Archivio degli articoli con tag: silenzio

Ecco qui (scorrendo dal basso) le puntate precedenti.

Alcuni nomi e fatti sono stati alterati per questioni di privacy, ma le cose sono andate più o meno così.

Da healthshots.com

Prima del silenzio

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere”.

Lo dice con un mezzo sorriso, ma ha gli occhi bassi. Lo dice perché mentre tirava un predicozzo dei suoi contro l’amore mordi e fuggi, e i corpi usati come passatempo, ho piantato i miei stivali sulla sedia (indosso di nuovo i jeans) e ho mormorato: “Come sei nobile”.

È l’unico momento di imbarazzo tra me e Bruno, alla festa di arrivederci a Già: il mio ragazzo starà via diversi mesi, per le ricerche relative al dottorato che sta finendo. Dopo, però, verrà a vivere con me, o magari ci troveremo un posto meno gelido e più grande, senza lutti a impregnarne le pareti.

A Già ho mostrato i quadri, i divani in penombra e i gatti stesi sui davanzali dipinti a olio. Gli ho detto che adesso ho fame di quelli, della serenità che mi trasmettono. Gli ho detto anche di Bruno, e del fatto che non so se mi riprenderò. Ma ce la metterò tutta, nell’ultimo anno non ho fatto altro che provarci. Anche questo mi sembra un tradimento, il più strano di tutti: cedo a Bruno la dignità di amante abbandonato, la palma di martire truffato dalla vita.

“Uno fa degli errori, ma poi si può anche correggere” mormora Bruno senza alzare gli occhi.

Siamo diventati l’uno l’errore dell’altra.

Alla fine un po’ ci riesco, a cambiargli la vita. Lo faccio quando ho smesso di provarci, e convivo con Già in una bella casa che, rispetto all’attico gelido, era giusto dietro l’angolo, come tante cose che cercavo invano. Dopo tutti i miei sforzi inutili, per cambiare la vita di Bruno mi basta girargli un’offerta di lavoro, che avevo rifiutato perché ormai ero insegnante. Stavolta quello di segnalargli offerte era un favore che aveva chiesto lui, una cosa che voleva, e a me ritornano in mente le parole che avevo sibilato a mio padre prima di quella assurda risonanza elettromagnetica: possiamo aiutare solo chi lo desidera.

A me ci pensa Già, che mi adora. E comunque non ha bisogno di farlo, per trattarmi bene. Nei mesi trascorsi lontano da Barcellona ha ascoltato spesso una canzone dei 24 Grana, gli stessi che cantavano “Uccidimi”. Questa di Già però era una canzone buffa, quasi allegra: da che neanche mi piaceva, è diventata pure mia. 

A un certo punto mi giunge voce che per Bruno c’è stata un’altra ragazza, dopo la Biondissima. Ma è finita presto, e con gran sorpresa dell’amico dello “scoop” (sempre lo stesso!) completo io il racconto: Bruno trovava che le mancasse qualcosa, e in ogni caso non poteva vederla spesso perché “aveva da fare”.

Ormai ho imparato che è inutile prenderla sul personale, chi ci ferisce non lo fa solo con noi. Non siamo “speciali” neanche in quello, ed è meglio così.

Questa storia finisce quando ritorno a sorpresa allo Spazio. Ho rinunciato da tempo a quell’incarico di rappresentanza e temo di non conoscere più nessuno, così ho chiesto a Già di accompagnarmi al concerto programmato per la serata. Con lui mi sono assegnata un progetto speciale: creare un rapporto così bello che, anche se finisse in malo modo (come succederà), vorremmo continuare a esserci nelle rispettive vite (come succederà).  

Tenendoci la mano salutiamo Bruno, intrappolato in una conversazione con una sconosciuta che gli piace, ma che trova noiosa. Mi accorgo all’istante di entrambe le cose, e mi ritrovo a lanciargli un’occhiata ironica, di quelle che ti aspetteresti dalla fidanzata di un amico. Mo’ ti arrangi, testone.

Bruno si svincola solo quando inizia il concerto del suo amico cantautore, lo stesso che era in visita la prima volta che lui mi ha spiegato che non ero niente di che. Un giorno scoprirò che dopo il concerto il cantautore, ignaro del fatto che nessuno sapesse, aveva detto di me: “È l’unica con cui ho visto Bruno star bene. Solo che con lei non ci voleva stare”.

Intanto, però, l’artista chiama Bruno dall’angolo che fa da palco: loro due, annuncia al pubblico, hanno scritto qualcosa insieme.

L’interpellato rifiuta di accostarsi al microfono, ma dall’angolino in cui me ne resto con Già lo vedo incurvare la schiena e capisco, mentre la canzone comincia.

Prima che inizi il silenzio, ho una cosa da chiederti.

La canzone parla di Bruno, e anche di me. Parla del suo dolore per la Biondissima, e del mio per lui. Non può farci niente, in quella canzone ci sono anch’io. C’è la sequenza del lutto che abbiamo provato entrambi in stanze separate, ugualmente buie e lontane: abbandono, incredulità, e una solitudine che verso la terza strofa diventa la tentazione oscena di andare avanti.

Prima che inizi il silenzio, tu vattene via.

Ogni nota mi risuona nel ventre che si contrae un momento, poi si distende insieme a me che già canto.

È qui che finisce la storia. Finisce col dolore di Bruno che è anche il mio, e finisce con la speranza che, per una volta, pure ci unisce. Ormai so che la nostra canzone non esiste, ma non importa.

Finalmente ho trovato una canzone per noi.

Grazie per aver letto Fame!

Se vi piace ciò che scrivo, date un’occhiata al mio Sam: non glielo ricordate, ma ha vinto un premio proprio figo.

Italiano Medio, finalmente online il trailer del film di Maccio ... Il compagno di quarantena ha delle questioni da risolvere altrove, e allora riscopro per qualche giorno quanto è bello starmene per conto mio.

Rifletto su ciò che mi sta insegnando questa reclusione forzata (perché non bisogna romanticizzarla, ma a me sì che sta insegnando molto), sulla vita che vorrei e gli errori che non mi va di ripetere. Per esempio, mi sto rendendo conto di un particolare odioso: in dodici anni a Barcellona mi sono ritrovata spesso a rassicurare il compagno di turno su qualcosa che lui non voleva e io sì.

Nomi inventati a parte, queste frasi le ho pronunciate quasi alla lettera:

“Ma no, Loris, tra di noi non c’è niente di serio! [È solo che ci frequentiamo da un anno e non vediamo nessun altro, ma vabbe’]“.

“Dai che usciamo solo un’oretta, Yusuf: ti prometto che il venerdì sera a Barcellona non è Satana! [E ci imbattemmo in una coppia ubriaca, che copulava contro la facciata di una chiesa]“.

“Ma figurati se sono rimasta incinta, Bob! [Peccato che ti mancava qualche lezione sulle api e sui fiori, facevi tanto l’intrepido e adesso *Lucarelli intensifies* paura, eh?]“.

Già vi vedo con la diagnosi pronta: questa mia passione per la solitudine mi ha portato a scegliermi compagni che mi garantissero di tornare single nell’arco di qualche mese. Anzi, parafrasando il post precedente, troncare in tempi record era solo il best case scenario!

Vi deluderò, psicologi della domenica: ho fatto un’analisi sociologica (prrr) delle mie conoscenze barcellonesi, e in effetti tutto dipende da chi mi capiti di frequentare quando interrompo la mia sostanziale, e sottovalutata, asocialità.

  • All’inizio, quando non avevo ancora trent’anni, mi ritrovavo per coinquilini dei nordici di passaggio o delle artistoidi della domenica, che mi presentavano amici affini a loro: immaginerete la stabilità di questi ultimi, su tutti i fronti!
  • In seguito, per questioni di associazionismo, sono stata costretta a frequentare di più la comunità italiana: per esperienza diretta vi garantisco, dunque, che non esportiamo solo i cervelli, che in realtà si saranno dati alla fuga per conto loro molto prima che i loro proprietari prendessero l’aereo.
  • Adesso, da quando per opportunismo sono finita in centro, sto avendo un regresso ai nordici di passaggio, che spesso di politica e questioni di genere ne capiscono tanto quanto habblan espanniowl.

In terre catalane non ho avuto occasione, dunque, di trovare la quadratura del cerchio: un uomo che fosse politicamente impegnato o intellettuale  q.b., senza avere i progetti di vita di un ragazzino di sedici anni. Intendiamoci, è sempre bello conservare il fanciullino interiore, ma forse non è auspicabilissimo girarsi tutti i chiringuitos del mondo e trombarsi pure i cannolicchi a mare (ma giusto per dimostrarti che puoi), finché non ti fermi dove t’impone la sciatica e ingravidi una trentenne a cinquant’anni.

Allora ho pensato che fosse questione di stare a Barcellona. Scriverò un post a parte sulla differente percezione del tempo e delle priorità tra paese di nascita e paese d’adozione: per il momento ammetto che, quando si espatria, è un sollievo evitare in parte la pressione sociale che si respirerebbe nella comunità d’appartenenza. Peccato che all’estero rischi di fare a quarant’anni la stessa vita che conducevi a venti, ma con la metà dei lavoretti di merda a tua disposizione. Finisce quindi che torni in Italia a “dare una mano” nell’attività di famiglia, e a fare da baby-sitter ai figli, ormai quasi adolescenti, dei congiunti rimasti là.

E se fossi rimasta io, invece, in Italia? In quel caso, secondo un rapido sondaggio tra le conoscenti che non sono emigrate, l’alternativa statisticamente più gettonata allo scenario di prima sarebbe stata: convolare a giuste nozze con un Tranquillone.

Non è un rischio che m’invento così, perché prima di partire ero circondata da esponenti di questo incrocio tra il “bravo ragazzo” e il bomber  (due figure in fondo sovrapponibili). Un tipo simpatico e praticissimo, con la vita tutto sommato programmata: magari se lo fa, il viaggetto “senza le fidanzate” a Cuba, però non ci vivrebbe mai. È un mito nel darti una mano con automobili scassate e mobili IKEA, che da sola, va da sé, non ti sapresti montare. Senza contare, si diceva, la simpatia!

Che ne so, è alto un metro e una vigorsol e pesa cento chili? Il dettaglio non lo scoraggia dallo sfottere la tua altezza e il tuo peso (che poi, “magari avessi qualche chilo di troppo nelle parti giuste“…) e sindacare sulla quantità di pelo che porti addosso. Anzi, studiando le coppie miste tipa sveglia-Tranquillone (che di solito all’estero resistono poco), noto un interessante fenomeno: quanto più la tipa supera il compagno per avvenenza e qualifiche, tanto più sarà bombardata di battutine passivo-aggressive, diventate ormai un elemento del gioco di coppia.

Ma tranquilla, tipa sveglia che ci sei cascata: il Tranquillone mica lo fa solo con te! Quando parla con gli amici ed è sicuro che tu non senta, poco ci manca che si abbassino tutti la cerniera dei pantaloni e ingaggino duelli di “gomorriana memoria” (popopo). Non manca qualche accenno, en passant e tanto per ridere, alle “nere in tangenziale”, però le più gettonate sono le svedesi immortalate su Instagram quella volta a Mykonos, prima che scappassero ridendo dall’inglese atroce di questi piccoli mediterranei chiassos… ehm, di questi latin lover! Perché il Tranquillone questo è, a sentire il resoconto delle sue vacanze: anche quando, sbiadita l’abbronzatura, passa di nuovo per il timido della comitiva. E se le straniere sono bone, gli stranieri sono quasi sempre delle mezze calzette, specie se neri e giovani, con il fisico scultoreo: quella è costituzione, buona al massimo per comprarsi un giocatore “potente ma senza tecnica” al Fantacalcio. Niente, infatti, ha il fascino della stempiatura precoce del Tranquillone, e della panza che mammà si assicura di mantenere della stessa misura da quando il Nostro aveva cinque anni, intanto che la sorella rifaceva il letto anche a lui. E non ci sarebbe niente di male almeno su stempiatura e panza, se il nostro Eroe della strada non fosse così pronto, ribadiamo, a giudicare i presunti difetti della ragazza di turno: però “glieli perdona”, ci mancherebbe, vista la fatica fatta nel conquistarla! All’inizio, infantti, se l’è dovuta lavorare per bene, a botta di messaggini strategici e conti pagati al ristorante. Pure dopo, comunque, lei “non ha mai finto l’orgasmo”, perché il Tranquillone ci sa fare. Mica è come l’amico (è sempre un amico a fare ‘ste cose) che l’estate scorsa ha incassato con la testa nella sabbia quella turista ubriaca a Barceloneta: si vedeva che il troione (ma è un modo di dire, fattela ‘na risata) era sceso dall’albergo con quel pensiero, e in ogni caso il Tranquillone sarà anche l’ultimo dei gentiluomini, ma certe cose non le fa. Lui sì che sa come si tratta una donna: ci provasse pure, la fidanzata di turno, a trovarne un altro che non la butti direttamente nell’indifferenziato! Anche se, sospira il Tranquillone, dovrebbe provare anche lui ogni tanto a “fare come gli altri”: a essere troppo buoni, ci si rimette sempre, e lui è stato cattivone solo con “quelle che se lo meritavano”.

D’altronde, una volta trovata “la ragazza giusta”, quella acqua e sapone della porta accanto, al ritorno dalla luna di miele il Tranquillone scoprirà all’improvviso che i letti non si rifanno da soli, stirare una camicia non è facile come sembra, e una cosa è gratinare un risottino alla Cracco per cinque amici una domenica all’anno (d’altronde i migliori chef sono uomini) e un’altra buttare la pasta per due ogni santo giorno: quindi sarà il primo ad ammettere che in casa “la sua signora fa di più”, senza per questo porre rimedio alla cosa. Lui, comunque, “ha sempre dato una mano”.

Ma la “signora” strizzerà l’occhio alle amiche e darà un bacio alla bambina che mantiene in braccio, e che è “la gioia di papà”: alla fine si sente fortunata, perché il Tranquillone è un pezzo di pane. Fa tanto lo sbruffone ma poi è un tipo “a posto”, che parla parla, ma intanto è lavoratore e ci tiene alla famiglia. Che fa, se qualche volta torna alle due di notte dalla “partita di calcetto”? I ragazzi si saranno fermati a bere una cosa, l’importante è che lui torna ogni volta. E comunque, in caso, la zoccola è sempre l’altra.

Lo so, la disparità economica tra donne e uomini è tale che il Tranquillone è sempe ‘na sistemazione, direbbe un comico salernitano, e nel paese dimenticato dal femminismo meglio uno tutto fumo e niente arrosto, rispetto a uno che ti fa arrosto. So pure che, con questa verità inoppugnabile, la discussione per molte finisce lì.

Beh, che dire: io che ho il privilegio di permettermi una casa vuota e un frigo pieno, in un aut aut tra il Peter Pan con la valigia e il Tranquillone con l’auto in leasing, sceglierei il silenzio.

È meraviglioso, il silenzio.

So però che le pressioni sociali ed economiche non sempre concedono a tutte una decisione ponderata: spero comunque che scegliamo la cosa più vicina alla nostra felicità.

Ma una felicità che non passi per essere te stessa e per circondarti di gente che ti rispetta, invece di “amarti a modo suo”, mi chiedo proprio che felicità possa essere, e spero di non scoprirlo mai.

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