ha dichiarato di aver avvertito una sorta di vuoto all’altezza dei miei polmoni.

“Che fortunato!” ha sbraitato mio padre mercoledì, su Skype. “Io sono medico e, se non tocco un paziente con tutte e due le mani, non ‘avverto’ nessun linfonodo. E il paziente muore”.

Mi aspetta al varco, papà, col suo arsenale di gocce per dormire, vitamine e pastiglie assortite. Io non capisco: una pastiglia di ferro impedirebbe forse a Bruno di presentarsi qui allo Spazio con la Biondissima, adesso che mi tocca stare sul palco a fare gli onori di casa? A quanto pare, non ho i lineamenti abbastanza affilati da impedirlo.

Per non vomitare, ho letto tutto il giorno. Non Jung, ma romanzi di fantascienza, o fantasy. Non riesco più ad abitare la realtà, che mi pende di dosso come le tute che ormai uso per tutto. Il giorno prima, un giovedì, ho ceduto i miei vestiti più belli a una ragazza che è venuta a pulire la mia casa ingestibile, e che forse (ma non me l’ha confessato) metterà in vendita gli abiti di Guess, a parte uno che le sta benissimo.

Mi è rimasto un completo nero: una maglia con un taglietto centrale lì dove dovrei avere il seno, e una gonna asimmetrica che adesso avrebbe bisogno di una cintura. A quel pensiero ho disertato i preparativi per l’evento, mentre continuavo a leggere The Hunger Games come un’adolescente. Nel secondo volume la protagonista viene buttata di nuovo nell’arena, dove sfila su una biga infuocata. Prima, però, si è fatta applicare del trucco rosso fiamma. Vuole apparire subito ai suoi carnefici per com’è adesso: unforgiving. Implacabile.

Ripetevo la parola come un mantra due ore fa, mentre stavo per cadere nel sonno e non facevo niente per impedirlo: avevo proprio bisogno di una pennica pomeridiana… Ma all’improvviso le mie dita hanno serrato il libro che già scivolava di mano, e ho capito: era tornata.

Era la stessa Forza che quando ho saputo della Biondissima si è impossessata delle mie gambe, portandomi fino al mare, e che una notte mi ha insegnato a inabissarmi nelle acque più nere. Adesso si era assunta il compito improvviso, e all’apparenza semplice, di buttarmi sotto la doccia. Dopo, avvolta in una nuvola di vapore, mi sono scoperta a scegliere certi ombretti bordeaux e vinaccia che non avevo mai osato indossare: ammesso che li notasse, lui non avrebbe apprezzato.

Ma io sì.   

In strada le mie gambe, fasciate in calze color ruggine che sembrano fatte a uncinetto, hanno bruciato le poche centinaia di metri che mi separavano dallo Spazio. I Morti di Figo implicati nell’organizzazione sembravano accontentarsi del mio ruolo da bella statuina, finché…

“Come si dice ‘beneficenza’ in catalano?”.

Me lo ha chiesto mezz’ora fa l’anziano patron dello Spazio: un veterano della comunità italiana che sgancia offerte generose, dunque si è aggiudicato il compito di fare il discorsetto di chiusura dell’evento. Dio santo, perché voleva rivolgersi in catalano a un pubblico italiano?

“Non vorrai mica parlare spagnolo, tu!” si è scandalizzato il tipo quando gliel’ho fatto notare, e solo allora ho ricordato che era un indipendentista sardo.

Ho registrato anche il fatto che avrei parlato, che il Figo si era già messo d’accordo con l’addetto ai microfoni, e ho frenato a stento la tentazione di stanarlo, il Figo, di ricordargli chi comandava lì… Ma con che faccia lo avrei fatto? L’ho lasciato a organizzare tutto mentre ero in casa a leggere un romanzo per ragazzine. Vabbè, non posso neanche stare male, adesso?

Eccomi quindi su questo palco, coi riflettori puntati addosso e la voce che non si decide a tornarmi. Per fortuna Bruno sta battendo il record dei ritardi, così non dovrà allontanarsi in cerca di qualsiasi attività che non sia quella di starmi a sentire.

Il primo suono che emetto sembra il principio di un attacco d’asma. Poi schiarisco la voce in un saluto rauco. Che fine ha fatto la Forza che mi ha sbattuta dal letto alla doccia, e davanti allo specchio? Non finisco il pensiero che le mie labbra si schiudono di nuovo: quando comincio a parlare, riconosco nella mia voce incerta i suoni del catalano.  

Non dura neanche il minuto che auspicavo. Grazie per essere qui, sganciate i soldi per l’iniziativa benefica, visitate il nostro sito, buona serata. Ah, ricordatevi di mangiare qualcosa al buffet.

Finalmente posso tacere di nuovo, mentre assaporo con un principio di panico il silenzio che segue alle mie parole. Poi scoppia l’applauso.

Lo so che non è ammirazione, ma sollievo. Rispetto all’infaticabile oratore di prima sono stata a dir poco concisa! Sono così soddisfatta che potrei addirittura mangiare qualcosina anch’io…

Ma prima scendo a prendere un po’ d’aria, tra le ragazze che fumano fuori al portone e mi fanno festa: che belle calze, dicono, e mi scopro a sorridere mentre ricordo piano piano com’è che si chiacchiera… All’improvviso il capannello di fumatrici si apre in un movimento che mi ricorda la coreografia di un musical. Poi osservo il nuovo arrivato.

Per fortuna è venuto da solo.

A venerdì per il seguito!

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